Voci e volti della nonviolenza. 211



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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino"
Numero 211 del 9 agosto 2008

In questo numero:
1. Massimo L. Salvadori ricorda Francois Fejto
2. Luigi Onori ricorda Esbjorn Svensson
3. Stefano Catucci ricorda Mario Rigoni Stern
4. Tommaso Di Francesco ricorda Bronislaw Geremek
5. Luigi Onori ricorda Johnny Griffin
6. Maria Luisa Righi ricorda John Cammett
7. Roberto de Angelis ricorda Georges Lapassade

1. LUTTI. MASSIMO L. SALVADORI RICORDA FRANCOIS FEJTO
[Dal quotidiano "La Repubblica" del 4 giugno 2008 col titolo "La scomparsa
di un autentico testimone del secolo. Fejto. Annuncio' la fine del
comunismo" e il sommario "I suoi lavori piu' importanti sono dedicati al
mondo delle democrazie popolari, al colpo di Stato di Praga del '48 e alla
rivoluzione ungherese del '56"]

Francois Fejto era un cittadino d'Europa, che ebbe i suoi due baricentri
nella Mitteleuropa e in Francia. Nato nel 1909 in una famiglia di ebrei
ungheresi che trafficava con i libri, trovo' la sua seconda patria in
Francia, dove si stabili' nel 1938. Aver preso parte alla vita letteraria e
politica dell'Ungheria fascistoide, in cui era passato attraverso una
militanza socialista e antifascista finita nell'adesione al comunismo, gli
era costata la prigione.
Dopo aver militato nelle file della Resistenza francese, Fejto nel 1947
accetto' di assumere la direzione dell'Ufficio della stampa e della
documentazione dell'ambasciata ungherese di Parigi, da cui diede le
dimissioni per protesta contro l'ondata di arresti e processi, tra cui
quello dell'amico Laszlo Rajk. L'adesione al comunismo era da tempo alle
spalle, ed egli si lego' a influenti intellettuali francesi liberali come in
primo luogo Aron e con loro combatte' battaglie in nome della liberta' su
posizioni di critica aperta nei confronti dello stalinismo. Fu un
attivissimo collaboratore di giornali e riviste, da "Esprit" ad "Arguments",
"Contre-Point", "Le Monde", "Les Temps modernes", "Le Figaro", "La Stampa",
"Il Giornale". Nel 1955 prese la cittadinanza francese.
Morto l'altro ieri, quasi centenario, e' davvero stato uno dei testimoni
intelligenti del suo secolo. Sapeva di esserlo stato e rese conto del suo
lungo cammino nel suo libro-bilancio Passeggero del secolo (1999).
Cosmopolita, cittadino d'Europa, Fejto non aveva dimenticato le sue radici
ebraiche ungheresi, come mostrano ad esempio i due libri L'Ungheria e gli
ebrei del 1961 e Dio e il suo ebreo. Saggio eretico (1961). E neppure le
radici mitteleuropee. Aveva, lui cui era stato dato di assistere da bambino
al crollo dell'impero austro-ungarico e poi alle traversie senza pace dei
paesi nati dalla sua dissoluzione, una certa nostalgia per quel mondo
perduto; e la espresse nel saggio significativo del 1988 Requiem per un
impero defunto e nella precedente biografia dedicata nel 1953 a Giuseppe II.
Ma il suo contributo piu' importante di storico, analista e commentatore
Fejto lo ha dato nei libri e nei saggi dedicati al mondo comunista: nei
lavori sulla storia delle democrazie popolari, sul colpo di Stato di Praga
del 1948, sulla rivoluzione ungherese del 1956, sulla Primavera di Praga del
1968, sul conflitto sino-sovietico, sull'eredita' di Lenin,
sull'antisemitismo nei paesi comunisti. Qui mostro' una grande capacita' di
penetrazione e una conoscenza che pochi altri potevano pareggiare.
C'e' da domandarsi quale contributo a occuparsi delle vicende del comunismo
e a capirle sovente con straordinaria acutezza sia venuto dall'essere stati
prima comunisti e poi dall'aver cessato di esserlo. Vengono alla mente nomi
come quelli di Arthur Rosenberg, di Boris Souvarine, di Victor Serge, Arthur
Koestler, a cui se ne potrebbero aggiungere tanti altri. Orbene, per quanto
riguarda Fejto, prima della sua Storia delle democrazie popolari, di cui il
primo volume usci' nel 1952 e il secondo nel 1969, la conoscenza dei paesi
comunistizzati dell'Est era parziale, del tutto inadeguata. L'opera segno'
una svolta, ebbe un grande successo e divenne un classico della materia. Nel
1992 Fejto la completo' con La fine delle democrazie popolari. Era il
coronamento di una ininterrotta e appassionata ricerca.
Quale fosse il suo credo di storico, Fejto l'aveva espresso nella prefazione
al primo volume della Storia delle democrazie popolari, dove scriveva: "Noi,
con Marc Bloch, crediamo che lo storico possa rendere un servigio utile alla
causa del progresso, della liberta', della giustizia sociale, soltanto col
difendere l'integrita', la liberta' della passione che lo anima in quanto
storico: la passione che sta nel comprendere. E con questa passione, e' dal
punto di vista dell'uomo che si sforza di 'vedere le cose cosi' com'esse
sono', ton eonta, come gia' diceva Erodoto, che ci siamo proposti di
studiare un frammento della storia contemporanea, lo sviluppo dopo la
seconda guerra mondiale, di sette paesi dell'Europa orientale".
E nel 1971, chiudendo una nuova edizione del secondo volume, Fejto' mostrava
di aver pienamente capito quale fosse il tarlo roditore del sistema
comunista, che poco meno di venti anni dopo avrebbe condannato quest'ultimo
all¥implosione: "il volto repressivo assunto dal socialismo, la sua
realizzazione dittatoriale e incompetente, vengono messi sotto accusa sempre
piu' spesso. (...) Il sistema non funziona; e siccome non funziona, nessuno
ha fiducia nel sistema".
Era la premonizione della catastrofe che si sarebbe rivelata a tutto tondo
nel 1989, quando le dittature dell'Est sarebbero cadute in una festa di
popoli, senza che nessuno alzasse un dito a loro difesa.

