La domenica della nonviolenza. 110



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LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 110 del 6 maggio 2007

In questo numero:
1. Rosangela Pesenti: Quale rapporto tra donne e nonviolenza?
2. Elena Pulcini: La violenza senza emozioni. Donne e nonviolenza

1. RIFLESSIONE. ROSANGELA PESENTI: QUALE RAPPORTO TRA DONNE E NONVIOLENZA?
[Ringraziamo Rosangela Pesenti (per contatti: rosangela_pesenti at libero.it)
per questo intervento.
Rosangela Pesenti, laureata in filosofia, da molti anni insegna nella scuola
media superiore e svolge attivita' di formazione e aggiornamento. Counsellor
professionista e analista transazionale svolge attivita' di counselling
psicosociale per gruppi e singoli (adulti e bambini). Entrata giovanissima
nel movimento femminista, nell'Udi dal 1978 di cui e' stata in vari ruoli
una dirigente nazionale fino al 2003, collabora con numerosi gruppi e
associazioni di donne. Fa parte della Convenzione permanente di donne contro
tutte le guerre, della Convenzione delle donne di Bergamo, collabora con il
Centro "La Porta", con la rivista "Marea" e la rivista del Movimento di
cooperazione educativa. Tra le opere di Rosangela Pesenti: Trasloco,
Supernova editrice, Venezia 1998; (con Velia Sacchi), E io crescevo...,
Supernova editrice, Venezia 2001; saggi in volumi collettanei: "Antigone tra
le guerre: appunti al femminile", in Alessandra Ghiglione, Pier Cesare
Rivoltella (a cura di), Altrimenti il silenzio, Euresis Edizioni, Milano
1998; "Una bussola per il futuro", in AA. VV., L'economia mondiale con occhi
e mani di donna, Quaderni della Fondazione Serughetti - La Porta, Bergamo
1998; AA. VV., Soggettivita' femminili in (un) movimento. Le donne dell'Udi:
storie, memorie, sguardi, Centro di Documentazione Donna, Modena 1999; "I
luoghi comuni delle donne", in Rosangela Pesenti, Carmen Plebani (a cura
di), Donne migranti, Quaderni della Fondazione Serughetti - La Porta,
Bergamo 2000; "Donne, guerra, Resistenza" e "Carte per la memoria", in AA.
VV., Storia delle donne: la cittadinanza, Quaderni della Fondazione
Serughetti - La Porta, Bergamo 2002; Caterina Liotti, Rosangela Pesenti,
Angela Remaggi e Delfina Tromboni (a cura di), Volevamo cambiare il mondo.
Memorie e storie dell'Udi in Emilia Romagna, Carocci, Firenze 2002; "Donne
pace democrazia", "Bertha Von Suttner", "Lisistrata", in Monica Lanfranco e
Maria G. Di Rienzo (a cura di), Donne Disarmanti, Intra Moenia, Napoli 2003;
"I Congressi dell'Udi", in  Marisa Ombra (a cura di), Donne manifeste, Il
Saggiatore, Milano 2005; "Tra il corpo e la parola", in Io tu noi. Identita'
in cammino, a cura dell'Udi di Modena, Fondazione Cassa di Risparmio di
Modena, 2006]

Quale rapporto tra donne e nonviolenza?
Alle storiche il compito di raccontare quando dove e come le donne, non
astratti soggetti filosofici ma concrete viventi, hanno ricomposto
lacerazioni, ricostruito condizioni di sopravvivenza, conservato sistemi,
ambienti, persone, culture, utilizzando quei gesti di cura affinati nel
corso di una lunga, varia, creativa e sofferta storia di divisione del
lavoro tra produzione e riproduzione della vita della specie umana.
La segregazione e la discriminazione sociale, a lungo motivate con il ruolo
materno, in larga parte invenzione modellata intorno all'onnipotenza
pubblica del ruolo paterno, hanno determinato insieme a fin troppo visibili
danni sociali e sofferenze individuali, una minore dimestichezza delle donne
con la violenza: armi, oggetti, gesti, relazioni, organizzazioni, costruite
sull'idea di un nemico da sottomettere, umiliare ed eliminare fisicamente,
insomma tutto cio' che nel senso comune riguarda l'organizzazione e la
pratica della violenza, dalla guerra ai pestaggi.
L'evidenza di questa minore dimestichezza va riconosciuta nel cosiddetto
privato ma soprattutto nel cosiddetto pubblico (1), resa visibile e
debitamente elaborata perche' rappresenta un patrimonio di conoscenze e
pratiche che possono essere trasmesse con reciproca soddisfazione e utilita'
a bambini e giovani di entrambi i sessi, altrimenti, continuamente
rivendicata dalle donne puo' diventare astratta litania fino a sfociare nel
fondamentalismo della innata positivita' del genere femminile.
