Minime. 542



NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 542 del 9 agosto 2008

Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca
per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Sommario di questo numero:
1. Dijana Pavlovic: Sogno di mezza estate
2. Giovanni De Luna presenta "Guido Quazza" di Luciano Boccalatte
3. Emilio Gentile presenta "Chiesa, pace e guerra nel Novecento" di Daniele
Menozzi
4. Sergio Givone presenta "Nietzsche e il cristianesimo" di Karl Jaspers
5. Enzo Modugno presenta "La fabbrica del falso" di Vladimiro Giacche'
6. Alberto Papuzzi presenta "Un filo tenace. Lettere e memorie" di e su
Willy Jervis
7. Armando Torno presenta le "Rime" di Pietro Bembo a cura di Andrea Donnini
8. Franco Volpi presenta "Noi" di Evgenij Zamjatin
9. La "Carta" del Movimento Nonviolento
10. Per saperne di piu'

1. EDITORIALE. DIJANA PAVLOVIC: SOGNO DI MEZZA ESTATE
[Dal quotidiano "L'Unita'" dell'8 agosto 2008 col titolo "Sogno rom di mezza
estate".
Dijana Pavlovic (per contatti: dijana.pavlovic at fastwebnet.it) e' nata nel
1976 in Serbia, vi ha vissuto e studiato fino al '99, laureandosi a
Belgrado; dal 1999 vive e lavora a Milano; e' attrice drammatica, docente,
mediatrice culturale]

Ho sognato.
Brucia il campo rom di via Triboniano, solo fango, ne' acqua, ne' luce, ne'
gas. E 600 donne uomini bambini senza piu' niente.
Il comune di Milano fa qualcosa.
Al posto delle baracche - container, al posto del fango - cemento, e poi
anche acqua luce e gas.
Ma non c'e' posto per tutti e c'e' un prezzo da pagare: il Patto di
legalita', legge speciale per zingari!
Se trasgredisci, buttano per strada te e la tua famiglia.
Ho firmato: non andro' mai a rubare, anche se fino adesso non l'ho mai
fatto.
Non chiedero' mai l'elemosina, anche se fino adesso non l'ho mai fatto.
Non ospitero' mai nessuno nel mio container,
neanche per una notte,
neanche mia madre!
Ma ho un container e allora va tutto bene!
Ho sognato.
Dieci zingari rumeni, lavorano in regola dallo stesso padrone.
Si fanno intervistare dalla televisione per far vedere che non sono bestie.
Il giorno dopo il padrone li chiama: "Vi ho visto in trasmissione.
Bravi, la gloria si paga, siete zingari? Andatevene a casa!".
Ho sognato.
A Ponticelli molotov sui campi rom. Rivolta popolare, parte dal basso
(piu' basso di cosi' - dal ventre dello stato - la camorra).
Momento di orgoglio e di gloria, davanti alle telecamere la gente grida:
"Non sono io razzista, sono loro che sono zingari!".
I loro figli nelle scuole disegnano roghi e a fianco le scritte:
"Bruciamoli tutti! Anche loro producono spazzatura!".
Va tutto bene, sono solo bambini. Forse troppa televisione,
Ma questi bambini sono il futuro della nazione!
Ho sognato.
Rebecca, bambina zingara di 11 anni,
non va a scuola, ma legge, scrive e fa i conti, il tempo lo passa per
strada,
non chiede la carita' ma crepe alla nutella.
Disegna case. Ha vinto un premio Unicef per i suoi disegni,
suo padre, un pastore evangelico, uomo di fede,
viene picchiato da due poliziotti. Senza ragione, davanti ai suoi occhi.
Ma va tutto bene, sono solo quattro cazzotti.
Adesso Rebecca sapra' disegnare anche poliziotti!
Ho sognato.
Goffredo Bezzecchi, cittadino italiano, superstite rom dei campi di
concentramento.
Famiglia numerosa: 35 persone tra figli e nipoti, tutti senza precedenti
penali.
Alle 5 di mattina 70, tra poliziotti carabinieri e i vigili urbani
con un furgone della scientifica, per ordine del Prefetto di Milano,
vengono a censire lui e la sua famiglia con nome, cognome e anche la
religione.
Ma sono cittadini italiani. Non bastava andare all'anagrafe?
Ah no, giusto, all'anagrafe non c'e' scritto se sei rom.
E se sei ortodosso, cattolico o musulmano.
Ma va tutto bene, lui c'e' abituato,
al campo di concentramento Tossicia di Teramo
l'avevano gia' schedato.
Ho sognato.
Violetta e Cristina, bambine rom di origine slava.
Sono annegate a Pozzuoli vicino a Napoli.
I loro corpi giacciono sulla spiaggia per ore.
A pochi metri la gente continua a prendere il sole,
sorseggia una bibita, chiama amici e parenti con il nuovo cellulare.
E' tutto normale.
L'alto commissario dell'Onu si indigna?
Qualcuno si interroga sulle responsabilita'?
Di chi sono: della societa', della politica, dei media?
Se proprio si deve, ognuno di noi si guardi allo specchio
e dica a se stesso: io non c'entro niente con tutto questo!
Ma va tutto bene.
Violetta e Cristina non saranno vendute spose a dodici anni,
non saranno costrette a chiedere la carita',
non ruberanno bambini alle brave mamme napoletane,
no, nessuno mai verra' a prendere le loro impronte digitali
e chiedere la loro religione e la loro etnia.
O adesso si dice di nuovo razza?
Ho sognato?
No, sono a Opera, Pavia, Livorno, Mestre, Roma, Brescia, Napoli Milano...
Un bagliore lontano, in periferia! Brucia un campo rom!
Chi se ne frega! E come dice Shakespeare:
"Potete dire 'sognavo'
e tutto quello che fin qui vi abbiamo propinato
come un brutto sogno puo' essere gia' dimenticato".
Buone vacanze!