2. LUTTI. LUIGI ONORI RICORDA ESBJORN SVENSSON
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 17 giugno 2008 col titolo "Esbjo
Svensson, genio del jazz con la forza del pop" e il sottotitolo "Tragedia
nell'Arcipelago di Stoccolma, muore affogato il grande pianista svedese"]

E' morto ieri in mare, durante un'immersione nell'arcipelago di Stoccolma,
il pianista svedese Esbjorn Svensson. Si era calato in mare con un gruppo di
amici ed un maestro; e' rapidamente scomparso alla vista e quando e' stato
trovato - a quel che si apprende da Burkhard Hopper, agente dell'Esbjorn
Svensson Trio - era sul fondale gravemente ferito. A nulla e' servito il
trasporto in ospedale con un elicottero. Una tragica fatalita', come si dice
in queste occasioni, ha fatto scomparire uno dei protagonisti del jazz in
Europa nell'ultimo decennio, un pianista e compositore amato e seguito da un
pubblico vasto, "un artista di jazz con la forza di una popstar" come ha
detto Hopper. Da decenni la Scandinavia e' patria di musicisti eccellenti -
da Lars Gullin a Jan Garbarek - che lasciano un segno profondo. Svensson
diede vita nel 1997 ad un innovativo trio con il contrabbassista Dan
Berglund ed il batterista Magnus Ostrom; gia' segnalato nel '96 come miglior
musicista di jazz negli Swedish Grammy, il pianista si impose in patria nel
1998 con l'album Winter in Venice, pubblicato dalla tedesca Act che ha
editato tutti i dieci album dell'E.S.T.
Un successo travolgente quello del gruppo e del suo leader, contrassegnato
da una serie di premi europei tributati in Inghilterra, Austria, Germania,
Francia, con quattro album vendutissimi (Good Morning Susie Soho, Strange
Place for Snow, Seven Days of Falling, Viaticum), con copertine su riviste
specializzate, da "Down beat" a "Jazzthetik". Esbjorn Svensson e' stato
capace di reinventare il trio jazz, abbandonando l'interplay sofisticato
delle formazioni di Bill Evans o Keith Jarrett. Il suo pianismo era piu'
semplice ed immediato, il repertorio originale aveva l'energia del rock ed i
suoi musicisti portavano nella dinamica del gruppo i ritmi drum 'n bass e
l'elettronica, ferma restando l'improvvisazione di ascendente jazzistico:
per questo piaceva ad un pubblico vasto ed intergenerazionale. La formula
del'E.S.T. trio era in continua mutazione e la critica aveva parlato di
"romanticismo dark" per Tuesday Wonderland (2006). Difficile, pero',
dimenticare l'atmosfera straniata e sospesa di From Gagarin's Point of View
o la carica travolgente, quasi metallara, di Dodge the Dodo. Una fine
imprevedibile, una tragedia familiare e musicale per un artista che, in un
certo senso, era diventato l'eroe sonoro di una generazione sospesa tra la
fascinazione per il jazz e l'urgenza di nuovi codici espressivi.