Non avendo carichi o incarichi pubblici, cioe' di rappresentanza e
rappresentazione del rapporto tra bisogni condizioni istanze leggi progetti
e diritti in ordine a quel bene pubblico che costruisce e giustifica la
politica, non posso spendere il mio tempo per stendere e presentare un
concreto progetto che esemplifichi la praticabilita' sociale di quanto ho
sinteticamente affermato.
Continuo a considerare una conquista democratica l'indennita' di "servizio"
riconosciuta a parlamentari e governanti perche' non abbiano quelle
occupazioni e preoccupazioni economiche che impediscono spesso perfino di
pensare, anche se oggi mi sembra che l'indennita' sia cosi' cospicua e
articolata da assomigliare piu' al privilegio economico e sociale
dell'antico regime che alla modernita' di un sogno democratico purtroppo
ancora in fieri e questo certo riguarda direttamente anche i meccanismi di
selezione del ceto politico. Comunque a loro spetta il compito di tradurre
in concretezza cio' che oggi e' collettivamente indispensabile ed e' loro
quindi la responsabilita' anche delle "non scelte" e non solo quando sono
guidate da convinzioni profonde, ma soprattutto quando sono frutto di
opportunismo, calcolo meschino, piccineria fino all'ignoranza e
all'incompetenza difese con arroganza.
Scrivo come privata cittadina, a nessun titolo quindi, ne' accademico ne'
altro, solo perche' richiesta a ragione della mia storia, accetto la
responsabilita' di espormi con qualche parola che mi auguro sia
sufficientemente sobria da non occupare lo spazio delle mail quotidiane con
inutili ridondanze.
*
Penso che la nonviolenza, per uscire dalle definizioni un po' manualistiche
(2) di pratiche nobili ma generiche, andrebbe ripensata a partire dagli
individui umani concreti e quindi donne e uomini, adulti e anziani, bambini
e bambine, ragazzi e ragazze di varia eta' provenienza estrazione sociale e
storia famigliare, per poter esprimere appieno quell'efficacia sociale che
determina il circolo virtuoso dei comportamenti che legano le vite
individuali al destino comune e possono consentire di cambiare il mondo in
un habitat piu' favorevole a tutti e tutte.
Le attuali articolazioni intorno alla nonviolenza hanno molto a che fare con
la storia del genere maschile e come donna mi sento, giustamente, a posto
con la coscienza perche' sono per lo piu' pratiche che mi sono totalmente
estranee, delle quali non so nemmeno se saprei appropriarmene in momenti
eccezionali, perche' anche i gesti hanno bisogno di qualche rodaggio e
spesso si possono usare piu' utilmente quelli gia' appresi, come hanno
ampiamente dimostrato molte donne durante le guerre (3).
Non e' mio compito indicare agli uomini le strade da percorrere per
confrontarsi con la propria storia, ma certo che lo facciano e' urgente per
tutti e, come si dice ai bambini (non sempre correttamente) "e' per il
vostro bene". Per aiutare tale scelta sarebbe certo utilissima una
riequilibrata rappresentanza dei generi nelle istituzioni politiche e via
via, per la regola civile di non sopraffazione tra i sessi, in tutte le
istituzioni pubbliche e le professioni e i mestieri. Non e' utopia perche'
se e' possibile immaginare oltre e' possibile anche realizzare e, tanto per
stare in tema, con la violenza siamo gia' andati molto oltre l'immaginabile.
Come donna mi interessa uscire da una definizione di genere che mi inchiodi
ad una storia o ad una tipologia ma sento che per imparare/inventare
pratiche nonviolente non posso sfuggire al confronto con la storia del
genere in cui sono stata collocata alla nascita e in cui sono cresciuta.
Devo misurarmi con omerta', omissione, sottomissione, ignavia, opportunismo,
silenzio, dissimulazione, adattamento, manipolazione, insomma tutti i
comportamenti che favoriscono la costruzione di una complicita' muta e
radicata, in forme simili ma per ognuna diverse, in modo capillare, nella
scansione delle ore quotidiane, nelle abitudini minute, nelle strutture
relazionali delle famiglie e dintorni.
La violenza, in qualunque forma, ha bisogno di un palcoscenico in cui
manifestarsi, con comparse che si muovono in sintonia con le scenografie, lo
sfondo, e spettatori seduti al proprio posto, persone con ruoli diversi che
consentono e condividono il significato dell'azione principale, perfino nel
rito dell'esecrazione.
