Voci e volti della nonviolenza. 282



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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino"
Numero 282 del 7 gennaio 2009

In questo numero:
1. Nella colluvie di parole vuote
2. Avraham Burg: Vincere le guerre non e' piu' possibile
3. Luisa Morgantini: Una lettera aperta al ceto politico italiano
4. Rossana Rossanda: L'inerzia dell'Europa
5. Alcuni estratti da "Violenza senza legge" a cura di Marina Calloni (parte
prima)

1. EDITORIALE. NELLA COLLUVIE DI PAROLE VUOTE

Nella colluvie di parole vuote che in questi giorni ogni sorta di demagoghi
ha vomitato nelle nostre orecchie, vorremmo provare a riassumere alcuni
principi che a noi sembrano evidenti.
1. Nulla giustifica le uccisioni di esseri umani. La civilta' umana si regge
sul principio del riconoscere ad ogni essere umano il diritto a non essere
ucciso.
2. Non vi puo' essere una solidarieta' dimezzata, secondo la quale la vita
di qualcuno vale di piu' della vita di qualcun altro. Ogni essere umano ha
diritto a non essere ucciso. La solidarieta' deve raggiungere l'umanita'
intera: umanita' che si incarna in ogni persona.
3. Consistendo dell'uccisione di esseri umani, la guerra e' nemica assoluta
dell'umanita'.
4. La politica, che e' l'arte della civile convivenza, e' innanzitutto il
contrario della guerra e dell'uccidere. E' l'opposizione assoluta alla
guerra e all'uccidere.
5. Contrastare la guerra e' non solo necessario, ma anche possibile. Occorre
innanzitutto abolire i suoi strumenti e i suoi apparati: le armi e le
organizzazioni armate; le ideologie, le strutture e le prassi disumanizzanti
e omicide; le criminali iniquita' che favoriscono la propaganda della
convinzione secondo cui la vita propria o altrui non val la pena di essere
vissuta, rispettata, difesa, sostenuta.
6. Salvare le vite umane anziche' distruggerle: e' il compito della
civilta'.
7. Chiamiamo nonviolenza la politica oggi necessaria e possibile. Possibile
perche' necessaria.
8. Chiamiamo nonviolenza la politica ragionevole e possibile. Possibile
perche' ragionevole.
9. Tu non uccidere. Tu agisci nei confronti dell'altro come vorresti che
l'altro agisse verso di te. Il resto verra' da se'.
10. Solo la nonviolenza puo' salvare l'umanita'.

2. RIFLESSIONE. AVRAHAM BURG: VINCERE LE GUERRE NON E' PIU' POSSIBILE
[Ringraziamo Bruno Segre (per contatti: bsegre at yahoo.it) per averci messo a
disposizione nella sua traduzione il seguente articolo di Avraham Burg dal
titolo "Perche' l'Occidente non puo' vincere" apparso su "Haaretz" il 5
gennaio 2009; con la seguente nota sull'autore: "Avraham Burg, gia'
presidente dell'Agenzia Ebraica ed ex deputato alla Knesset nelle file del
partito laburista, e' autore di Sconfiggere Hitler. Per un nuovo
universalismo e umanesimo ebraico: un saggio polemico, avverso all'uso della
forza militare, che nel 2007 ha suscitato un enorme dibattito in Israele e
che ora, dal settembre 2008, e' disponibile anche in italiano (edito a
Vicenza da Neri Pozza)"]

Al di la' delle due cataste di cadaveri e del pianto e del lutto di entrambi
i popoli, trapela gia' da frammentari discorsi dei leader d'Israele l'amaro
sentore della prossima battaglia perduta. A partire dalla Guerra dei Sei
giorni non abbiamo piu' vinto alcunche'. Nel 1973 siamo riusciti a salvarci
dal disastro, nel 1982 siamo rimasti chiusi in trappola ma siamo
sopravvissuti, ne' mancano altri esempi. Per quale motivo accade cio'?
Perche' le nostre guerre si concludono puntualmente in modo ambiguo?
Penso che vincere le guerre non sia piu' possibile. A non poter vincere non
siamo soltanto noi; l'Occidente tutt'intero e' incapace di vincere. Faccio
fatica a ricordare una sola guerra degli ultimi 60 anni che sia stata vinta
dagli Stati Uniti in modo chiaro e deciso. Dresda e Berlino furono rase al
suolo, Hiroshima e Nagasaki furono distrutte, e da allora in poi l'Occidente
ha imboccato una strada nuova.
L'Europa occidentale ha abbandonato quasi del tutto l'opzione della guerra.
L'Europa non combatte, e in ogni caso il suo peso specifico non e'
commisurato alla sua abilita' di vincere guerre. Gli Stati Uniti, per
contro, sono passati dall'isolazionismo all'essere il Paese occidentale
maggiormente responsabile della violenza esercitata sotto l'egida dello
Stato. Dispongono di un esercito potente, e sanno meglio di chiunque altro
come schierare le proprie forze sulla linea di partenza, ma nelle mosse
successive qualcosa va sempre di traverso. La guerra di Corea non fu una
vittoria smagliante, il Vietnam fini' in modo sciagurato, e le guerre del
Golfo non vengono considerate dei grandi successi militari.
Sembra che nel Dna dell'Occidente vi sia qualcosa che non gli consente piu'
di dichiarare guerra com'era solito fare nel passato. La civilta'
occidentale non e' piu' capace di combattere una guerra con l'intento di
distruggere: ne' in via di principio ne' al livello della volonta' dei
soldati di agire secondo modalita' considerate criminali nel loro universo
civile, nel mondo dei loro valori.