3. LUTTI. STEFANO CATUCCI RICORDA MARIO RIGONI STERN
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 18 giugno 2008 col titolo "L'addio a
Rigoni Stern", il sommario "Raccontava che la sua tragedia, e insieme il suo
capolavoro, si consumarono dal Don al fronte occidentale, dove arrivo' senza
perdere nessuno dei suoi soldati. Lo scrittore e' morto l'altro ieri a
Asiago dopo essersi dedicato alla riflessione etica sulla relazione con
l'altro, amico o nemico. Tra i suoi libri che resteranno, Il sergente nella
neve e Arboreto salvatico", e la scheda "Da poco e' uscito per Einaudi un
libro, Le vite dell'altipiano, che - raccogliendo e riordinando i 'racconti
di uomini, boschi e animali' scritti da Mario Rigoni Stern nel corso dei
decenni - potrebbe essere letto come l'autobiografia (una delle possibili
autobiografie) dell'autore. Rigoni Stern nacque ad Asiago nel 1921 e tra la
gente di montagna dell'altopiano di Asiago trascorse l'infanzia. Nel '38
entro' alla Scuola militare d'alpinismo di Aosta e combatte' poi come alpino
nel battaglione Vestone, in Francia, in Grecia, in Albania, in Russia. Fatto
prigioniero dai tedeschi dopo l'8 settembre, fu trasferito nella Prussia
orientale e rientro' infine a casa, a piedi, nel 1945. Da allora non si e'
piu' mosso dal luogo dove era nato, dove viveva nella casa da lui stesso
costruita e dove e' scomparso l'altro ieri, lasciando consegna che la
notizia della morte venisse data a funerali avvenuti. Fino al '70 ha
lavorato al catasto comunale, e si e' poi dedicato alla scrittura, quel
mestiere che era diventato il suo nel '53, quando Vittorini, dopo averlo
definito scrittore non di vocazione, pubblico' nei Gettoni il suo primo
romanzo, Il sergente nella neve, che sarebbe diventato un classico
contemporaneo. Uscito nel 1953 nella collana dei Gettoni di Einaudi diretta
da Elio Vittorini, Il sergente nella neve e' il racconto autobiografico
della ritirata di Russia cosi' come la visse un gruppo di alpini. Immediato
il successo di pubblico e di critica, che fece del libro un classico della
letteratura moderna italiana. La conferma del talento di narratore di Rigoni
Stern giunse nel 1962, quando lo scrittore diede alle stampe (ancora per
Einaudi, questa volta nei Coralli) Il bosco degli urogalli, dedicato a
quello che sarebbe diventato il tema centrale dei suoi libri, il profondo
rapporto che unisce un uomo alla propria terra. il legame tra memoria e
natura. E' del 1978 invece Storia di Tonle - L'anno della vittoria, che,
ripercorrendo la vita di un pastore attraverso le sue diverse eta', continua
idealmente la nitida rievocazione storico-personale avviata da Rigoni Stern
nei libri precedenti. Storie di piante e animali, acque e boschi, montagne e
fiori, neve e disgelo: sono Le vite dell'altipiano che compongono l'ultimo
libro di Rigoni Stern, da poco uscito per Einaudi. E Storie dall'altipiano
e' anche il titolo del Meridiano che Mondadori ha dedicato allo scrittore di
Asiago nel 2003. Nell'arco di tre giornate lo scrittore ha raccontato a
Marco Paolini la propria vita. Il risultato di questa intenso dialogo e'
"Ritratti. Mario Rigoni Stern", un film firmato dallo stesso Paolini con
Carlo Mazzacurati (adesso anche in dvd per Fandango)"]