2 LIBRI. GIOVANNI DE LUNA PRESENTA "GUIDO QUAZZA" DI LUCIANO BOCCALATTE
[Dal supplemento librario "Tuttolibri" del quotidiano "La stampa" del 14
giugno 2008 col titolo "Il primo che rovescio' la resistenza del Pci" e il
sommario "Guido Quazza, partigiano, storico, innovativo docente
universitario, organizzatore culturale: un ritratto attraverso le carte del
suo prezioso archivio"]

Guido Quazza e' stato uno degli storici piu' importanti del Novecento.
Nell'arco di una lunga carriera accademica, i suo libri e i suoi scritti
hanno attraversato i temi cruciali della nostra storia, dal Risorgimento
alla Resistenza, dal Piemonte sabaudo al '68.
Fino alla morte, avvenuta nel 1996 all'eta' di 74 anni, Quazza e' stato
anche un instancabile organizzatore culturale, un militante politico, un
docente impegnato. Successore di Ferruccio Parri alla presidenza
dell'Istituto nazionale per la storia del movimento di Liberazione in Italia
dal 1972, fondatore e direttore della "Rivista di storia contemporanea", fu
anche preside della Facolta' di Magistero per 27 anni consecutivi. Fu quello
che una volta si usava chiamare un "maestro".
Negli anni '70 riusci' a costruire una "scuola" storiografica e una serie
infinita di iniziative, alcune direttamente politiche (il Comitato unitario
antifascista che, caso unico in Italia, riuniva la sinistra
extraparlamentare insieme ai partiti tradizionali e ai sindacati), altre
squisitamente didattiche (i seminari interdisciplinari che a Magistero
sostituirono le lezioni frontali).
A rilanciare l'attenzione sulla sua figura e' un volume appena pubblicato
(Guido Quazza. L'archivio e la biblioteca come autobiografia, a cura di
Luciano Boccalatte, Franco Angeli, pp. 382, euro 26) che, insieme a una
serie di saggi sul suo lavoro di storico, contiene un inventario dettagliato
del suo archivio personale, una mole straripante di carte, raccolte con
ossessiva meticolosita' in tutta una vita, custodite gelosamente: dai
quaderni scolastici delle elementari ai documenti delle prestigiose
istituzioni da lui dirette.
C'e' veramente l'intera biografia di Quazza, in quell'archivio, gli affetti
e le scelte politiche, il privato e il profilo di accademico e di
intellettuale. Renderlo accessibile agli studiosi e' stato un atto di grande
generosita' da parte dei familiari; ordinarlo e catalogarlo e' stato un
lavoro molto impegnativo, anche sul piano emotivo, quasi che Boccalatte sia
stato chiamato a penetrare nell'intimita' piu' riposta di un personaggio
pubblico.
L'archivio ci aiuta a capire come in Quazza la dimensione esistenziale sia
sempre stata intrecciata alle sue opzioni politiche e storiografiche. Molte
delle sue categorie interpretative sulla Resistenza erano ad esempio mutuate
direttamente dall'esperienza partigiana nelle file degli autonomi della
divisione "De Vitis" comandati da Giulio Nicoletta: l'insofferenza per la
"zona grigia", per quelli che non scelsero da che parte stare e preferirono
aspettare che "passasse la nottata"; l'insistenza sulla necessita' della
violenza armata quando si tratta di combattere per la liberta' contro la
dittatura; il giudizio sulla banda partigiana come microcosmo di democrazia
diretta; la diffidenza verso il connubio stalinismo/riformismo che
alimentava la politica del Pci.
A proposito del Pci. Negli anni '70 Quazza fu il capofila di una corrente
storiografica che rovescio' come un guanto l'interpretazione comunista della
Resistenza. Dove il Pci accentuava il peso dell'organizzazione, si esaltava
la spontaneita' del movimento partigiano; quando il Pci parlava di unita' di
tutte le forze politiche dalla Dc ai monarchici, si sottolineavano le
divergenze radicali in seno al Cln; con il Pci che insisteva sul carattere
patriottico della Resistenza, Quazza polemizzava con le ascendenze
staliniane di quella definizione e tendeva a ridurre drasticamente il ruolo
dei militari e dell'esercito regolare.
Tutto questo configura un singolare paradosso; il revisionismo rimprovera
oggi al Pci una visione classista e settaria della Resistenza, un uso
strumentale che avrebbe accentuato l'ipoteca comunista totalitaria sulla
lotta di liberazione. In realta' quel rimprovero andrebbe indirizzato verso
Quazza e la sua scuola che sostennero quelle posizioni in contrapposizione
con il Pci. Paradosso nel paradosso: non c'e' nessuno degli storici dell'ex
partito comunista che intervenga a ristabilire questa elementare verita',
difendendo il suo vecchio partito.