Le guerre del secolo scorso, assieme al genocidio degli ebrei d'Europa,
hanno insegnato all'Occidente parecchie lezioni, fra le quali e' centrale
l'abolizione della dottrina della guerra; l'Occidente e' passato dal
distruggere e umiliare il nemico al conservargli la capacita' di
riabilitarsi, di salvaguardare la propria dignita', di modificarsi e
diventare un partner anziche' un rivale.
L'errore compiuto nei confronti della Germania dopo la prima guerra mondiale
e' stato metabolizzato, e la Germania si pone ora come un epicentro
importante del nuovo schieramento occidentale. Il Giappone, la cui dignita'
non venne violata, e' diventato un leale alleato dell'Occidente democratico.
Ed e' qui che prende forma un nuovo tipo di vittoria: la vittoria che non
liquida la possibilita' del dialogo con l'avversario di ieri. Inoltre,
sembra esservi un legame profondo tra l'intensita' dell'impegno con cui una
societa' tutela i diritti umani - la dignita' e la liberta' garantite
all'interno del Paese - e il desiderio da parte dei soldati di quel Paese di
annientare l'altro. Quanto piu' e' robusta la coscienza della liberta',
tanto minore e' la volonta' della gente di decimare il nemico. Rimane aperta
la questione di come riesca una societa' giusta a combattere nemici che non
condividono lo stesso sistema di valori, e di come ridefinire che cosa e'
vittoria.
Mi sembra che, se l'obiettivo di una guerra e' la distruzione del nemico, la
guerra in questione sia destinata a fallire. Per ragioni che ci sono ben
note, non e' piu' possibile annientare nazioni o, per lo meno, soffocare le
loro aspirazioni all'indipendenza. E per ragioni non meno importanti,
occorre sperare che i nostri soldati non si dimostrino protesi a distruggere
per il solo gusto della distruzione. L'obiettivo della guerra moderna deve
essere quello di preparare il dialogo. E se nessun dialogo con il nemico
assume forma, allora la guerra e' necessariamente condannata al fallimento.
Sembra pertanto che nella guerra di Gaza la leadership d'Israele sia
destinata a fallire nel nostro nome: esattamente come i leader religiosi dei
palestinesi, che stanno conducendo la loro gente verso un altro fallimento,
radicato nell'ignorare la metamorfosi del concetto di vittoria, che non
implica piu' sottomissione ma apertura di discorso, non mattanza ma
costruzione di ponti. Come ponti furono alla fine gettati sopra le acque
tempestose tra Pearl Harbour e Hiroshima, tra Dresda e Londra, e tra la
Dublino cattolica e quella protestante, cosi' vi e' un ponte tra Sderot e
Gaza. Coloro che non intendono camminarvi sopra condurranno le loro nazioni
al fallimento in tutte le loro guerre.

3. RIFLESSIONE. LUISA MORGANTINI: UNA LETTERA APERTA AL CETO POLITICO
ITALIANO
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 6 gennaio 2009 col titolo "Cari politici,
non si puo' tacere"]

Non una parola, non un segno di dolore per le centinaia di persone uccise,
donne, bambini, anziani e militanti di Hamas, anche loro persone. Case
sventrate, palazzi interi, ministeri, scuole, farmacie, posti di polizia. Ma
dove e' finita la nostra umanita'. Dove sono i Veltroni, con i loro I care,
come si puo' tacere o difendere la politica di aggressione israeliana. I
palestinesi tutti pagano il prezzo dell'incapacita' della comunita'
internazionale di far rispettare a Israele la legalita' internazionale e di
cessare la sua politica coloniale. Certo Hamas con il lancio dei razzi
impaurisce ed e' una minaccia contro la popolazione civile israeliana,
azioni illegali e criminali, da condannare. Bisogna fermarli. Ma basta con
l'impunita' di Israele e dei ricatti dei loro gruppi dirigenti. Dal 1967
Israele occupa militarmente i territori palestinesi. Furto di terra,
demolizione di case, check point dove i palestinesi vengono trattati con
disprezzo, picchiati, umiliati, colonie che crescono a dismisura portando
via terra, acqua, distruggendo coltivazioni. Migliaia di prigionieri
politici, ai quali sono impedite anche le visite dei familiari.
Ma voi dirigenti politici, avete mai visto la disperazione di un contadino
palestinese che si abbraccia al suo ulivo mentre un bulldozer glielo porta
via e dei soldati che lo pestano con il fucile per farglielo lasciare, o una
donna che partorisce dietro un masso e il marito taglia il cordone
ombelicale con un sasso perche' soldati israeliani al check point non gli
permettono di passare per andare all'ospedale...
Avete visto il muro che taglia strade e quartieri che toglie terre ai
villaggi che divide palestinesi da palestinesi, che annette territorio
fertile e acqua a Israele, un muro considerato illegale dalla Corte
internazionale di giustizia. Avete visto al valico di Eretz i malati di
cancro rimandati indietro per questioni di sicurezza, negli ultimi 19 mesi
sono 283 le persone morte per mancanze di cure, avrebbero dovuto essere
ricoverate negli ospedali all'estero, ma non sono stati fatti passare
malgrado medici israeliani del gruppo Physician for human rights
garantissero per loro...