La fama del libro di esordio, Il sergente nella neve, pubblicato da Einaudi
nel 1953, ha in parte oscurato l'opera di Mario Rigoni Stern e soprattutto
ne ha condizionato la ricezione nella prospettiva in campo lungo della
memorialistica di guerra. La disfatta di Russia, vissuta appunto dal
sergente del VI battaglione degli Alpini "Vestone", ha lasciato nella sua
scrittura un segno ancora piu' profondo di cio' che egli considerava la
tragedia e, insieme, l'autentico capolavoro della propria esistenza:
l'essere riuscito a raggiungere il fronte occidentale, partendo dal Don,
senza perdere neppure uno dei settanta uomini di cui era a capo. Quel segno
sta nel colore bianco che domina le immagini e che avvicina il paesaggio
sterminato delle pianure russe all'altopiano di casa, quello di Asiago, a
sua volta teatro di una guerra che nei libri di Rigoni Stern sembra non
avere mai avuto fine.
Non c'e' forse scrittore italiano nel quale il paesaggio occupi un posto
tanto significativo e si dispieghi con tanta ampiezza, toccando gli estremi
del dettaglio e dell'orizzonte piu' vasto, dalla singola foglia d'albero
alla visione della volta stellata. Il paesaggio di Rigoni Stern non
appartiene a una nazione, non e' diviso da confini, non conosce la parola
"straniero". E' un personaggio che sovrasta la scena della storia e che
assiste immobile, ma non imperturbabile, alle catastrofi del XX secolo. Ne
esce ferito, dilaniato, malato, ma nella sua rovina riesce anche a imporsi
come lo sfondo autentico della vita, di un'altra storia fatta di tempi
lunghi e di lavoro, di fatica quotidiana e di amore, lontana dalla guerra
come puo' esserlo dalla ferocia di ogni violenza nel cambiamento.
A volte si potrebbe essere indotti alla confusione. Poiche' racconta storie
non solo della guerra vissuta, la seconda, ma anche di quella che si era
svolta sul suo altipiano, la prima, si puo' essere tentati di pensarlo come
un tardivo esempio di quella letteratura alpina che, a partire dagli anni
Venti, ha esaltato le virtu' del soldato-contadino, anzi montanaro, legato
alle proprie radici e proprio percio' diverso dalla figura del
soldato-operaio, la cui alienazione e' stata vista come il prodotto della
trasformazione che rese i combattenti della Grande Guerra tanto diversi
dagli epici cavalieri del passato.
Storia di Tonle, del 1978, L'anno della vittoria, del 1985, e la raccolta di
racconti brevi Tra due guerre, del 2000, mostrano pero' quanto Rigoni Stern
fosse lontano da questa tentazione arcaicista, populista, sulla quale fece
leva il tentativo di salvare il senso della guerra vittoriosa. Come un
moderno Grimmelshausen, Rigoni Stern sembra raccontare una lunga Guerra dei
Trent'anni senza nulla concedere ai miti moderni fabbricati in serie, come
quelli che inneggiano all'originarieta' della cultura contadina e al
radicamento delle identita' locali. Il mito e' un elemento essenziale della
sua scrittura, ma si colloca in un livello piu' profondo e proprio percio'
piu' vero. E' un mito della terra e della natura, ma e' anche il fondamento
di una forma di cosmopolitismo alternativa, in qualche modo, a quella che
deriva dalla tradizione illuminista: tanto quest'ultima faceva perno sulla
cultura delle popolazioni urbane e su una nuova nozione di "pubblico",
quanto quella di Rigoni Stern parte dall'osservazione della natura e dal
sentimento di fratellanza che si coglie di fronte all'esperienza estrema del
morire insieme. Piu' che una memorialistica di guerra, quella di Rigoni
Stern e' una riflessione etica sulla relazione con l'altro, non importa se
amico o nemico, compaesano o straniero, uomo in carne e ossa o fronda
d'albero pur sempre piena di vita e di spirito.
Volendo scegliere "il" libro di Rigoni Stern, ci si dovrebbe forse orientare
non sul Sergente nella neve, ma su Arboreto salvatico, del 1991. A prima
vista il meno narrativo dei suoi scritti, meno di Uomini, boschi e api, del
1980, meno anche de Il libro degli animali, del 1990, che pure potrebbe
esserne considerato il modello. Arboreto salvatico e' una raccolta di
descrizioni fedele al titolo prescelto, una scuola dello sguardo la cui
letterarieta' emerge solo alla seconda lettura, quando al di la' del tono
vagamente enciclopedico si coglie il lavoro di una mitografia, di una
scrittura, cioe', che raccontando alberi racconta vite millenarie senza
idealizzare la convivenza dell'uomo con il proprio ambiente, senza fare
della natura il luogo per eccellenza della pace. I due ultimi libri
pubblicati, I racconti di guerra e Stagioni, entrambi usciti nel 2006, sono
da questo punto di vista i due pannelli del dittico al quel Rigoni Stern non
ha mai cessato di lavorare: la guerra da una parte, la natura dall'altra. Il
paesaggio e' il termine che lega queste due esperienze ed e' cio' che
conferisce alle sue pagine piu' riuscite una straordinaria forza metafisica.