In questi ruoli di comparse e spettatori il confine tra donne e uomini
conosce anche zone incerte e mescolanze, ma ad uno sguardo d'insieme e'
certamente delle donne il compito di ripulire, riassettare, preparare pranzo
e cena agli astanti, soffiare il naso ai bambini, inamidare le camicie,
riassettare e ripulire la scena per restituirla ogni giorno e ovunque pronta
all'uso.
Non a caso i sistemi politici oppressivi o le associazioni delinquenziali
non stanno in piedi se le donne escono dalla complicita' e assumono la
responsabilita' della parola e dell'agire.
Non e' facile cambiare perche' sono comportamenti impastati con le mille
strategie di sopravvivenza fisica e psichica a cui siamo costrette a
ricorrere proprio per l'impossibilita' di accedere alla gestione diretta dei
beni e delle risorse, ma non per questo oggi, nella condizione di cittadine,
siamo meno responsabili.
*
Occorre pensare la nonviolenza in analogia con quella manualita' fine che
occorreva un tempo per mondare il riso, togliere il filo ai fagiolini,
insomma pratiche che richiedono di aguzzare la vista, affinare le parole,
misurare i passi, verificare ogni sera e non allo scadere della finanziaria,
impegnarsi nella solitudine della quotidianita' perche' la rappresentazione
collettiva diventi piu' condivisione di una festa che rito di protesta,
celebrazione della conquista di cio' che siamo come piattaforma che sostiene
cio' che vogliamo, cosi' come abbiamo felicemente intuito e appena
sperimentato in molte manifestazioni femministe degli anni '70.
Sono passata consapevolmente dal singolare al plurale e non solo per la
felice abitudine linguistica appresa nel movimento delle donne che e' stato
la culla della mia vita, dopo quella preparata da mia madre, ma perche' so
che c'e' per tutte se non l'esperienza, almeno la memoria di molti aspetti
di una condizione comune e perche' mi piacerebbe che questo "noi" si
traducesse in una rivolta consapevole, pacifica, ironica e determinante come
quella di Lisistrata.
Non quell'autointerdizione, singolarmente un po' triste, al fare bambini,
che e' oggi una responsabilita' individuale interamente sulle spalle e sulla
pelle delle giovani donne, del cosiddetto mondo sviluppato, che si misurano
con la riduzione delle opportunita' e la mortificazione della propria
soggettivita' (per dirla in modo elusivo), ma una solidale consapevolezza
che impegnando ognuna nel protagonismo della propria vita non intacca le
basi della sopravvivenza, ma riesce a destrutturare i pilastri del potere
che sono solidi solo finche' noi continuiamo a pensarli tali.
*
Non mi appassiona il moderatismo delle idee che non ha niente da spartire
con la cautela del fare, l'attenzione alle diversita', l'ascolto e il
dialogo, il rispetto di storie, condizioni, sensibilita'; non amo il
linguaggio opaco di molta parte del ceto politico, e purtroppo soprattutto
di quello che ha maggior spazio e potere nei media, che confonde scenari e
mete con i passi concreti in cui si misura la fatica di camminare come se
fossimo regrediti a un tempo che ignora l'invenzione delle mappe,
spiegandoci che il massimo raggiungibile e' il cammino che si misura, senza
l'aiuto di una bussola, tra il sorgere e il calare del sole.
In questo moderatismo un po' astratto un po' "buonista" (e scusate il
pessimo neologismo) cadiamo talvolta, con le migliori intenzioni, anche noi
donne, o almeno questo sembra a me, conficcata nei miei giorni piccini in
una periferia ammutolita nell'incantesimo di un'arcaica modernita' (4).
L'urgenza dell'introduzione di una clausola di non sopraffazione tra i
sessi, che non e' traducibile nemmeno lontanamente con le quote, ed e'
efficacemente sintetizzata nello slogan del 50&50 in parlamento e nelle
assemblee elettive, si motiva e si sostiene proprio con la scelta
nonviolenta.
Aver parlato di quote in un tempo in cui eravamo ancora visibili come
innovativo soggetto politico che avviava importanti riflessioni sul senso
della politica, dalla revisione dei suoi fondamenti discriminatori nei
confronti delle donne, alle questioni della rappresentanza e della
cittadinanza, e' stato un errore politico proprio perche' ha posto come
obiettivo moderato cio' che poteva essere frutto di contrattazione,
confondendo l'orizzonte con i passi per arrivarci.
Non ce ne siamo rese conto allora? Solo alcune, con scarsa o nessuna
possibilita' di essere ascoltate. Ero allora, secondo la definizione che
altre hanno dato di me, una giovane promettente dirigente dell'Udi, ma non
avevo "la storia giusta" per dare visibilita' e contrattualita' sociale ad
un'intuizione che i fatti hanno poi realizzato.