3. LIBRI. EMILIO GENTILE PRESENTA "CHIESA, PACE E GUERRA NEL NOVECENTO" DI
DANIELE MENOZZI
[Dal quotidiano "Il sole - 24 ore" del 6 aprile 2008 col titolo "Chi arma la
spada della religione" e il sommario "Nella Bibbia convive il Dio degli
eserciti e l'ammonimento a non iniziare un conflitto: Nei secoli
l'interpretazione data dal clero e' stata oscillante"]

Perche' Dio, nella sua onniscienza e onnipotenza, lascia che ci sia la
guerra fra gli uomini? Perche' Dio, nella sua infinita bonta' e infinito
amore, permette che uomini armati uccidano innocenti inermi, che l'ingegno
umano escogiti strumenti di morte sempre piu' immensamente micidiali, che
nel suo nome si commettano assassini, stragi, stermini, genocidi? Queste
domande sono un terribile ma affascinante problema intellettuale per un non
credente, mentre per un credente sono un angosciante quesito teologico ed
etico, che potrebbe insidiare con dubbi atroci il fondamento della sua fede
e la sua immagine di Dio.
Se apre la Bibbia, il credente incontra nell'Antico Testamento il Dio degli
eserciti, guerriero terrificante e vendicativo, che guida il popolo eletto
alla conquista della Terra promessa, e gli ordina di sterminare uomini,
donne e bambini dei popoli idolatri che vi abitano. Con la stessa
implacabile volonta' di massacro, il Dio degli eserciti punisce le Nazioni
che sfidano la sua ira. "La spada del Signore e' coperta di sangue". Cosi'
dice il profeta Isaia. Ma nel Nuovo Testamento, il Figlio di Dio ammonisce:
"Chi pone mano alla spada, perira' di spada". Ma ha detto anche: "Io non
sono venuto a portare la pace ma la spada. Colui che non ha una spada, venda
il suo mantello c ne compri una". E nella Apocalisse di Giovanni, orribili
guerre umane e cosmiche precedono il giorno del Giudizio universale e
l'avvento del Regno di Dio.
Nel corso dei secoli, la Chiesa cattolica ha cercato di dare una risposta a
queste domande, attribuendosi in modo esclusivo l'interpretazione della
volonta' divina. I pontefici, seguendo l'insegnamento di Agostino e di
Tommaso, hanno insegnato al credente che ha il dovere di combattere in una
"guerra giusta", secondo una dottrina millenaria, che e' stata ribadita
dalla Chiesa attuale. Il vigente Catechismo proclama "inequivocabilmente la
liceita' per i Governi di provvedere alla legittima difesa con la forza
militare e il dovere per i cittadini di accettare gli obblighi imposti dalla
difesa nazionale", come osserva Daniele Menozzi, che ha studiato con
appropriato senso storico, non disgiunto da inquietudine etica, il problema
dell'atteggiamento della Chiesa nei confronti della guerra e della pace
durante il Novecento (Daniele Menozzi, Chiesa, pace e guerra nel Novecento,
Il Mulino, Bologna).
Menozzi ripercorre il travaglio dottrinale e etico sofferto dalla Chiesa per
cercare di salvare "il nesso inscindibile tra religione e pace che
inevitabilmente finiva per gettare interrogativi sulla possibilita' di una
legittimazione della guerra da parte della Chiesa". Quel che emerge, dalla
sua ricerca, e' un percorso che lungo tutto il corso del Novecento "si
caratterizza per approfondimenti, scarti, ondeggiamenti, fughe in avanti,
ripiegamenti, sforzi di adattamento della dottrina tradizionale", che sono
"evidentemente collegati al variare delle situazioni storiche in cui la
Chiesa si e' trovata a operare".
Ma la storicita' dell'atteggiamento della Chiesa si traduce in una
storicizzazione della volonta' divina, attraverso l'interpretazione che i
pontefici, depositari della Rivelazione, hanno dato del significato della
guerra nella vita degli uomini. Come fatto storico, il problema dell'aporia
fra l'onniscienza e l'onnipotenza del Dio amore infinito, e l'onnipresenza
della guerra nella storia umana, diventa un tema intellettualmente
affascinante anche per il non credente. Perche' molte e gravi sono state le
conseguenze che la legittimazione religiosa della guerra ha avuto per
l'esistenza di milioni di essere umani, cristiani e non cristiani, nel corso
del XX secolo, e tuttora ha, all'inizio del XXI, per la sorte di milioni di
esseri inermi, sterminati da guerrieri che affermano di combattere per
volonta' di Dio. Anche la Chiesa ha sostenuto per secoli questo
atteggiamento, dalla persecuzione dei pagani e degli eretici alla guerra
santa delle crociate contro i musulmani.
La prima guerra mondiale, pur condannata da Benedetto XV come "inutile
strage", fu considerata dalla Chiesa e dalla grande maggioranza dei
cattolici di ogni Paese belligerante - religiosamente legittimati a
combattere in una grande guerra di cristiani contro cristiani, di cattolici
contro cattolici - come la manifestazione della "punizione divina per il
peccato che la societa' contemporanea ha compiuto abbandonando la sua
dipendenza dalla religione e dalla Chiesa". All'inizio del Terzo Millennio,
la Chiesa ha accantonato l'interpretazione della guerra come punizione
divina, ha ripudiato il concetto della "guerra santa", e sia pure
faticosamente, e' giunta a riconoscere la legittimita' dell'obiezione di
coscienza. Ma appare ancora restia a formulare una definitiva
"delegittimazione religiosa dei conflitti". Menozzi documenta gli
oscillamenti dottrinari della Chiesa nella seconda meta' del Novecento, da
Giovanni XXIII a Giovanni Paolo II, soprattutto sul significato della guerra
nella interpretazione della volonta' di Dio. Sembra tuttavia che fra tanti
oscillamenti, una convinzione sia rimasta salda, ora ribadita con vigore da
Benedetto XVI: soltanto il ripudio della societa' moderna, scaturita dalla
apostasia della secolarizzazione, con la subordinazione dei popoli al potere
spirituale della Chiesa e del Papa, puo' scacciare dalla terra il flagello
della guerra. Un ritorno all'unita' cattolica del Medioevo? Eppure, neppure
il Medioevo fu epoca senza guerre, giuste e sante, inflitte agli uomini
dalla volonta' divina.