4. LUTTI. TOMMASO DI FRANCESCO RICORDA BRONISLAW GEREMEK
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 15 luglio 2008 col titolo "Geremek. Il
dissenso dal potere"]

Bronislaw Geremek e' morto domenica presso Poznan a 76 anni in un incidente
stradale - come accadde nel novembre del 1992 a Alexander Dubcek. E' stato
uno dei protagonisti della nuova stagione politica polacca degli anni
Ottanta che influenzo' tutta l'evoluzione storica dell'89 nell'est europeo.
E non solo.
Era nato nel 1932. Figlio di ebrei molto poveri, venne affidato prima della
guerra ad una famiglia di contadini cattolici. I suoi genitori morirono ad
Auschwitz. E' stato uno storico medievista di fama mondiale, aveva studiato
a fondo la struttura sociale del mondo preindustriale con una analisi
rigorosamente marxista. Era stato comunista in gioventu' poi, dopo il
soffocamento della primavera di Praga da parte del Patto di Varsavia, aveva
lasciato il Poup polacco diventando negli anni Settanta un riferimento per
il dissenso, lavorando nelle "universita' volanti" e tra gli operai. Nel
1980 divento' uno dei consiglieri piu' ascoltati di Solidarnosc, il nuovo
sindacato fondato a Danzica da Lech Walesa, del quale fu l'anima
progettuale. In una intervista al nostro K. S. Karol del luglio 1981,
dichiarava al "Manifesto": "Siamo pronti all'austerita' ma solo se le
aziende le governiamo noi. E con una riforma istituzionale che garantisca
con una camera il Poup, la societa' politica, e un'altra camera eletta
direttamente dai lavoratori e in altre istanze della societa' che si occupi
della societa' civile". Erano i primi passi dell'elaborazione di un progetto
di "Repubblica autogestita" che divenne la piattaforma del sindacato di
Walesa. Poco dopo, con la legge marziale introdotta nel dicembre 1981 dal
generale Wojciech Jaruzelski e la messa fuorilegge di Solidarnosc, venne
incarcerato per un anno. Gli studenti del suo corso all'Universita' di
Varsavia appesero questa laconica scritta sulla porta della sua stanza: "Il
corso e' momentaneamente sospeso". Rimesso in liberta', affianco' Walesa
negli organismi clandestini di Solidarnosc.
E da qui "con il suo fascino, la sua barbetta rotonda e la pipa di stile
molto britannico", ha scritto K. S. Karol, ebbe un ruolo fondamentale nella
transizione della Polonia, mediando con il generale Jaruselski attraverso il
modello della "tavola rotonda" tra potere e opposizione nell'aprile 1989.
Dal 1997 al 2000 fu ministro degli esteri e nel marzo 1999 subi'
negativamente l'iniziativa degli Stati Uniti impegnati ad allargare
pericolosamente l'Alleanza atlantica a est, firmando l'atto d'adesione di
Varsavia alla Nato. Nel 2002 fu insignito con la piu' alta onorificenza
polacca, l'Aquila Bianca, che le autorita' nel 2003, quando i gemelli
Kaczynski, Lech (premier) e Jaroslaw (presidente) impressero una svolta
ultraconservatrice e ipercattolica, cercarono di togliergli. Geremek
infatti, europarlamentare liberaldemocratico dal 2004, aveva rifiutato di
sottoporsi alla legge di "epurazione", la lustracja, che imponeva a chiunque
ricoprisse un incarico pubblico di certificare di non aver mai collaborato
con il partito comunista e con il passato regime. Ecco che Bronislaw
Geremek, che accusava il provvedimento di essere "una nuova polizia della
memoria", tornava ad essere l'uomo del dissenso, contro il potere.

5. LUTTI. LUIGI ONORI RICORDA JOHNNY GRIFFIN
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 26 luglio 2008 col titolo "E' morto
Johnny Griffin sontuoso sassofonista e puro spirito libero"]