E certo non e' stata d'aiuto alla riflessione politica l'esaltazione di
un'astratta liberta' femminile, data in natura anche alle donne secondo la
lezione del cogito di cartesiana memoria, proclamata da tutta quella parte
di movimento che esprimeva anche un'intellighenzia femminile accademica e
quindi presa in considerazione, e ammirazione, da parte del risicato ceto
politico femminile selezionato prevalentemente al ribasso ormai anche dai
partiti della sinistra storica.
Da liberazione a liberta', dalla concretezza delle vite all'astrattezza
delle filosofie, abbiamo dovuto misurare ben presto la nostra arroganza
bianca e occidentale non solo con le dure istanze delle donne di altri
colori e altri continenti, ma anche con le precarieta' di varia natura,
quella del lavoro e' solo la piu' eclatante, di figlie e figli di cui
abbiamo la responsabilita' anche se non li abbiamo direttamente partoriti.
*
Mi espongo parlando di errore perche' ritengo che l'importanza di questo
dibattito richieda uno sforzo di autenticita' e il giudizio politico e'
quella parte di me che si confronta con l'altra proprio perche' non ne vuole
la cancellazione e nemmeno la sconfitta, ma intende definire un terreno
d'incontro in cui sia possibile se non camminare almeno sostare in un
bivacco insieme.
La clausola di non sopraffazione tra i sessi e' resa necessaria proprio
dalla rinuncia alla violenza, sia quella tradizionalmente definita e
praticata, in maggioranza dall'universo maschile, sia nell'accezione piu'
sottile e ancora sommersa che esprime la complicita' di molta parte
dell'universo femminile, e rappresenta il primo passaggio per cominciare a
misurarsi con le pratiche nonviolente e costruire le condizioni perche'
possano liberamente espandersi e arricchirsi quelle che ognuno inventa e
sceglie per la propria vita.
La cancellazione delle donne, anche attraverso la selezione e la distorsione
della visibilita', seguita alla sconfitta politica del quel soggetto che
dalle ragazze della Resistenza e le madri della Costituzione arriva fino al
il femminismo degli anni '70, segnando alcune delle piu' importanti tappe di
realizzazione della Costituzione stessa, e' stato certamente uno dei fattori
determinanti per l'imbarbarimento della politica e l'arretramento della
societa'.
*
L'urgenza del riequilibrio della rappresentanza non puo' pero' fermarsi ad
una regola o uno slogan.
Sappiamo che non basta essere donne e la scuola ce lo dimostra con la
persistenza di modelli e saperi trasmessi con una fedelta' che anni fa, non
a torto, ha motivato l'accusa alle insegnanti di essere le vestali della
classe media.
Ho scelto di fare l'insegnante perche' pensavo che la scuola poteva essere
un luogo di esercizio della cittadinanza nella feconda relazione con giovani
generazioni.
La scuola non ha cambiato me (e nel tempo ho escogitato e praticato tutte le
forme di resistenza nonviolenta all'ottusita', alla prevaricazione, alla
mortificazione di allieve e allievi) ma io non ho cambiato la scuola che e'
rapidamente peggiorata con l'introduzione di logiche aziendali obsolete
ormai perfino nei luoghi della produzione dove sono nate.
La scuola e' il luogo che piu' di ogni altro ci cattura nella complicita',
spesso involontaria, richiamandoci alla tutela della sopravvivenza
quotidiana che disperde in mille gesti e parole e fatiche di cura la
possibilita' di fermarsi e scegliere consapevolmente.
Se da un lato la scuola sta in piedi grazie alle donne non e' detto che
abbia davvero un senso l'azione di babysitteraggio sociale, misconosciuto
sul piano economico come su quello dell'immagine sociale, ed e' davvero
miserabile l'immagine collettiva della mia generazione, oggi la piu' vecchia
presente nella scuola per il silenzio complice sulla trafila di pratiche
umilianti alle quali vengono costretti giovani colleghi e colleghe che per
necessita', avventura o passione vogliono ancora cimentarsi con questa
nobile professione.
Per questo so che e' indispensabile ma non basta il riequilibrio della
rappresentanza se non cominciamo a discutere dei meccanismi di formazione
della rappresentanza stessa.
La rappresentazione pubblica della differenza di genere puo' aprire alla
rappresentazione di tutte le differenze, di generazione come di salute
fisica e perche' no, in attesa di piu' complesse e sofisticate definizioni
sociali e visto che siamo comunque ai primordi, non mi dispiacerebbe
ricominciare a pensare anche in termini di classe.
Ma questo apre altri capitoli e ho gia' abusato della pazienza di chi vuole
leggere fino alla fine.