Avete visto la paura e il terrore negli occhi dei bambini, i loro corpi
spezzati. Certo anche quelli dei bambini di Sderot, la loro paura non e'
diversa, e anche i razzi uccidono ma almeno loro hanno dei rifugi dove
andare e per fortuna non hanno mai visto palazzi sventrati o decine di
cadaveri intorno a loro o aerei che li bombardano a tappeto. Basta un morto
per dire no, ma anche le proporzioni contano: dal 2002 a oggi per lanci di
razzi di estremisti palestinesi sono state uccise 20 persone. Troppe, ma a
Gaza nello stesso tempo sono stati distrutte migliaia di case e uccise piu'
di tremila persone, tra loro centinaia di bambini che non tiravano razzi.
Dopo le manifestazioni di Milano dove sono state bruciate bandiere
israeliane, voi dirigenti politici avete urlato la vostra condanna. Ne avete
tutto il diritto. Io non brucio bandiere ne' israeliane ne' di altri paesi e
penso che Israele abbia il diritto di esistere come uno stato normale, uno
stato per i suoi cittadini, con le frontiere del 1967, molto piu' ampie di
quelle della partizione della Palestina decisa dall'Onu del 1947. Avrei
voluto sentire la vostra indignazione per tante morti e tanta distruzione,
per tanta arroganza, per tanta disumanita', per tanta violazione del diritto
internazionale e umanitario. Avrei voluto sentirvi dire ai governanti
israeliani: cessate l'assedio a Gaza, fermate la costruzione delle colonie
in Cisgiordania, finitela con l'occupazione militare, rispettate e applicate
le risoluzioni dell'Onu, questo e' il modo per togliere ogni spazio ai
fondamentalismi e alle minacce contro Israele. Lo hanno detto migliaia di
israeliani a Tel Aviv: ci rifiutiamo di essere nemici, basta con
l'occupazione, fermate il massacro. Dio mio in che mondo terribile viviamo!

4. RIFLESSIONE. ROSSANA ROSSANDA: L'INERZIA DELL'EUROPA
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 6 gennaio 2009 col titolo "Pessime
ragioni"]

Che cosa persegue realmente Israele con i bombardamenti e l'invasione di
Gaza? Certo non quello che dichiarano Tzipi Livni e Ehud Barak. Sono troppo
intelligenti per farsi trasportare dall'antica paura che i modestissimi
missili di Hamas distruggano il loro paese. Quando hanno iniziato la
rappresaglia i Qassam tirati da Gaza avevano ucciso tempo fa una persona,
ferito alcune, fatto danni minori su Sderot, incomparabili con i cinquecento
morti, migliaia di feriti e le distruzioni inflitti da Tsahal alla Striscia
in tre giorni, e che continuano a piovere. Ne' che siano mirati a
distruggere le infrastrutture di Hamas, sapendo bene l'intrico che esse
hanno con gli insediamenti civili, tanto da impedire alla stampa estera di
accedere a Gaza. Ne' sono cosi' disinformati da creder che si possa
distruggere con le armi Hamas, votata da tutto un popolo, come se ne fosse
una superfetazione districabile. Sono al contrario coscienti che
l'aggressione aumentera' il peso e l'influenza sulla gente di Gaza oggi e in
Cisgiordania domani, contro l'indebolito Mahmoud Abbas. Ne' gli sarebbe
possibile ammazzarli tutti, ci sono limiti che neanche il paese piu' potente
puo' varcare, ammesso che abbia il cinismo di farlo, e tantomeno all'interno
del mondo musulmano che circonda Israele e nel quale, dunque con il quale,
intende vivere.
Gli obiettivi sono dunque altri. Primo, battere nelle imminenti elezioni
Netanyahu, che si presenta come il vero difensore a oltranza di Israele.
Gia' le possibilita' appaiono ridotte; l'assalto a Gaza sembra sotto questo
aspetto una mossa disperata. Che sia anche crudelissima e' un altro conto,
siamo qui per ragionare. Secondo, usare le ultime settimane di Bush alla
Casa Bianca per mettere la nuova presidenza americana davanti al fatto
compiuto. Il silenzio assordante di Obama e' gia' un risultato, quali che
siano le circostanze formali che gli rendono difficile parlare su questo,
mentre si esprime su altri problemi di ordine interno. Non e' ancora
insediato che si trova nelle mani una patata bollente, causa prima e annosa
di quella caduta dell'immagine americana nel mondo che ha piu' volte detto
di voler restaurare. Queste sono le carte che Olmert, Livni e Barak
deliberatamente giocano in una prospettiva a breve.
Neanche Hamas si e' mossa sulla semplice onda di un giustificato
risentimento. I suoi dirigenti hanno visto benissimo in quale situazione il
governo israeliano si trovava quando hanno deciso di rompere
l'approssimativa tregua, sapendo anche che per modesti che siano i guasti
prodotti dai Qassam nessun governo puo' presentarsi alle elezioni con una
sua zona di confine presa di mira tutti i giorni. Anch'essi puntano a far
cadere Olmert, gia' fuori gioco, la Livni e Barak, secondo la logica propria
delle minoranze accerchiate di produrre il massimo danno perche' la
situazione si rovesci. Gaza e' stata messa, e non da ieri, agli estremi,
periscano Sansone e tutti i filistei. Si puo' capire, ma e' una logica
reciproca a quella di Israele. Non ritenevano certo che quei modesti spari
di missili l'avrebbero distrutta e convertita alla pace. E anch'essi puntano
a mettere la nuova amministrazione americana davanti a un incendio che non
tollera rinvii. Lo sa la Lega Araba, lo sa l'Iran. Obama ha fatto molte
promesse di cambiamento, e lo sfidano a mantenerle o a discreditarsi subito.