Aveva scelto l'Europa nel 1962 e fino al '78 vi aveva vissuto comprando
addirittura nel '70 una fattoria in Olanda. Il fato ha voluto che il
tenorista e compositore neroamericano Johnny Griffin morisse all'eta' di 80
anni proprio in Francia, dove si era stabilito dal '66, militando nella
Kenny Clarke-Francy Boland Big Band. E' scomparso ieri ed avrebbe dovuto
suonare a Saint-Georges-Sur-Cher con l'organista Rhoda Scott, il
sassofonista Olivier Temime ed il batterista Julie Saury (con loro si era
esibito lunedi' scorso sempre in Francia, a Hyeres). Muore sul campo
Griffin, un uomo piccolo di statura ma autentico gigante del sassofonismo
jazz e se si pensa a Sonny Rollins, Ornette Coleman, Martial Solal e Lee
Konitz (tutti tra i 78 e gli 81 anni ed in piena attivita') ci si rende
conto come un jazzista non possa andare in pensione se la salute lo
sorregge: Little Giant aveva solo un po' rallentato l'attivita'. Nell'ultimo
trentennio si erano moltiplicati i suoi ritorni negli Usa, continuando ad
avere soddisfazioni in Europa: nel 1987 Parigi lo vide solista
dell'Orchestre National de Jazz, fu ospite di molti festival italiani fin
dal 1971.
Johnny Griffin ha, cosi', percorso molta strada dalla natia Chicago. Dopo
aver studiato clarinetto, passo' al sax tenore ed entro' nel 1945
nell'orchestra selvaggia del vibrafonista Lionel Hampton, esperienza
giovanile che lascera' le sue tracce. Griffin e' stato, in effetti, un
solista dalla notevole velocita', dovuta al fatto che "la sua
immaginazione - come sostengono Case, Britt e Piras - sprizza dalle sue
agili dita, lanciando in aria, prodigalmente, idee a manciate". Gli lp
incisi con la Blue Note un decennio dopo (The Congregation, 1957, con Sonny
Clark, Paul Chambers e Kenny Dennis) ne sono la prova; in quello stesso anno
Griffin entro' per sei mesi nei Jazz Messengers di Art Blakey consacrandosi
come solista hard-bop, dimensione confermata dall'ingaggio con Monk e
dall'incontro in sala di incisione con Coltrane ed Hank Mobley. A suo agio
nei blues e nelle forme canzoni, Griffin e' stato soprattutto un eccelso
improvvisatore, con soli ricchi di vorticosi crescendo, sostenuti da
un'incredibile energia fisica. Da ricordare il gruppo con l'altro tenorista
Eddie "Lockjaw" Davis, la sua Big Soul Band, la militanza nell'orchestra di
Klarke/Boland: di quegli anni e' testimonianza la ristampa Lady Heavy Bottom
Waltz (Schema Records).
Temperamento positivo ed antidrammatico, Griffin dichiaro' negli anni '70 a
Francesco Forti: "per me e' importante che i musicisti siano felici sul
palcoscenico quando suonano. (...) non mi preoccupo affatto di quello che
credo che il pubblico voglia sentire da me. Se no, finirei nella musica pop,
nel consumismo. Io do' al pubblico cio' che sono io, la mia essenza, la mia
esperienza". Il pubblico lo ha sempre amato per questo.

6. LUTTI. MARIA LUISA RIGHI RICORDA JOHN CAMMETT
[Dal quotidiano "L'Unita'" del primo agosto 2008 col titolo "Cammett, la
fortuna di Gramsci in America" e il sommario "La scomparsa. Addio al massimo
studioso Usa del pensatore sardo. Interprete e divulgatore eccezionale delle
Lettere e dei Quaderni, fu artefice degli studi gramsciani in tutto il
mondo"]