*
Note
1. Cosiddetto perche' spesso i gesti del "privato" consentono e promuovono
cittadinanza, mentre sono vigenti e tollerate nel "pubblico" logiche di
trasmissione famigliare di opportunita', patrimoni e altro che sono in
contraddizione con l'universalismo dello Stato liberale prima che contrarie
alla democrazia.
2. Non ho niente contro i manuali purche' si affianchino e non sostituiscano
opere, esperienze, persone come spesso accade nella scuola.
3. In Italia abbiamo testimonianza di questo nella Resistenza al
nazifascismo, cfr. lo straordinario lavoro di ricerca di Anna Bravo e,
purtroppo, poche altre, spesso piu' sconosciute di quanto meritino.
4. Sinteticamente: grande benessere e dissipazione, crescenti ricchezze,
ignoranza e alienazione di senso. Insomma il "profondo nord", la malattia di
una "questione settentrionale" ostinatamente e ottusamente ignorata.

2. RIFLESSIONE. ELENA PULCINI: LA VIOLENZA SENZA EMOZIONI. DONNE E
NONVIOLENZA
[Ringraziamo Elena Pulcini (per contatti: e_pulcini at philos.unifi.it) per
questo intervento.
Elena Pulcini e' professore ordinario di Filosofia sociale presso il
Dipartimento di filosofia dell'Universita' di Firenze; al centro dei suoi
interessi e' il tema delle passioni nell'ambito di una teoria della
modernita' e dell'individualismo moderno, con un'attenzione anche al
problema della soggettivita' femminile; acuta saggista, da anni riflette su
decisivi temi morali e politici in dialogo con le esperienze piu' vive del
pensiero delle donne, dei movimenti solleciti del bene comune per l'umanita'
e la biosfera, e della ricerca filosofica, e specificamente assiologica,
epistemologica e politica contemporanea; fa parte della redazione della
rivista "Iride" (Il Mulino) e del Comitato scientifico della rivista "La
societa' degli individui" (Angeli); fa parte, per l'Universita' di Firenze,
del progetto europeo "Athena" (European Thematic Network Project for Women's
Studies Athena) diretto da Rosi Braidotti (Universita' di Utrecht); fa parte
della Giunta direttiva della Societa' Italiana di Filosofia Politica (Sifp).
Fa parte del gruppo fondatore del "Collegio Italiano di Filosofia Sociale
Alfredo Salsano" diretto da Giacomo Marramao; ha curato opere di Rousseau e
Bataille. Tra le opere di Elena Pulcini: La famiglia al crepuscolo, Editori
Riuniti, Roma 1987; (a cura di), Teorie delle passioni, Kluwer, Dordrecht,
Bologna 1989; Amour-passion e amore coniugale. Rousseau e l'origine di un
conflitto moderno, Marsilio, Venezia 1990 (trad. francese c/o
Champion-Slatkine, Parigi 1998); (a cura di, con P. Messeri), Immagini
dell'impensabile. Ricerche interdisciplinari sulla guerra nucleare,
Marietti, Genova 1991; L'individuo senza passioni. Individualismo moderno e
perdita del legame sociale, Bollati Boringhieri, Torino 2001 (traduzione
tedesca presso l'editore Diaphanes, Berlino 2004; ristampa 2005); (a cura
di, con Dimitri D'Andrea), Filosofie della globalizzazione, Ets, Pisa 2001,
2003; Il potere di unire, Bollati Boringhieri, Torino 2003; con Mariapaola
Fimiani, Vanna Gessa Kurotschka (a cura di), Umano, post-umano, Editori
Riuniti, Roma 2004]

Devo subito premettere che il tema su cui mi si chiede di proporre qualche
riflessione - donne e nonviolenza - mi coinvolge "visceralmente", per usare
un termine caro a Maria Zambrano.
La violenza infatti prolifera a livello planetario assumendo infinite forme,
essa e' forse l'evento piu' sconcertante del nostro tempo recente che non ci
consente di affidarci ad una illuministica e compiaciuta fiducia negli
effetti pacifici della modernita' e del progresso.
Riemergono passioni arcaiche, quale faccia oscura e inquietante di una
crescente a-patia. L'eta' globale sembra caratterizzata da questa forbice
tra, da un lato, un'assenza di pathos alimentata dal consumismo e
dall'omologazione, dalla disaffezione alla sfera pubblica e
dall'individualismo senza limiti; e dall'altro un eccesso di pathos, che
spesso assume le forme assolutistiche della pretesa identitaria e di
comunita' chiuse e regressive.
Conflitti identitari e guerre senza fine, scontri etnico-religiosi e
atrocita' di ogni genere, riemergere della paura come cio' che piu' o meno
sotterraneamente corrode la vita quotidiana, nuove forme di de-umanizzazione
dell'altro e "invenzione" del nemico, sono fenomeni che ci pongono di fronte
a sfide inedite cogliendoci di sorpresa, e che affrontiamo malamente con gli
strumenti tradizionali della ragionevolezza.