4. LIBRI. SERGIO GIVONE PRESENTA "NIETZSCHE E IL CRISTIANESIMO" DI KARL
JASPERS
[Dal quotidiano "La Repubblica" del primo agosto 2008 col titolo "Jaspers di
fronte al dio di Nietzsche" e il sommario "Un suo libro sul rapporto tra il
filosofo tedesco e il cristianesimo. L'autore di Cosi' parlo' Zaratustra
svela il movimento con cui il cristianesimo distrugge se stesso aprendo un
vuoto che nessuno sapra' come riempire"]

Tramonta l'idealismo tedesco ed entra in scena Nietzsche: sara'
un'apparizione grandiosa. Ma non e' la dottrina dell'eterno ritorno o l'idea
del superuomo a spiegare il caso Nietzsche. I concetti che caratterizzano il
suo pensiero sono per lo piu' iperboli filosofiche. Possono voler dire
tutto, ma in realta' non dicono quasi niente. Fra non poche ambiguita' e
contraddizioni l'opera di Nietzsche porta alla luce ben altro: ossia il
movimento attraverso cui il cristianesimo distrugge se stesso e apre un
vuoto che nessuno sapra' come riempire.
E' quanto sostiene Karl Jaspers in un magnifico saggio scritto poco prima
della guerra, ma pubblicato soltanto dopo, Nietzsche e il cristianesimo, ora
tradotto e prefato da Giuseppe Dolei per Mariotti (pp. 141, euro 14).
Nietzsche, dice Jaspers, ci mette in guardia: il cristianesimo e' la nostra
provenienza e il nostro destino. Per superarlo bisogna farsi carico di cio'
che ne resta e di cio' che ne ha rappresentato lo sviluppo storico.
Non serve contrapporre al cristianesimo una prospettiva di segno contrario.
E affermare, per esempio: la verita' e' una sola, quella della scienza,
dunque la fede non ha piu' ragion d'essere.
Uno stanco ritornello. Quando i contenuti della fede vengono ridotti a
favole e a menzogne dei preti si ottiene soltanto di scacciare la
superstizione con una nuova forma di superstizione. Invece l'autentico
anticristianesimo vuole annientare il cristianesimo, non semplicemente
"scrollarselo di dosso".
Alla scuola del grande ateismo moderno (da Spinoza a Feuerbach su su fino a
Ivan Karamazov, "fratello di sangue") Nietzsche ha imparato che la battaglia
contro il cristianesimo dev'essere condotta con armi cristiane. Solo chi e'
intellettualmente onesto puo' permettersi di dichiarare che la fede non e'
piu' credibile. Ma e' stato il cristianesimo ad instillare nei cuori quel
particolare tipo di morale che consiste nel volere la verita' a tutti i
costi.
La verita' incondizionata, assoluta, non una parvenza di verita', e tanto
meno una verita' buona a consolare ma non a convincere. In un'ottica
cristiana Dio non esita a mandare al diavolo i suoi teologi, cosi' premurosi
e falsi, e a informarli che solo Giobbe ha avuto il coraggio di dire la
verita' su di lui.
Per un verso Nietzsche usa i toni piu' duri e sprezzanti: "A chi oggi mi
risulta ambiguo nei riguardi del cristianesimo non do neppure la mano: c'e'
un solo modo di essere onesti in proposito: un no assoluto". Per l'altro
parla di una tensione spirituale la cui origine e' cristiana: "Anche noi che
oggi indaghiamo, noi atei e antimetafisici, continuiamo a prendere il fuoco
dall'incendio scatenato da una fede millenaria". Con Goethe Nietzsche
ripete: solo Dio contro Dio, ci vuole Dio per far fuori Dio. La negazione e
la soppressione del cristianesimo sono cosa del cristianesimo. Quel
cristianesimo che costringe l'uomo ad aprire gli occhi sulla morte di Dio.
Che cosa rimane alla fine di questa tragedia piu' grande di qualsiasi
tragedia del passato, anche se si tratta piuttosto di un naufragio, di un
inabissarsi di ogni speranza e di ogni senso fin qui tenuti per certi? La
risposta di Nietzsche e' netta, inequivocabile: non resta piu' niente. O se
si preferisce, resta il grande niente, resta il grande vuoto. Della cui
vastita' non abbiamo che una pallida idea, come dimostrano coloro, e sono i
piu', che vi si sono tranquillamente adattati, mentre altri, maggiormente
consapevoli, continuano a porre domande.
Naturalmente e' possibile tentar di colmare questa specie di sperdimento
mentale o di vertigine con i detriti che il fiume della storia ha trascinato
con se'. Tra di essi c'e' per l'appunto la dottrina dell'eterno ritorno e
l'idea del superuomo. Ma c'e' anche la sostituzione del dio cristiano con
Dioniso. Per non parlare del vagheggiamento d'un certo eroismo sublime, che
dice si' alla vita cosi' com'e', col suo carico di gioia e di sofferenza e
indifferente al bene e al male. Cui segue pero' da parte di Nietzsche la
confessione: "Sono l'opposto d'una natura eroica", immediatamente affiancata
dal riconoscimento d'una certa affinita' con Gesu', il mite predicatore
delle beatitudini. Fino all'identificazione con la piu' improbabile delle
divinita': Dioniso crocifisso.
Insomma, tutto e il contrario di tutto. Sembra che Nietzsche si diverta a
fare le prove generali del fantastico spettacolo in allestimento per quando
il mondo si sara' liberato dal cristianesimo. Per se' egli riserva la parte
della stella danzante nel caos. Ma ci crede davvero? Non e' lui il primo a
sapere che la stella da cui viene un'ultima luce sul mondo e' una stella
ormai spenta? Qui Jaspers chiude con un avvertimento. Ed e' che Nietzsche
lancia "un grido micidiale" a coloro che si lasciano sedurre da lui e
pretendono di portare avanti il suo pensiero, magari professandosi
cristiani: "A questi uomini di oggi non voglio essere luce, da loro non
voglio essere chiamato luce. Costoro, li voglio accecare: lampo della mia
sapienza! Cavagli gli occhi!".