Tanto piu' colpevole di questo sanguinoso sviluppo, che la gente di Gaza
paga atrocemente, e' l'inerzia dell'Europa. Essa, che sulla questione
ebraica ha responsabilita' maggiori di chiunque al mondo, nulla ha fatto per
impedire che si arrivasse a questa catastrofe. Ne aveva la possibilita'?
Certo. Poteva mettere a condizione ineludibile dell'alleanza atlantica e
della Nato, e soprattutto quando con la caduta dell'Urss ne venivano meno le
conclamate ragioni, la soluzione del nodo Israele-Palestina, sul quale gli
Usa erano determinanti, per adempiere alle disposizioni dell'Onu. Piu'
recentemente, doveva riparare a costo di svenarsi all'assedio di Gaza, dove
non ignorava che la mancanza di mezzi elementari di sussistenza, cibo,
acqua, elettricita', medicinali, faceva altrettanti morti di quanti stanno
facendo adesso gli aerei e i blindati di Tsahal. Ma neanche questi hanno
fatto muovere altro che il presidente francese, a condizione che le sue
vacanze fossero finite. Siamo un continente che fa vergogna.

5. LIBRI. ALCUNI ESTRATTI DA "VIOLENZA SENZA LEGGE" A CURA DI MARINA CALLONI
(PARTE PRIMA)
[Dal sito www.tecalibri.it riprendiamo i seguenti estratti dal libro a cura
di Marina Calloni, Violenza senza legge. Genocidi e crimini di guerra
nell'et‡ globale, Utet Universita', Torino 2006]

Indice del volume
Gli autori; Presentazione. Quale ruolo per la ricerca nell'affrontare
questioni globali? di Marina Calloni; Introduzione. Crimes of War: un
progetto educativo, di Anna Cataldi; Parte I. Immagini, memorie e linguaggi
dell'odio. Capitolo 1. Il Novecento: guerre e rappresentazioni dell'orrore,
di Barbara Bracco; Capitolo 2. Memoria di genere e violenza militare
nell'Europa Orientale, di Andrea Peto'; Capitolo 3. L'urbicidio come crimine
di guerra, di Elena dell'Agnese; Capitolo 4. Guerra e trasformazioni
socio-territoriali. Una ricerca audiovisuale sulla citta' di Mostar, di
Valentina Anzoise e Cristiano Mutti; Capitolo 5. Media e creazione dell'odio
etnico. Il caso del Ruanda e della Bosnia Erzegovina, di Joshua Massarenti;
Parte II. Conflitti identitari e genocidi. Capitolo 6. Identita', comunita',
conflitti, di Daniela Belliti; Capitolo 7. Le sette fasi del genocidio in
Ruanda, di Jean Mikimibiri; Capitolo 8. Ruanda: passi verso la
riconciliazione, di Bernard Gbikpi; Capitolo 9. Crimini di guerra, crimini
contro l'umanita' e genocidio: strategie dello "State building"
etno-nazionale, di Tatjana Sekulic; Parte III. Umanitarismo e giustizia
internazionale. Capitolo 10. Diritti umanitari e responsabilita' globali, di
Anthony Dworkin; Capitolo 11. La repressione penale dei crimini
internazionali. Problemi e prospettive, di Paola Gaeta; Capitolo 12.
Tribunali per i crimini di guerra e questioni ancora aperte, di Zoran Pajic;
Capitolo 13. Il diritto a una morte degna e al rispetto dei resti mortali,
di Gabriella Citroni; Capitolo 14. L'umanitarismo tra pragmatismo e
principi: elogio dell'incoerenza, di Marcello Flores; Parte IV. L'onere
della testimonianza. Capitolo 15. Sopravvivere e vivere, di Esther Mujawayo;
Capitolo 16, Storie di fosse comuni in Bosnia Erzegovina, di Amor Masovic;
Capitolo 17. Nei bastioni della culturalita', di Samira Negrouche; Capitolo
18. Genocidio e giornalismo, di Alessio Vinci; Capitolo 19, Osservare e
denunciare: l'occhio del fotoreporter, di Geert van Kesteren; Capitolo 20.
Diritti umani e culture: riflessioni di un inviato di guerra, di Alberto
Negri; Appendice. Per capire genocidi e crimini di guerra: materiali
audiovisuali (Cd-Rom), di Roberto Miraglia e Marina Galloni.
*
Da pagina XV
Presentazione. Quale ruolo per la ricerca nell'affrontare questioni globali?
di Marina Calloni
"La madre fa la maglia
Il figlio fa la guerra
Lei la madre lo trova del tutto naturale
E il padre invece il padre cosa fa?