John Cammett e' scomparso mercoledi' scorso nella sua casa di New York. Nato
nel 1927 era uno dei maggiori studiosi di Antonio Gramsci ed era stato un
pioniere degli studi gramsciani nel mondo anglosassone. Quando pubblico' il
suo primo articolo su Gramsci, cinquant'anni fa, dovette firmarlo con uno
pseudonimo (Fred Hallett) per salvaguardare l'avvio della sua carriera
accademica dagli strascichi del maccartismo. Il suo interesse per Gramsci
era nato a Roma. Come racconto' lui stesso, agli inizi degli anni Cinquanta,
era stato licenziato per la sua attivita' sindacale nella fabbrica
automobilistica di Detroit, dove aveva scelto di impiegarsi per svolgere
lavoro politico. Aveva quindi ripreso gli studi sul Rinascimento italiano ed
era venuto a Roma per approfondire le sue ricerche. Passando dalle Botteghe
Oscure, rimase impressionato dall'imponenza della sede del Partito
comunista, situata oltre tutto in pieno centro e proprio alle spalle della
Dc. "Negli Stati Uniti - si disse - i comunisti sono pressoche' clandestini,
e qui in Italia riescono ad avere una sede cosi' prestigiosa! Questo Pci
deve avere qualcosa di particolare. Cosi' mi misi a leggere gli scritti di
Togliatti e ben presto incontrai Gramsci". Quando torno' negli Stati Uniti,
chiese di cambiare la sua tesi di laurea, per affrontare il tema "Antonio
Gramsci e il movimento dell'Ordine nuovo", grazie anche a un professore,
come lo definiva lui, "veramente liberale", Shepard B. Clough, che lo
incoraggio' "a perseguire una linea di ricerca che a quei tempi non era
certo di moda".
La tesi discussa nel 1959 gli procuro', nel 1960, anche il premio per il
miglior inedito dell'anno da parte della Society for Italian Historical
Studies, istituzione di cui fu anche segretario. Grazie a una borsa di
studio, Cammett torno' in Italia nel 1964. Era un anno cruciale per gli
studi gramsciani: nei suoi ultimi anni di vita, Togliatti stesso aveva
incoraggiato una "rivoluzione storiografica", favorendo la ricerca e la
pubblicazione di nuova documentazione sulla storia del partito, e proprio
nel 1964, uscirono l'antologia di Giansiro Ferrata e Niccolo' Gallo, 2000
pagine di Gramsci (comprensiva di molti inediti, tra cui la famosa lettera
del '26 al Cc del Partito comunista russo), il rapporto di Athos Lisa del
'33 (apparso su "Rinascita" a cura di Franco Ferri), e si stava completando
la nuova edizione delle Lettere dal carcere, che reintegrava i passi omessi
nel 1947 e comprendeva 119 nuove lettere, (uscita l'anno successivo per
Einaudi, a cura di Elsa Fubini e Sergio Caprioglio). Cammett frequentando
assiduamente l'Istituto Gramsci pote' accedere alla documentazione che
veniva via via scoperta e ordinata, e cio' lo porto' a "riscrivere per
intero il manoscritto originale".
Nel 1967, finalmente vide la luce il suo Antonio Gramsci and the Origins of
Italian Communism, per i tipi della Stanford University Press. La ricerca si
segnalava, non solo per essere il primo lavoro di ampio respiro sulla
biografia del dirigente comunista in lingua inglese, ma anche per aver
introdotto "non pochi elementi nuovi nel dibattito gramsciano", seguendo
"con puntualita' critica quella linea continua fra pensiero e azione" che
caratterizzava l'esperienza politica e ideologica di Gramsci - come scrisse
Domenico Zucaro, introducendo la traduzione italiana: Antonio Gramsci e le
origini del comunismo italiano, (Mursia, 1974).
Oggi Cammett e' universalmente noto nel mondo degli studi gramsciani per
aver dato il via, negli anni '80, alla Bibliografia gramsciana, comprendente
tutti gli scritti di e soprattutto su Gramsci. Propose infatti alla
Fondazione Gramsci di occuparsi egli stesso di una nuova bibliografia,
potendosi avvalere anche delle nuove risorse messe a disposizione
dall'informatica, sia per la creazione di una banca dati che per l'accesso
ai cataloghi elettronici delle biblioteche. Ma fondamentale furono anche i
rapporti epistolari che John riusci' a intrattenere con studiosi di tutto il
mondo, che condividendo l'amore per Gramsci, si sobbarcarono il compito di
stilare bibliografie nazionali. Proposta accolta da Giuseppe Vacca, divenuto
nel frattempo direttore dell'Istituto. Il risultato fu una prima bozza
relativa agli anni 1922-1987, presentata per la prima volta al pubblico al
convegno internazionale Gramsci nel mondo (Formia, 25-28 ottobre 1989). Il
convegno, cui parteciparono studiosi, editori e traduttori di Gramsci
provenienti da vari paesi europei, dagli Stati Uniti, dall'America Latina,
dal mondo arabo, dalla Cina, dal Giappone, dal Sudafrica, forni' anche a
Cammett l'occasione per trovare nuovi collaboratori per la bibliografia. La
rete dei suoi corrispondenti gia' prefigurava quella International Gramsci
Society, che Cammett propose di fondare proprio a Formia, insieme a Joseph
A. Buttigieg e Frank Rosengarten, curatori delle edizioni statunitensi,
rispettivamente, dei Quaderni e delle Lettere.
La mole di dati presentati contava solo di studi su Gramsci 6.000 titoli, in
26 lingue, e desto' grande meraviglia anche tra gli specialisti.
L'elaborazione elettronica dei dati aveva consentito per la prima volta di
compiere un'analisi quantitativa della fortuna di Gramsci per periodi, per
tipologie di scritti, per lingue. La versione a stampa, relativa al periodo
1922-1988, uscita nel 1991, come "Annali della Fondazione Istituto Gramsci"
contava gia' mille titoli in piu' e 28 lingue. Dopo quell'immane fatica,
John era convinto di potersi limitare a pubblicare solo periodici
aggiornamenti, ma non tenne conto della potenza della rete. Man mano che si
facevano piu' numerose le banche dati, anche al di fuori dell'area
statunitense, crescevano anche le informazioni su libri e saggi mai rilevati
alle precedenti ricerche. Inoltre, dai primi anni Novanta, si registro' una
ripresa significativa degli studi gramsciani, sia negli Stati Uniti, dopo
l'avvio della traduzione dei Quaderni per la Columbia University Press, sia
in Italia, stimolata dalle ricerche su Tatiana Schucht, dal recupero di
nuova documentazione proveniente dagli archivi di Mosca, nonche' dalla
progettata Edizione nazionale degli scritti.
Cosi' in pochi anni la mole di titoli cresceva a ritmi geometrici, e si
dovette pubblicare un secondo volume, la Bibliografia gramsciana. Supplement
updated to 1993, che raccoglieva 3428 nuovi titoli. Oggi, la Bibliografia
gramsciana e' un'opera aperta consultabile on line sul sito della Fondazione
Istituto Gramsci (www.fondazionegramsci.org). Conta oramai oltre 17.000
titoli, in 40 lingue tra cui l'afrikaans, il bengalese, l'estone, il
macedone, il malayalam, l'occitano, l'albanese), e si pone come un
riferimento imprescindibile per gli studiosi di Gramsci, che dobbiamo alla
tenacia, alla passione e all'entusiasmo di un grande studioso. Grazie John.