5. LIBRI. ENZO MODUGNO PRESENTA "LA FABBRICA DEL FALSO" DI VLADIMIRO
GIACCHE'
[Dal quotdiano "Il manifesto" del 30 luglio 2008 col titolo "Guerre. Un
lessico svuotato per coprire la crisi" e il sttotitolo "Da Vladimiro
Giacche', La fabbrica del falso"]

Domandarsi se si concretizzera' mai l'ipotesi di una guerra contro l'Iran,
equivale a chiedersi se sia diventata davvero necessaria l'intensificazione
dell'economia militare e se l'Iran, in qualche modo, possa servire a questo
scopo. Dalla Luxemburg ad Augusto Graziani e' stato detto tutto sulla
produzione bellica, una produzione che serve a rimandare le crisi economiche
e ad assicurare il dominio sui mercati. Opportunamente, l'editore
DeriveApprodi ha pubblicato una rigorosa ricerca filosofico-politica di
Vladimiro Giacche', intitolata La fabbrica del falso. Strategie della
menzogna nella politica contemporanea (pp. 272, euro 18), che ha il merito
di ricordarci come vengono giustificate tali inconfessabili finalita' del
militarismo.
Tre sono i compiti sui quali, oggigiorno, l'amministrazione degli Stati
Uniti sta impegnando le sue principali risorse: gestire militarmente la
crisi economica, assicurare il dominio sui mercati e giustificare la guerra.
Il primo compito - la gestione militare della crisi - e' il piu' urgente. Lo
scorso 15 luglio, dalle pagine del "Manifesto", Uri Avnery ha parlato della
follia della guerra e ha concluso, sia pure con qualche cautela, che la
guerra contro l'Iran non ci sara'. Dal suo fermo intervento, pero', sono
assenti considerazioni di tipo economico. Ma se provassimo a considerare la
tendenza permanente alla crisi economica che e' il vero nemico che rode
dall'interno l'"impero", potremmo capire perche' cio' che molti considerano
una follia (e un crimine) diventa invece, per una parte del grande capitale
statunitense, una decisione razionale. Anzi, l'unica possibile. Una guerra
cioe' che giustifichi una spesa militare sufficiente ad assicurare la
ripresa dell'economia: in fondo e' solo un intervento di politica economica
un po' piu' energico, che la classe dirigente degli Stati Uniti pratica con
successo ormai da molti anni. Perche', ancora una volta, la crisi riaffiora.
Al punto che l'intervento pubblico nell'economia non viene piu' demonizzato,
ma lo si invoca a gran voce.
Allo Stato si chiede, come gia' e' successo dopo la grande crisi del 1929,
di socializzare le perdite. La verita', pero', e' che gli Stati Uniti non
uscirono dalla grande crisi grazie ai salvataggi bancari o alle dighe di
Roosevelt, ma in virtu' della spesa militare per la seconda guerra mondiale.
E' stato cosi' anche con le guerre successive, dalla Corea a quella piu'
recente in Iraq, che ha consentito agli Usa di uscire dalla recessione
cominciata nel marzo 2001 e ha dato inizio all'ultimo boom di borsa
interrottosi solo nell'estate scorsa. In tutti questi casi le crisi
economiche sono state superate con la produzione delle armi e con il loro
utilizzo. La "soluzione Warfare", insomma.
Riguardo al secondo compito dell'amministrazione americana - il dominio sui
mercati - la guerra in Iran raddoppierebbe l'effetto che ha avuto quella in
Iraq, bloccando un'altra grande riserva di petrolio sotto il controllo delle
multinazionali americane. La convinzione che ci sara' la guerra in Iran,
infatti, e' uno dei veri motivi del rialzo del prezzo del petrolio, assieme
allo squilibrio tra domanda e offerta e alla debolezza del dollaro. Marc
Faber, un grande gestore di patrimoni con sede a Hong Kong, ha dichiarato
che oggi non ha senso vendere petrolio "perche' se l'Iran fosse bombardato
le quotazioni del greggio schizzerebbero verso il cielo senza preavviso".
Il terzo compito, infine, e' quello di giustificare l'enorme spesa militare.
Qui, come scrive Vladimiro Giacche', "la produzione della menzogna si radica
nella menzogna della produzione". Perche' e' inconfessabile l'instabilita'
di un modo di produzione irrazionale che tende costantemente alla
depressione e sopravvive devastando con la guerra un paese dopo l'altro.
Quindi le crisi, che dipendono da cause endogene, debbono invece essere
addebitate a nemici esterni. Per questo funziona a pieno regime la "fabbrica
del falso". Persino il filosofo della politica Michael Walzer si accorge che
la recente ripresa dei negoziati americani con l'Iran potrebbe essere "una
mossa tattica" al fine di convincere l'opinione pubblica mondiale "che gli
Stati Uniti cercano una soluzione pacifica della crisi, e nel caso di un
fiasco negoziale per giustificare un eventuale uso della forza" ("Corriere
della sera" del 18 luglio). Tornano le armi di distruzione di massa, il
tiranno da abbattere, la democrazia da esportare, ovunque si ripresenta la
stessa messinscena dell'attacco all'Iraq. Il libro di Vladimiro Giacche'
indaga la sistematica falsificazione, che si impadronisce delle parole e ne
cambia il significato a partire dai termini chiave del nostro lessico
politico. Contro i fatti piu' ostinati si fa un uso massiccio di eufemismi.
La guerra diventa "regime change", le torture "tecniche professionali di
interrogatorio".
Il saggio di Giacche' oppone quindi un'analisi documentata alla razionale
follia di quella "fabbrica del falso" costantemente all'opera che ha
raggiunto anche organizzazioni di sinistra. Per tutti dovrebbe valere la
sentenza di Karl Kraus: "Che ci sara' la guerra appare meno inconcepibile
proprio a coloro per i quali lo slogan 'c'e' la guerra' ha permesso e
coperto ogni vergogna".