Lui fa gli affari
(...) Il figlio muore ammazzato e non continua
La madre e il padre vanno al cimitero
(...) La vita continua con la sua maglia
la sua guerra e i suoi affari
(...) La vita continua con il suo cimitero"
(Jacques Prevert, "In famiglia", Paroles, 1946)
1. La familiarita' della guerra
1946: il secondo conflitto mondiale e' terminato da un solo anno. Le
societa' europee hanno nel frattempo intrapreso un faticoso percorso di
ricostruzione morale e materiale, in un complesso processo di transizione
verso governi democratici. Scorrono intanto davanti agli occhi smarriti di
una pallida sfera pubblica internazionale i netti fotogrammi e le atroci
immagini di cadaveri e di sopravvissuti ai lager nazisti, lasciati liberi
verso una vita che continuera' a portare il marchio dell'onta subita. Cio'
nonostante, la guerra non perde il suo carattere di familiarita' e
prossimita'. E' un Leitmotiv che da' cadenza ai ritmi quotidiani e asseconda
un ordine naturale delle cose. Prevert ci introduce cosi' la famiglia tipo,
i ruoli familiari e le relazioni intergenerazionali che vengono agite: la
madre e' impegnata nel lavorare a maglia, il figlio va soldato, il padre
continua a occuparsi dei suoi interessi economici. Il tutto sembra essere
assolutamente "normale". La morte in guerra diventa un elemento organico
alla dinamica familiare. E' una presenza materiale che tange l'esistenza
altrui con simboli e contesti: "La vita continua con il suo cimitero".
La guerra sembrerebbe cosi' cercare la propria giustificazione, prima e
ultima, nella supposta base atavica che spingerebbe l'innata aggressivita'
umana: sarebbe questo l'elemento antropologico e archetipale che
spiegherebbe la sua perpetuazione nel corso del tempo. Il conflitto armato
cambia pero' in modalita', strumenti e risorse motivazionali nella sua
"evoluzione" sociale e tecnologica. Cambiano intanto anche le identita' dei
suoi protagonisti ed eroi: di coloro che si sacrificano in nome della patria
o di ideali.
La guerra riproduce se stessa, anche se non e' mai la stessa quando si
riafferma in tempi e spazi differenti, con nuovi protagonisti sociali ed
attori politici. Muta col mutare delle motivazioni per le quali viene
affermata. Se questo e' il caso, perche' allora la guerra cambia e in quale
direzione? La nostra ricerca parte proprio dalla domanda: Perche',
nonostante i ripetuti moniti del "Mai piu' guerre" lanciati alle fine del
secondo conflitto mondiale, il Novecento si e' di fatto accomiatato dalla
ribalta storica ancora una volta fedele a se stesso: non solo con nuove
forme di violenza armata, ma addirittura con la perpetrazione di genocidi,
come nel caso del Ruanda e della ex Jugoslavia? Proprio da questi specifici
casi storici - che si riferiscono nello specifico a contesti post-coloniali
e post-socialisti - ha preso le mosse la nostra analisi, nell'intento di
comprendere il nesso che congiunge Novecento e terzo millennio attraverso
l'analisi delle fenomenologie delle "nuove guerre" di tipo identitario, fino
alla "guerra totale al terrorismo". Sembra infatti esserci un filo rosso che
unisce senza soluzione di continuita' il manifestarsi di trasformazioni
epocali con l'affermarsi di nuovi ordini geo-politici e le conseguenze che
tutto cio' ha sulla vita quotidiana di milioni di persone. Tuttavia, non
possiamo cosi' facilmente cedere a semplici tentazioni equiparative,
sostenendo che si tratta - anche se in forme diverse - di conflitti armati
"analoghi". Il nostro interesse va piuttosto nella direzione di comprendere
perlomeno la specificita' di alcuni di essi.
Il presente testo parte dunque da semplici constatazioni storiche e
fenomenologiche: la storia del Novecento e l'inizio del nuovo millennio sono
state contrassegnate dal succedersi incessante di guerre cruente e da
diversificate forme di violenza organizzata che hanno pero' cambiato
sembianze nel corso del tempo. Si sono infatti susseguite davanti ai nostri
occhi belligeranze imperialiste, conflitti mondiali, genocidi, guerre
fredde, scontri etnici, fino a giungere al recente terrorismo internazionale
di stampo fondamentalista e alle guerre preventive.
Il Novecento si era infatti aperto con l'affermazione di guerre imperialiste
che avevano connesso la volonta' di potenza nazionale allo sviluppo
tecnologico ed economico; era poi continuato con due cruente guerre mondiali
che avevano indotto la formazione di nuovi ordini geo-politici e societa'
umane, accanto all'orrore della Shoah; si era poi concluso con lo scoppio di
guerre identitarie e la perpetuazione di genocidi, col collasso delle
forme-Stato di tipo socialista e coi mancati processi di democratizzazione
in paesi ex coloniali. Ma anche il nuovo millennio non e' stato da meno: si
e' schiuso con forme di violenza globale e attacchi di terrorismo
internazionale che ha messo in crisi l'attore principale dei conflitti,
cosi' come era stato sancito dalla pace di Westfalia in poi: colui che
veniva considerato come il padrone delle guerre, ovvero lo Stato nazionale
col suo esercito. Intanto, continuano ad essere rinfocolati conflitti in
varie regioni della Terra, spesso declassati al rango di "guerre
dimenticate".
Come e' allora possibile ripercorrere la storia delle guerre, al fine di
indicare continuita' e fratture? Ma soprattutto, quale puo' essere il
contributo che possiamo offrire non solo come ricercatori, ma anche come
cittadini, perche' la guerra non sia solo intesa come una costante
antropologica che si riproduce nel tempo, ma anche come un fenomeno che puo'
essere combattuto? Il testo qui presentato si muove su un doppio binario:
analizzare determinate manifestazioni belliche e sostenere - mediante il
confronto - la necessita' di sviluppare organi penali sovranazionali e una
sfera pubblica internazionale che si mobilitino contro atti efferati. Il
testo mette altresi' in rilievo l'importanza dello sviluppo di reti di
cooperazione internazionale e di ricerca cross-border, al fine di
incrementare lo scambio di informazioni, mettere in luce punti di vista
diversi, far circolare esperienze e saperi, rendere possibile la
partecipazione di persone direttamente coinvolte e permettere la
collaborazione tra attori sociali diversi. In tal modo si metterebbero in
comune risorse e capacita' per la critica della violenza, la costruzione
della pace e la promozione di processi di conciliazione. Ed e' questo il
significato che noi intendiamo attribuire alla ricerca qui presentata.