C'e' inoltre il diffondersi e l'amplificarsi della micro-violenza
quotidiana: aggressioni e stupri, molestie sessuali su donne e bambini,
mobbing e ricatti in ambito lavorativo,  bullismo adolescenziale e delitti
perpetrati "per futili motivi"...
Sembra di assistere a quello che freudianamente possiamo definire il
"ritorno del rimosso", che del rimosso appunto possiede la potenza e
l'incontrollabilita'.
Qual e' allora il ruolo delle donne in questo scenario?
*
Le donne, lo sappiamo, sono sempre state associate alla pace, alle passioni
empatiche e relazionali, alla solidarieta' e alla cura.
Le diverse tradizioni del femminismo hanno per lo piu' confermato questa
identificazione. Sia che ci si appelli al materno e all'ontologia della
dualita', sia che si proponga l'idea di un soggetto in relazione,
alternativo al soggetto monologico occidentale e moderno, sia che si
assumano come portatrici di un'etica della cura che le vede attente
all'altro e al contesto, le donne sono sempre state rappresentate come
estranee alla violenza, che sembra caratterizzarsi come essenzialmente
maschile.
Valorizzare l'eredita' simbolica della relazione significa poter pensare
un'idea di soggettivita' diversa da quella, egemone, del soggetto
occidentale  moderno, responsabile delle derive individualistiche  e delle
patologie che affliggono le nostre societa' democratiche, segnate
dall'atomismo e dall'indifferenza, dal conflitto e da un preoccupante
deficit di solidarieta'.
La violenza in altri termini si connota come l'effetto inevitabile del
soggetto acquisitivo e predatorio, strumentale e conflittuale, animato dalla
passione del potere e dalla brama di dominio che, soprattutto a partire
dalla modernita', ha coinciso con il soggetto maschile e patriarcale.
Le donne sono sempre state semmai quelle che subiscono la violenza: sia essa
aggressiva o silenziosa, palese o sotterranea. Oggetti di esclusione o di
aggressione, di svalutazione o di dominio, le donne, dagli spazi segreti e
nascosti della sfera intima fino a quelli piu' visibili della sfera
pubblica, sono vittime di una duplice forma di violenza: quella che si
esercita sui corpi (maltrattamenti, molestie, stupri) e quella che si
esercita sulle emozioni (sempre per lo piu' controllate e guidate da un
potere maschile geloso della propria egemonia).
Le conquiste innegabili ottenute negli ultimi decenni non bastano a smentire
questa realta', la quale si ripresenta invece ciclicamente a testimonianza
di una sua permanente latenza, pronta a manifestarsi di nuovo, e
paradossalmente, nei momenti in cui le donne sembrano aver raggiunto
traguardi di liberta' e di dignita'.
*
Come ho gia' avuto modo di sottolineare altrove, le conquiste femminili
sembrano possedere la desolante caratteristica di non poter mai essere,
neppure nel nostro Occidente compiaciuto dei propri fondamenti progressisti
e delle proprie premesse libertarie, considerate definitive, ne' di poter
riposare su traguardi acquisiti. Non solo perche' si profilano sempre, sul
piano politico e legislativo, minacciose inversioni di rotta e sconcertanti
ritorni indietro, ma anche perche' lo stesso tessuto culturale ci pone
quotidianamente di fronte a piccole e grandi violenze, soprusi o semplici
indifferenze che testimoniano del permanere, piu' o meno sotterraneo, di
pratiche di aggressione e di misconoscimento.
Basti pensare, solo per restare all'Italia, al moltiplicarsi di episodi di
violenza (gli stupri a Milano l'estate scorsa, la violenza sessuale a Roma e
Napoli, delitti d'amore e di gelosia, molestie e violenza in ambito
domestico) che, a dispetto delle conquiste giuridiche, riesplodono per ogni
dove, spesso nell'indifferenza generale.
Si tratta inoltre di episodi che non e' certo possibile scaricare sulla
presenza "contaminante" di soggetti e culture altre, ancora dichiaratamente
fondate su un atavico potere patriarcale. Nonostante il rumore fatto
l'estate scorsa dai mass media sul caso di Hina (uccisa da padre e fratelli
in quanto trasgressiva della legge islamica), quale evento simbolico di una
"arretratezza" e di una ferocia arcaica da cui l'occidente illuminato
sarebbe immune; e malgrado il dilagare del dibattito sulla questione del
"velo", dibattito spesso subdolamente connivente con il pericoloso mito
dello "scontro di civilta'", non e' possibile ignorare i tanti episodi di
violenza autenticamente nostrana che infestano le nostre citta'
consegnandole, soprattutto per quanto riguarda la popolazione femminile,
alla paura e all'insicurezza che spesso pervadono le stesse mura domestiche.