6. LIBRI. ALBERTO PAPUZZI PRESENTA "UN FILO TENACE. LETTERE E MEMORIE" DI E
SU WILLY JERVIS
[Dal sito del quotidiano "La stampa" (www.lastampa.it) riprendiamo il
seguente articolo del 20 febbraio 2008, dal titolo "Willy Jervis un eroe
normale. Pubblicato l'epistolario con la moglie" e il sommario "Storia
esemplare di un azionista morto per un'idea d'Italia"]

L'11 marzo 1944 e' una bella giornata di primavera nelle valli valdesi, a
ovest di Torino. Willy Jervis, 43 anni, ingegnere meccanico alla Olivetti,
capo militare del Partito d'Azione, scende in motocicletta dalla Val
Germanasca, dove ha incontrato una banda, verso Torre Pollice, dove e'
sfollato con la famiglia. Ma e' fermato dalle SS italiane presso Luserna San
Giovanni. Portato in caserma, cerca invano di disfarsi nella latrina di una
cartuccia di gelatina, di lettere dategli dal capo partigiano Roberto Malan,
di carte annonarie e licenze per ufficiali, che dovevano servire per
coperture di partigiani. A casa gli trovano due foglietti con trascrizioni
di trasmissioni radiofoniche inglesi e dieci sterline (resto di una somma
datagli per la fuga in Svizzera di famigliari degli Olivetti). Picchiato
brutalmente, rischia di essere ammazzato subito. Si difende dicendo che era
andato a sciare, ammette di aver accettato un incarico dai ribelli, ma nega
di essere un attivista antifascista. E' trasferito a Torino, in mano alla
Gestapo.
Purtroppo, nella stessa zona e negli stessi giorni, e' catturato Emanuele
Artom, anch'egli azionista, che sottoposto a feroci torture (di cui morira'
il 7 aprile), indica in Jervis un corriere dei partigiani. L'ingegnere e'
costretto a fare ammissioni sulla sua attivita' (attento a dire sui compagni
soltanto le cose che fascisti e tedeschi potevano gia' sapere). Dichiarato
dalla polizia tedesca "elemento estremamente pericoloso", da quel momento
vive un'odissea di cinque mesi, fra esecuzioni rimandate all'ultimo momento
e vane speranze, almeno di deportazione. La moglie Lucilla si muove
febbrilmente fra le carceri Nuove, il comando della Gestapo, le case degli
amici. L'ultima carta e' un tentativo di scambio con un ufficiale tedesco
fatto prigioniero, che pero' rimane ucciso dai partigiani. E' la fine, lo sa
anche lui: portato a Villar Pellice, Jervis e' fucilato la notte fra il 4 e
5 agosto. Trascinato da un camion, reso irriconoscibile, il corpo viene
esposto nella piazza in un macabro rituale di impiccagione post-mortem.
Questa storia, drammatica ed esemplare, solo in parte gia' pubblicata, e'
documentata in un libro che Bollati Borighieri manda in libreria a fine
settimana: Un filo tenace. Lettere e memorie 1944-1969 (a cura di Luciano
Boccalatte, prefazione di Giovanni De Luna, pp. XLVI-240, euro 20).
Raccoglie le lettere, sia ufficiali sia clandestine, fra Jervis e la moglie
in quei cinque terribili mesi. Nato a Napoli, nipote di un inglese che
combatte' con Garibaldi e figlio di un ingegnere amico di Salvemini, valdese
praticante, percio' antifascista, scalatore e sciatore di grandi doti,
Jervis e' al centro di questa storia da eroe senza retorica, consapevole,
lucido, espressione di un'altra Italia in cui si moriva per un'idea. Nel
1932 aveva sposato Lucilla Rochat, di famiglia fiorentina, con il nonno
paterno pastore valdese e un padre medico, socialista salveminiano, attivo
fra gli antifascisti di Italia libera e nel foglio "Non mollare". Nelle sue
lettere lei le parla dei loro figli Giovanni (1933) e Paola (1939). Finita
la guerra, Lucilla torno' in Toscana, a insegnare letteratura inglese. E'
morta nel 1988.
Il libro presenta un secondo carteggio, fra Lucilla Jervis e Giorgio Agosti
(Torino, 1910-1992), amico di Ginzburg e Bobbio, magistrato dal 1935, tra i
fondatori del Partito d'Azione, commissario delle formazioni GL, questore di
Torino dalla liberazione al 1948, insignito dai francesi della Legion
d'onore. Le sue lettere sono un controcanto, perche' portano a galla il
rigore, l'intransigenza, e soprattutto le disullusioni, dell'esperienza
azionista. "La reazione - scrive Agosti - guadagna terreno". Il governo e'
quello "dei sacrestani", al potere ci sono i "democani"; vengono a galla
tutti i dubbi sulla consistenza del Partito d'Azione. S'aggiunge una memoria
scritta da Lucilla per i figli nel 1953, mai mostrata ad alcuno e ritrovata
dopo la morte. Una novita' e' la postfazione di Giovanni Jervis, figlio di
Willy, conosciuto psichiatra, che per la prima volta parla della vicenda. Si
ferma sulla figura di Agosti, quasi secondo padre, come rappresentante di
"un'etica della vita civile che nei decenni successivi si e' appannata ed e'
stata persino un po' dimenticata".