*
2. Violenza armata: nuove guerre o vecchi conflitti?
Le "nuove" guerre non possono essere considerate se non alla luce di cio'
che le ha precedute, senza pero' ricorrere a semplici identificazioni. Il
Novecento - letto da molti come un secolo lungo, ma insieme brevissimo - e'
stato costellato da diversificate tipologie di conflitti armati e da intenti
classificatori miranti a definire le diverse forme di violenza organizzata
in rapporto allo sviluppo economico e tecnologico. L'uso di armi di
distruzione di massa, la corsa agli armamenti nucleari, la contrapposizione
ideologica, l'emergere di nuovi interessi finanziari, l'insorgere di
nazionalismi e fondamentalismi, lo sterminio di intere popolazioni hanno in
effetti contrassegnato l'evolversi dei conflitti mondiali prima e delle
guerre identitarie poi. Ma ad ogni insorgenza bellica sono state
contrapposte norme vincolanti a livello internazionale, che sono state
tuttavia regolarmente trasgredite anche da parte di quegli Stati che le
avevano accettate. Organismi sovranazionali rincorrono pertanto ogni volta
la mutata situazione, al fine di sostenere l'efficacia delle sanzioni e far
rispettare quelle regole che la comunita' internazionale si era data ma che
vengono ogni volta violate.
Il nuovo millennio eredita, in effetti, la dimensione mondiale delle guerre
imperialiste, nazionaliste e totalitarie del Novecento, anche se dislocata
secondo un nuovo ordine mondiale, dove questioni locali assumono valenza
mondiale e dove problematiche globali hanno la concretezza dell'attiguita'
spaziale. Si e' cioe' creata una sorta di inedita prossimita' fra
popolazioni diverse, accanto a processi di tensione e lacerazione nei
rapporti fra culture diverse. Oltre che a diversificazioni, la
globalizzazione ha infatti creato legami di sempre maggiore interdipendenza
fra sfere differenti: a livello economico, politico e sociale. Vengono cosi'
indotte a connettersi regioni che erano prima fra di loro irrelate. La
mobilita' del capitale umano, dovuta alla mondializzazione dell'emigrazione,
si congiunge tuttavia a recenti limitazioni delle liberta' civili in loco:
siccome tutti possiamo potenzialmente essere attentatori o diventare, sia in
Occidente sia nel Sud del mondo, ugualmente vittime di atti terroristici,
vengono quindi introdotte misure restrittive di sicurezza.
Il tentativo occidentale di imporre un nuovo ordine mondiale - a partire
dalla data simbolo del 1989, ovvero dal collasso dei sistemi del socialismo
reale -, si e' di fatto scontrato con l'insorgere di guerre etniche e con la
sfida planetaria lanciata dal terrorismo fondamentalista di stampo islamico,
a cui si e' risposto con guerre preventive e illegittime. La risposta
prevalentemente militare dell'Occidente - con le guerre condotte in
Afghanistan e in Iraq - ha messo in luce tanto la debolezza di istituzioni
transnazionali (quali l'Onu), quanto l'inadeguatezza delle foreign
politicies nazionali, inadatte nel gestire la sfida di un ordine
internazionale mutato, meno polarizzato in blocchi contrapposti (nonostante
sia stata lanciata l'idea semplificante di uno scontro fra civilta') e piu'
differenziato in termini di appartenenze spesso sovrapposte. Vi sono dunque
due elementi in frizione: da una parte vi e' l'affermazione di un nuovo
ordine globale, mentre dall'altra vi e' la frammentazione delle identita'
collettive che tende a ridefinire nuovi spazi di appartenenza e
delegittimare l'ordine politico tanto preesistente, quanto attuale. Nelle
nuove guerre l'identita' e la ridefinizione sanguinaria delle appartenenze
culturali diventano pertanto cruciali per l'affermazione di interessi
economici e finanziari, miranti al controllo di risorse e di territori,
nella commistione fra violenza pubblica e privata: da stupri e torture fino
a genocidi e crimini contro l'umanita'.
Forme di bellicismo sofisticati (come ad esempio le cosiddette bombe
intelligenti che hanno occupato la scena, in luogo delle deflagranti e
ingombranti bombe atomiche) e complessi sistemi informatici si congiungono a
forme di violenza "primitiva", privata, di genere, di sopraffazione
dell'altro, divenuto il diverso, il nemico da punire e sopraffare. Quelli
che erano stati vicini di casa si trasformano in carnefici, uccidendo con i
machete i loro conoscenti, come e' accaduto in Ruanda. Ragazzi, educati in
classi miste, diventano stupratori di donne della loro eta', oltre che di
altri uomini, nel disprezzo assoluto della dignita' umana, cosi' come e'
accaduto nella guerra nell'ex Jugoslavia. Cio' che si nota sono nuove forme
congiunte di violenza privata e pubblica, come e' anche accaduto per le
torture e le sevizie sessuali nel carcere di Abu Grahib, dove l'immaginario
pornografico dell'Occidente diventa manifestazione violenta della
sopraffazione politico-militare, dell'abuso sessuale e del disprezzo
dell'"altra" umanita'.