Sappiamo infatti che la prima causa di morte e di invalidita' permanente per
le donne europee tra i 16 e i 44 anni e' la violenza dei mariti, dei
compagni, dei padri; che il 90% di stupri, maltrattamenti, violenze fisiche
e psicologiche degli uomini sulle donne avviene in casa; che ogni 4 minuti
in Italia, e ogni 90 secondi negli Stati Uniti una donna viene stuprata.
Insomma violenze e delitti di ogni sorta, a cui va tristemente ad
aggiungersi la lista recentissima e quantomai inquietante della violenza fra
gli adolescenti, in cui quasi sempre la vittima e' una giovane teen-ager che
diventa malauguratamente ostaggio di piccoli bulli in cerca di una distorta
identita'.
Si assiste inoltre al permanere di un altro tipo di violenza, meno eclatante
e piu' indiretta, ma non per questo meno efficace, che e' quella della
mercificazione e spettacolarizzazione dell'immagine e del corpo femminile
che continua indisturbata ad imporsi, veicolata attraverso schermi di ogni
tipo (la tv, il cinema, internet);  violenza tutt'altro che nuova, bensi'
coeva a quella "societa' dello spettacolo" che da tempo erode ogni contenuto
e valore, ma che attinge oggi nuovo vigore dall'imperversare di una logica
competitiva selvaggia, alimentata dal modello delle "sfide" televisive e del
"saranno famosi", spingendo le donne, soprattutto le piu' giovani, ad
inseguire il sogno postmoderno di almeno un frammento di visibilita'.
Da sponde apparentemente opposte, queste due forme di violenza finiscono di
fatto per convergere nel riconfermare, ancora una volta, quel pernicioso e
secolare pregiudizio che consiste nella identificazione delle donne con il
corpo, con il loro corpo; il quale, velato o scoperto, ammirato o violato,
assoggettato o trasgressivo, continua ad essere, sempre e comunque, il
fondamento granitico su cui, attraverso le culture, viene costruita
l'identita' femminile.
*
Le donne dunque, da sempre oggetto di violenza, sono anche coloro che hanno
imparato a costruire forme di resistenza e a proporre modelli, e soprattutto
pratiche, alternativi: modelli e pratiche fondate su una diversa relazione
con l'altro e sui valori dell'attenzione e della cura, a partire,
prioritariamente, dal riconoscimento della ontologica dipendenza del
soggetto e della figura dell'altro come cio' che intimamente ci costituisce.
Eppure assistiamo oggi ad un evento nuovo che vede le donne stesse artefici
di violenza: madri assassine e sfruttatrici dei propri figli, donne che
immolandosi compiono stragi di innocenti ed inermi, donne aguzzine e
torturatrici.
La tentazione, di fronte a quest'orrore, e' quella di non vedere, di
rimuovere, di ricondurre ogni caso al parametro dell'eccezionalita'. Ma la
rimozione, lo dicevo sopra, non e' mai una buona scelta. Meglio, invece,
cercare un senso a tutto questo. E cercare un senso significa, a mio avviso,
in primo luogo distinguere tra le diverse epifanie della violenza al
femminile.
Se e' vero infatti che l'immagine della madre assassina e' uno dei piu'
potenti tabu' che non riusciamo a metabolizzare nelle nostre coscienze, e'
vero anche che spesso dietro quest'immagine si cela un vissuto di
sofferenza, di umiliazione e di ferite che riesce ad assumere solo le forme
distorte del sacrificio di cio' che e' (dovrebbe essere) quanto di piu'
caro.
Forse qui il ricorso al mito ci puo' aiutare: quando Medea compie il piu'
atroce degli atti uccidendo i propri figli, lo fa perche' si ribella alla
scelta di Giasone di sposare Creusa, figlia di Creonte: una scelta (quella
di Giasone) che e' dettata non dall'amore ma dalla brama di potere, e che
tradisce la sacralita' della relazione d'amore. Medea punisce Giasone non
per l'abbandono, ma per il tradimento della relazione, che equivale a negare
lei stessa come soggetto d'amore, come soggetto di passione.
Si tratta allora di scoprire un senso anche laddove si viene piu' acutamente
invasi dall'orrore, come tuttora accade, e sempre piu' frequentemente, di
fronte alle cronache giornalistiche di madri assassine, che ci confermano la
triste attualita' della figura di Medea. Piu' bisognosa di pietas che di
condanna, Medea ci costringe a superare la ripulsa di fronte al piu' potente
dei tabu', rivelando alla nostra coscienza contemporanea gli esiti
fatalmente nefasti di quella che per le donne e' la fonte piu' atroce della
sofferenza: il tradimento della relazione.