7. LIBRI. ARMANDO TORNO PRESENTA LE "RIME" DI PIETRO BEMBO A CURA DI ANDREA
DONNINI
[Dal "Corriere della sera" del 6 agosto 2008 col titolo "Grazia e lussuria:
attualita' di Bembo" e il sottotiolo "Le Rime a cura di Andrea Donnini. Il
madrigale nacque dalla lezione di quel poeta giudicato pedante"]

Si narra che Lord Byron durante la sua visita in Ambrosiana, pur pressato
dai controlli di sacerdoti e inservienti, riuscisse a imparare a memoria le
lettere tra Lucrezia Borgia e Pietro Bembo qui conservate; anzi rubo' anche
un capello della ciocca bionda della dama. La reliquia, carica di lussuria,
era giunta nella biblioteca milanese insieme alle ricordate missive.
D'Annunzio, un secolo piu' tardi, ebbe soltanto il privilegio di toccare
questo frammento di chioma. E promise, magato dal contatto, di donare una
teca per conservarne l'aura. Cosa che mai fece, lasciando l'incombenza ad
altri.
Indubbiamente Bembo "amo' non invano" Lucrezia, tanto che a lei dedico' nel
1505 gli Asolani, tre libri di dialoghi e riflessioni d'amore che
testimoniano quanto l'Umanesimo si fosse infatuato del Convito di Platone.
Pagine di cui De Sanctis segnalo' l'"espressione pedantesca", ma che tra
incanti poetici e giochi di pure forme sembrarono perfette per la figlia di
papa Borgia: in esse si avverte, tra l'altro, l'innegabile gioia recata
dalla sensualita' e dai piaceri mondani. O forse, concedendo la parola a un
verso rifiutato del Bembo, e' come se il futuro cardinale sussurrasse:
"Amor, d'ogni mia pena i' ti ringrazio,/ si' dolce e' 'l tuo martire".
Colto, nobile, ricco, tanto da potersi permettere un lungo soggiorno a
Messina per imparare il greco presso l'ellenista Costantino Lascaris, padre
di tre figli nati dalla relazione con la Morosina (che mai sposera'), Bembo
conosce otium e negotium vivendoli con grazia ed eleganza. La sua opera
tocca diversi ambiti: se gli Asolani ne riflettono le inclinazioni
filosofiche, per incarico della Serenissima continuo' fino al 1513 la storia
di Venezia che il Sabellico aveva interrotto al 1487, quindi defini' una
norma dell'italiano con le fondamentali
Prose della volgar lingua (1525). Grande specchio di un'epoca e' invece il
suo epistolario. Fu anche filologo: amico del sommo stampatore Aldo Manuzio,
curo' un'edizione del Canzoniere di Petrarca e de Le terze rime di Dante,
vale a dire della Commedia. Non sono che due esempi dei tanti possibili.
Cosa puo' dire ancora al nostro tempo questo patrizio coltissimo? E' appena
uscita un'edizione delle Rime dovuta ad Andrea Donnini (Salerno Editrice, 2
volumi, pp. 1392, euro 140), basata sul manoscritto Viennese 10245 (del
1541), idiografo e rivisto dal medesimo autore sino agli ultimi giorni:
fatica preziosa che consente di tentare osservazioni in margine a una poesia
che ha contaminato non soltanto la cultura di un'epoca ma anche la musica e
il gusto, diffondendo l'amore per Petrarca. La cura di Donnini - dottore di
ricerca a Genova - e' degna della massima lode; o meglio, guardando
l'incredibile lavoro compiuto per il censimento dei manoscritti, delle
edizioni a stampa, per le indagini sulla tradizione d'autore (e anche su
quella non controllata dal Bembo stesso), i chiarimenti cronologici e le
occasioni di composizione, pur limitandoci ad alcune parti vistose
dell'apparato, si potrebbe definire una fatica commovente. E questo va detto
senza infingimenti in un tempo che si occupa dei nostri classici come puo' e
quando riesce, trasformandoli sovente in materia per gestire baronie o per
dar vita a comitati d'affari.
Tornando alla domanda che ci siamo posti, anzi riducendola all'osso, e' il
caso di chiederci di nuovo: che cosa recano oggi queste Rime? Alcune
risposte le ha scritte Donnini nell'introduzione e nel formidabile apparato,
altre la storia della cultura: bastera' elencare le molte lodi
cinquecentesche, le magistrali ricerche di Carlo Dionisotti o la sottile
osservazione di Girolamo Tiraboschi nella sua Storia della letteratura
italiana: "Ardi' quasi solo di ritornare sulle vie del Petrarca, cui egli
prese non solo a imitare, ma a ricopiare ancora in se stesso" (volume VII,
p. 1086, edizione 1796 di Venezia). Per Benedetto Croce, certo, Bembo resta
un "non poeta"; chi scrive, con piu' semplicita', nota che le sue Rime,
dalle strofe ben costruite e dai versi calibrati in ogni minimo soffio (con
un'attenzione maniacale per le singole vocali), ispireranno composizioni di
Luca Marenzio, Claudio Monteverdi, Marco da Gagliano, per ricordare alcuni
tra i piu' grandi. Bembo sara' il punto di forza per trasformare la vecchia
frottola in madrigale. Il brutto anatroccolo diventera' un cigno ascoltando
il suono di sillabe ritmate ed eleganti.