Genocidi e crimini di guerra continuano dunque ad essere drammatiche realta'
del nostro tempo, a persistere nonostante i "progressi" delle civilta', le
mobilitazioni della societa' civile per la pace, l'evoluzione del diritto
internazionale umanitario e la centralita' del discorso pubblico sui diritti
umani. Questa contraddizione che caratterizza la cosiddetta eta' della
globalizzazione diventa il perno del presente testo che parte dalla
constatazione dell'affermarsi di forme di violenza senza legge.
*
3. Guerre "senza legge"
Le nuove guerre sono state in gran parte causate - come gia' accennato -
dalla crisi della tradizionale forma-Stato, dal crollo di consolidate
identita' collettive e dal collasso di legami sociali che univano i
cittadini fra di loro, riconoscentesi in un'unica entita' nazionale. Ora,
gli Stati non sono piu' gli unici soggetti che causano conflitti bellici:
anche agenzie locali e gruppi transnazionali sono in grado di provocare uno
stato di guerra e di guerriglia permanente e devastante.
Cio' comporta la perdita della figura dei militari e dell'esercito come
protagonisti "legali" del conflitto. In loro luogo appaino milizie ma anche
singoli cittadini, i civili, nel duplice ruolo di vittime (e' infatti sempre
piu' crescente il numero di civili che muoiono in conflitti armati) e di
carnefici (quando diventano protagonisti di violenza bellica e genocidaria).
Il corpo del nemico / della nemica non e' piu' quello ricoperto dalla divisa
militare, bensi' quello vestito con abiti che denotano supposte
caratteristiche identitarie. Diventa dunque ora alquanto difficile tracciare
una netta distinzione tra combattenti e civili, cosi' come e' stato sancito
dalle leggi dello iustum bellum (guerra giusta): tutti diventano potenziali
partecipanti alla nuova guerra globale, dislocata su scenari imprevedibili,
non immediatamente identificabile con campi di battaglia, reticolati o
barriere: qualsiasi piazza puo' diventare un nuovo spazio di conflitto,
quando diventa centro di attentati o di attacchi. In tal modo, la guerra
diventa amorfa in componenti e struttura: e' indefinita e ubiqua,
prevaricando confini di stati sovrani, come e' stato dimostrato in recenti
casi di cronaca (il sequestro dell'imam Abu Omar), nella "lotta al
terrorismo internazionale".
Nella nuova ondata di violenza globale non ci sono piu' leggi che tengano.
Le tradizionali norme che regolavano tanto lo jus ad bellum quanto lo jus in
bello sembrano essere state messe in discussione: da un lato il diritto
internazionale, determinato dal rapporto fra Stati sovrani, sembra perdere i
suoi connotati tradizionali nell'affermazione - ad esempio - di organismi
paramilitari; dall'altro le leggi della guerra, determinate da convenzioni
adottate a livello internazionale, non soltanto vengono ripetutamente
violate, ma sono difficilmente applicabili nei casi in cui non sono piu'
solo i militari a subire violenze e dunque a dover essere tutelati (dalla
prigionia al riconoscimento dei resti mortali), bensi' sono i civili le
maggiori vittime della violenza armata.
*
Da pagina XXVII
Introduzione. Crimes of War: un progetto educativo, di Anna Cataldi
Venti novembre 1991: 200 fra civili e militari - alcuni dei quali gravemente
feriti - vengono prelevati dall'ospedale di Vukovar in Croazia, dai soldati
del Jna, l'esercito popolare jugoslavo. Vengono trasportati a Ovarca, a
pochi chilometri di distanza, dove vengono brutalmente uccisi e seppelliti
in una fossa comune.
Quattro anni dopo, 7 novembre 1995: il Tribunale Penale Internazionale
del1'Aja presenta un atto formale d'accusa contro Mile Mrksic, Miroslav
Radic e Veselin Sljivancanin, i tre comandanti del Jna ritenuti responsabili
dell'eccidio. Ma nel corso degli anni, al massacro dei croati a Vukovar
nella ex Jugoslavia, seguirono massacri ben peggiori: basti ricordare lo
sterminio di 7.000 musulmani bosniaci a Srebrenica nel luglio 1995.
Tuttavia, se rivado con la mente a quel novembre 1991, mi rendo conto di
quanto l'evento di Ovarca avesse marcato tutti noi, che ne siamo stati
testimoni piu' o meno diretti.
Mi rivengono in mente anche le parole del corrispondente del "New York
Times", uno dei pochi che aveva avuto accesso al luogo dell'eccidio: "I
serbi - racconto' - volevano farci credere che i cadaveri gettati nella
fossa fossero soldati che si erano asserragliati nell'ospedale per dare
battaglia. Non era ovviamente vero, anche perche' avevamo visto con
chiarezza corpi che indossavano il pigiama dell'ospedale e alcuni avevano
addirittura l'ago della fleboclisi ancora infilato nel braccio".
Il massacro dell'ospedale di Vukovar fu in seguito definito dal Tribunale
Penale dell'Aja come uno dei peggiori crimini perpetrati in Europa dalla
fine della seconda guerra mondiale. E fu per noi un brusco risveglio
dall'illusione post-Olocausto. "Affinche' tutto questo non avvenga mai
piu'", si era detto al processo di Norimberga. Ma ci si rese invece conto
che la barbarie in guerra poteva riprodursi anche dopo cinquant'anni e,
ancora una volta, proprio qui, nel centro della nostra civilissima Europa.