Si tratta dunque di una violenza che ha ancora una fonte emotiva, che trova
origine in un, sia pur distorto e distruttivo, pathos. Potremmo dire lo
stesso di quelle donne-bomba che, fuori dall'Occidente, si sacrificano
immolandosi e trascinano con se' nel proprio destino vittime innocenti.
Anche qui c'e' a monte una ferita, una condizione umiliante e intollerabile
che trova un atroce sollievo in un atto disperato di condivisione del sangue
e della morte.
*
Il problema si fa invece piu' grave laddove ci troviamo in presenza di una
forma inedita di violenza: quella che vorrei definire la violenza senza
emozioni, di cui un caso emblematico e' quello delle donne aguzzine e
torturatrici.
Pensiamo alle immagini di Abu Graib... La soldatessa americana che poggia il
piede su un mucchio di corpi iracheni torturati e che si fa fotografare
sorridendo, e' un'immagine ancora piu' inquietante del nazista che spinge
grappoli di ebrei nella camera a gas. Perche' nel primo caso c'e' appunto,
piu' che l'odio per il nemico ideologicamente legittimato, una sorta di
autocompiacimento indifferente che consente di spettacolarizzare la
sofferenza e la morte, svuotandole di ogni tipo di partecipazione emotiva.
Il processo di de-umanizzazione in cui la riduzione dell'altro ad una
non-persona si compie attraverso l'umiliazione e la mortificazione del corpo
non e' qualcosa di nuovo. Si tratta di un fenomeno che gia' conosciamo,
basti, appunto, pensare ad Auschwitz e alle immagini desolanti di corpi
scheletrici ammucchiati in ammassi anonimi ed informi.
Ma qui c'e' qualcosa di piu', qualcosa che ci impietrisce perche' non
riusciamo a intravvederne il senso, neppure un senso distruttivo e
terribile: qualcosa che vorrei chiamare una anestesia delle emozioni. Qui
noi avvertiamo oscuramente il pericolo di essere inghiottiti dall'assenza di
ragioni e di passioni, da un meccanismo anestetico che appiattisce ogni
esperienza, anche la piu' estrema, in una indifferenziazione senza pathos e
senza dramma, per la quale non disponiamo neppure di figure mitiche che in
qualche modo ci aiutino a trovare un senso.
E' questa la violenza - certo non solo femminile, ma che e' oggi arrivata a
contaminare anche le donne - che piu' di ogni altra dobbiamo temere, perche'
la perdita di contatto con le proprie emozioni e' il piu' orribile spettro
da esorcizzare e da affrontare.
*
Quali risorse abbiamo, e in particolare, quali risorse hanno le donne per
contrastare questa angosciante deriva?
Forse e' proprio quella prossimita' alle emozioni che le donne hanno potuto
e saputo conservare grazie, paradossalmente, alla loro marginalita' ed
esclusione; ma che sembra oggi richiedere un impegno ulteriore, una
rinnovata e tenace capacita' di custodire, contro la deriva
dell'indifferenza, un bene prezioso, un dono da non sperperare.
Bisogna preservare e alimentare l'Antigone che abita dentro ognuna di noi,
rafforzarne la potenza per riattivare, sempre ed ovunque, la forza
dirompente della sua pietas e la sua capacita' di commuoversi.
La pietas di Antigone e' testimonianza simbolica della capacita' di
identificarsi con l'altro a partire dalla condivisione della sofferenza,
della debolezza e della fragilita' dell'altro che diventa specchio della
nostra stessa sofferenza, debolezza, fragilita'. E' dunque attenzione alla
singolarita' dell'altro, e proprio in questo senso essa puo' costituire un
efficace antidoto alla violenza senza emozioni, la quale al contrario e'
diniego della singolarita' dell'altro, aggressione dettata
dall'indifferenziazione, oltraggio verso qualcuno che e' stato
preventivamente spogliato del nome e del volto.
Dobbiamo pero' fare un passo ulteriore: perche' non si deve dimenticare che
Antigone si commuove per qualcuno che ama, che le e' familiare, a cui la
lega addirittura un legame di sangue. Noi oggi non possiamo piu' limitarci
ad una pietas verso l'oggetto d'amore, verso l'altro vicino ed amato, ma
siamo chiamati(e) ad una commozione che investe  anche l'altro remoto,
l'altro sconosciuto che tuttavia, con la pura e scarna potenza del suo
"volto", direbbe Levinas, ci chiama a rispondere della sua sofferenza e ci
chiede di rompere la spirale della violenza.

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LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 110 del 6 maggio 2007

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