8. LIBRI. FRANCO VOLPI PRESENTA "NOI" DI EVGENIJ ZAMIATIN
[Dal quotidiano "La Repubblica" del 24 novembre 2007 col titolo "La
fantascienza odiata dall'Urss" e il sommario "Noi, il romanzo scritto da
Evgenij Zamjatin nel 1922, per anni proibito nell'Unione Sovietica"]

Zamjatin, ingegnere navale di professione e maestro di fantascienza a tempo
perduto, immagina che in un remoto ma inevitabile futuro l'intera umanita'
cadra' sotto il governo totalitario dello Stato Mondiale Unico. Guidato da
un Grande Benefattore e controllato da Guardiani che soffocano ogni
dissidenza, esso trasforma gli individui in numeri e li priva
dell'immaginazione per garantire l'"armonia quadrata", matematica,
dell'insieme. La vita e' scandita dal "Libro delle Ore" che impone a tutti
lo stesso identico ritmo e dunque la perfetta coincidenza di tutti i
movimenti e tutte le azioni. Formato da individui che vivono come cifre,
secondo le armoniose leggi della tavola pitagorica, lo Stato Unico e' un
ingranaggio perfetto in cui regna la felicita'.
Il protagonista, un matematico che si chiama D-503, progetta un gigantesco
razzo di vetro e acciaio, l'Integrale, per diffondere nell'universo il
modello politico dello Stato Unico. D-503 si lascia pero' infettare da un
numero irrazionale, ovvero si invaghisce di I-330, giovane rivoluzionaria
adepta di un gruppo segreto che cospira per impadronirsi dell'Integrale e
sovvertire lo Stato. Grazie ai Guardiani, che neutralizzano il complotto, il
Benefattore riafferma la sua sovranita' ed escogita un modo per garantire
definitivamente la stabilita' dell'ordine: una Grande Operazione di
lobotomia che recida in tutti gli individui la parte del cervello dove ha
sede l'immaginazione. E' infatti l'imprevedibilita' di questa facolta' a
produrre instabilita', disordine, disgregazione. Subita l'operazione, gli
Uomini Nuovi sono finalmente adatti per inserirsi nell'ordine dello Stato
Unico.
Questo fulminante e pionieristico romanzo anti-utopico, scritto tra il 1920
e il 1922, e proibito nell'Unione Sovietica fino al 1989, fu noto dapprima
nella traduzione inglese (1924), poi in quella ceca (1927) e francese
(1929), e solo nel 1952 fu pubblicato a New York il testo russo integrale.
Su quest'ultimo e' basata la versione italiana di Ettore Lo Gatto del 1955,
ora rivista da Barbara Delfino e curata da Stefano Moriggi. Ispirato ai
racconti fantastici di Herbert G. Wells, esso e' stato a sua volta preso a
modello da Aldous Huxley in Brave New World, da George Orwell in 1984, e
soprattutto da Ferdinand Bordewijk nel racconto Blocchi, che sviluppa il
motivo del "cubismo di Stato" in uno stile secco, ficcante, incisivo, molto
simile a quello di Noi.
Il romanzo fu subito letto come una corrosiva critica del sistema sovietico,
allora appena sorto, e Zamjatin si salvo' solo grazie alla protezione di
Gorkij emigrando a Parigi. Fu anche accusato di trotzkismo perche' accennava
a "infinite rivoluzioni". In realta', esse non hanno nulla a che fare con la
"rivoluzione permanente" di Trotzkij, ma sono il risultato della dialettica
di due principi, come Zamjatin spiega in un saggio coevo Su letteratura,
rivoluzione, entropia e altre cose: "Due forze governano il cosmo:
l'entropia e l'energia. La prima produce la quiete pacifica e l'equilibrio
beato, l'altra conduce alla rottura dell'equilibrio, all'inesausto e
doloroso movimento". E aggiunge: "L'unica (amara) medicina contro l'entropia
dell'esistenza umana e' l'eresia". Ma la vera speranza e' il fatto che il
Dio creatore di questo mondo e' "il piu' grande degli scettici", e che
percio' e' ragionevole supporre che anche sullo Stato Unico - che in verita'
descrive una condizione che non e' mai stata, e che mai sara' - incomba un
destino di transitorieta' in ragione del quale prima o poi esso implodera'.
Alla fine si radica in noi un convincimento: l'immaginazione e' l'unico
luogo di questo mondo in cui vale la pena abitare.

9. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

10. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.miritalia.org; per contatti: mir at peacelink.it, luciano.benini at tin.it,
sudest at iol.it, paolocand at libero.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 542 del 9 agosto 2008

Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca
per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

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