Consapevoli di essere testimoni di un evento che neppure in guerra avrebbe
dovuto accadere, i giornalisti che erano presenti nella zona scrissero
parole sdegnate, le televisioni internazionali mandarono in onda immagini
drammatiche, ma un pubblico distratto decise che "dopotutto si trattava di
un conflitto etnico interno e che era meglio non immischiarsene" (per non
parlare dell'allora Ministro degli Esteri italiano che sentenzio'
pubblicamente: "la guerra in Jugoslavia e' un'invenzione dei media").
Nei quattro anni che seguirono - ossia dal 1991 al 1995 - piu' di 300.000
persone (di cui il 90% civili) vennero uccisi nella carneficina balcanica.
Ogni tappa del processo di dissoluzione della ex Jugoslavia fu seguita e
documentata giorno per giorno, con un dispiegamento mediatico che mai si era
visto nei precedenti conflitti. Un vero e proprio battaglione di giornalisti
internazionali si schiero' con coraggio e determinazione; ma purtroppo il
numero di coloro che vi persero la vita - soltanto nel primo anno - fu
superiore al numero di tutti i corrispondenti morti nei 14 anni della guerra
in Vietnam.
Ma allora, se i media internazionali davano ogni giorno notizie dettagliate
del conflitto in atto, perche' ci volle cosi' tanto tempo, prima che la
comunita' internazionale si decidesse a intervenire? E in ugual modo,
perche' negli stessi anni - nell'estate 1994 - e' stato permesso che un
genocidio di proporzioni inaudite fosse perpetrato in Ruanda, sotto gli
occhi dei media ma senza che il cosiddetto mondo civile facesse un solo
gesto per evitarlo o fermarlo?
Che cosa avremmo potuto fare di piu', noi giornalisti? In che modo avremmo
potuto diversamente raccontare cio' che avevamo visto, al fine di mobilitare
l'opinione pubblica e creare una pressione tale da spingere i governi
all'azione?
Eppure, dopo la seconda guerra mondiale, ed esattamente il 12 agosto 1949,
con la firma delle quattro Convenzioni di Ginevra che sancivano norme
specifiche contro i crimini di guerra, era stato solennemente dichiarato che
"mai piu' sarebbero stati tollerati genocidi e crimini contro l'umanita'".
Ossia, con le quattro Convenzioni e la Carta delle Nazioni Unite (26 giugno
1945), la Convenzione sulla prevenzione e la condanna del crimine di
genocidio (9 dicembre 1948) e la Dichiarazione Universale dei Diritti
dell'Uomo (10 dicembre 1948), era nato un sistema internazionale di tutela
dei diritti umani che mirava a porre fine alla vecchia e rigida concezione
della sovranita' degli Stati nazionali. Pertanto, tale corpus giuridico
prevedeva e legittimava interventi - anche armati - col fine di porre
termine a crimini, la' dove fossero perpetrati.
Negli anni successivi, alle prime quattro Convenzioni se ne aggiunsero
altre, soprattutto per l'affermarsi di nuove forme di conflitto e l'impiego
di nuovi tipi di armi. A tal proposito, la comunita' internazionale
comincio' a prendere iniziative con l'intento di limitare i crimini e
fermare la barbarie, anche in situazioni di estrema negativita' quale puo'
essere la guerra, divenuta sempre piu' complessa e di difficile
interpretazione, perlomeno in senso univoco.
Del resto, proprio l'intento di porre limite alla barbarie sui campi di
battaglia aveva dato origine alla Croce Rossa Internazionale. Fu un uomo
d'affari svizzero, Henry Dunant, che, trovatosi testimone della battaglia di
Solferino nel 1859, rimase talmente impressionato dal modo in cui venivano
abbandonati sul campo i soldati feriti e i corpi dei morti, al punto da
dedicarsi successivamente anima e corpo per la creazione di
un'organizzazione che potesse soccorrere i feriti nelle battaglie. Con la
Prima Convenzione di Ginevra, nacque cosi', nel 1864, la Croce Rossa
Internazionale, a cui aderirono dodici Stati.
Se le leggi della guerra esistevano gia' come tali (jus in bello), tuttavia
la loro corposita' e complessita' - di cui ci stavamo rendendo conto dopo
l'esperienza bosniaca - rendeva ambigua e in molti casi difficile la loro
applicazione sul campo.
"Chi di noi conosce a fondo, ad esempio, le Convezioni di Ginevra?". Era il
giugno 1996. Chi poneva questa domanda era un giornalista che con molto
coraggio aveva seguito il conflitto bosniaco: Roy Gutman, premio Pulitzer
nel 1993 per le rivelazioni sui campi di concentramento di Omarska. Il suo
reportage, fatto a rischio della propria vita, aveva riportato le cruente
immagini di uomini ridotti a scheletri mentre si aggrappavano ai fili
spinati. Tale testimonianza aveva finalmente fatto capire al mondo intero
quello che stava realmente accadendo in Bosnia-Erzegovina: non si trattava
ne' di una lotta tribale, ne' tantomeno di un'invenzione dei media; era un
crimine vero e proprio che il mondo non avrebbe dovuto permettere che si
consumasse.
(Parte prima - segue)

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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 282 del 7 gennaio 2009

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