7. LUTTI. ROBERTO DE ANGELIS RICORDA GEORGES LAPASSADE
[Dal quotidiano "Il manifesto" del primo agosto 2008 col titolo "Georges
Lapassade e la 'racaille' di Rue de la liberte'"]

E' impossibile racchiudere l'identita' di Georges Lapassade - scomparso
mercoledi' in un ospedale di Parigi, all'eta' di 84 anni - sotto un'unica
etichetta disciplinare. Nel corso dei suoi studi, infatti, Lapassade ha
sconfinato e attraversato ambiti e campi diversi, dalla sociologia
all'etnologia, fino alla psicanalisi e per molti anni ha diretto il
Dipartimento di Scienza dell'Educazione dell'universita' di Paris VIII Saint
Denis, l'ateneo di banlieue con il piu' alto numero di studenti neri e di
origine migrante.
L'autogestione e la "ricerca-azione" sono i temi centrali che hanno
caratterizzato i lavori e le straordinarie iniziative che Lapassade ha
coraggiosamente sostenuto per tutta la vita. Nel 1992, per esempio, fu lui
ad aprire la radio dell'universita' ai gruppi di minorenni neri che la
usavano per esercitarsi a suon di rap. Giovani in tutto simili quelli che
negli stessi quartieri, nel 2005, avrebbero incendiato auto e scuole.
Sarkozy non manco' di apostrofarli come racaille, "marmaglia".
Fondatore dell'analisi istituzionale, in Francia la sua scuola e' riuscita a
radicarsi accademicamente con autorevolezza grazie ad allievi come Rene'
Lourau e Remi Hess. Autore di un numero sterminato di pubblicazioni, il nome
di Georges Lapassade figura tra quello dei massimi esperti - in ambito
etnografico - degli "stati modificati di coscienza". Studioso singolare, ha
viaggiato a lungo per le sue ricerche sulla trance (transe nella sua
scrittura), ritornando spesso in Salento per riflettere sul tarantismo o in
Marocco per studiare le confraternite. Il suo Saggio sulla transe risale al
1976, seguito da libri che hanno segnato un'epoca come Gli stati modificati
di coscienza e Transe e dissociazione. Anche in questo campo Lapassade ha
sovvertito posizioni consolidate sostenendo che gli "stati modificati di
coscienza" e la "dissociazione" costituiscono una risorsa individuale e
"culturale-collettiva" anche nella societa' post-industriale. Veniva in tal
modo capovolta la teoria classica di Janet che considerava la dissociazione
come patologia, o la sicumera pseudoilluminista che vedeva la trance come
relitto culturale che sarebbe stato spazzato via dalla modernita'.
Georges Lapassade ha frequentato a lungo l'Italia e per piu' di venti anni
ha organizzato nel nostro paese seminari e incontri non solo in spazi
istituzionali come le universita', ma anche in centri sociali occupati e
autogestiti. Ha saputo affrontare le aspre contestazioni che gli venivano
rivolte, non temendo di denunciare le forme di "istituzionalizzazione" che
persino quegli spazi liberati stavano subendo. Nei primi anni '90 ha portato
avanti e sollecitato la ricerca sui rave parties e la techno-trance. Nel
1990, in occasione della lunga occupazione dell'universita' da parte del
movimento della Pantera, organizzo' un seminario di tre giorni sulla cultura
hip hop, chiamando da Parigi rappers e writers a confrontarsi e a lavorare
insieme ai nuovi gruppi italiani, tra i quali Onda rossa posse, oggi Assalti
frontali.
Malato da molti anni aveva dovuto arrestare il proprio spirito nomade,
trasferendosi in una villetta acquistata da un immigrato che era tornato nel
suo paese. La sua casa in Rue de la liberte' e' una comune che ancora oggi
ospita giovani migranti e studenti. Per essere all'universita', in fondo,
bastava attraversare la strada.

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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 211 del 9 agosto 2008

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