La nonviolenza e' in cammino. 892



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 892 del 7 aprile 2005

Sommario di questo numero:
1. "Azione nonviolenta" di aprile
2. Anna Bravo: Donne, guerra, memoria (parte prima)
3. Nicola Calipari, un eroe della nonviolenza
4. Fernanda Pivano ricorda Robert Creeley
5. Luisa Muraro: Fermarsi a parlare
6. La "Carta" del Movimento Nonviolento
7. Per saperne di piu'

1. RIVISTE. "AZIONE NONVIOLENTA" DI APRILE
[Dalla redazione di "Azione nonviolenta" (per contatti: an at nonviolenti.org)
riceviamo e diffondiamo]

E' uscito il numero di aprile 2005 di "Azione nonviolenta", rivista del
Movimento Nonviolento, fondata da Aldo Capitini nel 1964; mensile di
formazione, informazione e dibattito sulle tematiche della nonviolenza in
Italia e nel mondo.
In copertina: Cecenia e Israele-Palestina.
In questo numero: Cecenia, una guerra ignorata anche dal movimento pacifista
(di Paolo Bergamaschi); Il muro di silenzio e' il peggior nemico della
Cecenia (nostra intervista a Seilam Bechaev); La storia dell'orso russo e
della pulce cecena (a cura di Elena Buccoliero); La soluzione finale: i
campi di filtraggio con tecniche naziste (a cura di Elena Buccoliero); Sul
filo della memoria. Colloqui con Norberto Bobbio (di Laura Operti); Le dieci
caratteristiche della personalita' nonviolenta: l'empatia (di Luciano
Capitini).
Inserto speciale: un volantone e cartoline da spedire: Campagna europea "La
violenza non e' una soluzione", Isreaele-Palestina: per una forza
internazionale di intervento civile.
Le rubriche: Educazione: I conflitti nella relazione educativa (Pasquale
Pugliese); Lilliput: La passata di pomodoro mette in rete produttori e
consumatori (Dario Pedrotti); Economia: Gli angeli nonviolenti vegliano
sulla citta' (Paolo Macina); Per esempio: La resistenza nonviolenta salva le
foreste (Maria G. Di Rienzo); Cinema: Testimoniare, resistere perche'
l'orrore non si ripeta (Franca Conato); Musica: Immagina che tutti vivano la
vita in pace (Mao Valpiana); Libri: Narrare la storia del nemico per far
fiorire la vita (Sergio Albesano); Campi estivi 2005.
In ultima: Materiale disponibile
Redazione, direzione, amministrazione: via Spagna 8, 37123 Verona, tel.
0458009803 (da lunedi' a venerdi': ore 9-13 e 15-19), fax: 0458009212; sito:
www.nonviolenti.org
Per abbonarsi ad "Azione nonviolenta" inviare 29 euro sul ccp n. 10250363
intestato ad "Azione nonviolenta", via Spagna 8, 37123 Verona. E' possibile
chiedere una copia omaggio, inviando una mail a: an at nonviolenti.org
scrivendo nell'oggetto "copia di 'Azione nonviolenta'".

2. MATERIALI. ANNA BRAVO: DONNE, GUERRA, MEMORIA (PARTE PRIMA)
[Ringraziamo di cuore Anna Bravo (per contatti: anna.bravo at iol.it) per
averci messo a disposizione il primo capitolo del suo fondamentale libro
scritto in collaborazione con Anna Maria Bruzzone, In guerra senza armi.
Storie di donne. 1940-1945, Laterza, Roma-Bari 1995, 2000.
Anna Bravo, storica e docente universitaria, vive e lavora a Torino, dove ha
insegnato Storia sociale. Si occupa di storia delle donne, di deportazione e
genocidio, resistenza armata e resistenza civile, cultura dei gruppi non
omogenei, storia orale; su questi temi ha anche partecipato a convegni
nazionali e internazioneli. Ha fatto parte del comitato scientifico che ha
diretto la raccolta delle storie di vita promossa dall'Aned (Associazione
nazionale ex-deportati) del Piemonte; fa parte della Societa' italiana delle
storiche, e dei comitati scientifici dell'Istituto storico della Resistenza
in Piemonte, della Fondazione Alexander Langer e di altre istituzioni
culturali. Opere di Anna Bravo:  (con Daniele Jalla), La vita offesa,
Angeli, Milano 1986; Donne e uomini nelle guerre mondiali, Laterza,
Roma-Bari 1991; (con Daniele Jalla), Una misura onesta. Gli scritti di
memoria della deportazione dall'Italia,  Angeli, Milano 1994; (con Anna
Maria Bruzzone), In guerra senza armi. Storie di donne 1940-1945, Laterza,
Roma-Bari 1995, 2000; (con Lucetta Scaraffia), Donne del novecento, Liberal
Libri, 1999; (con Anna Foa e Lucetta Scaraffia), I fili della memoria.
Uomini e donne nella storia, Laterza, Roma-Bari 2000; (con Margherita
Pelaja, Alessandra Pescarolo, Lucetta Scaraffia), Storia sociale delle donne
nell'Italia contemporanea, Laterza, Roma-Bari 2001; Il fotoromanzo, Il
Mulino, Bologna 2003.
Anna Maria Bruzzone e' nata a Mondovi' e vive a Torino, dove insegna;
storica, impegnata per la pace e la dignita' umana. Opere di Anna Maria
Bruzzone: (con Rachele Farina), La Resistenza taciuta, La Pietra, Milano
1976, poi Bollati Boringhieri, Torino 2003; (con Lidia Beccaria Rolfi), Le
donne di Ravensbrueck, Einaudi, Torino 1978; Ci chiamavano matti, Einaudi,
Torino 1979; (con Anna Bravo), In guerra senza armi. Storie di donne
1940-1945 , Laterza, Roma-Bari 1995, 2000]

1. Vecchio e nuovo nelle guerre
Negli ultimi decenni, un numero sempre maggiore di paesi ha aperto le forze
armate alle donne; e' forse il simbolo piu' vistoso della crisi che ha
investito nel mondo occidentale il sistema di divisione dei ruoli secondo il
genere sessuale. Ma quando, nel gennaio '91, una delle trentamila donne
soldato impegnate nella guerra del Golfo viene catturata dagli iracheni,
stampa e televisioni reagiscono in tutto il mondo con emozione e stupore.
Quella prigionia inquieta, evoca sofferenze e pericoli aggiuntivi, in primo
luogo quello dello stupro, fantasma perenne dell'immaginario maschile ma
anche eventualita' concreta, come la gravidanza che potrebbe derivarne.
Nonostante il grande rilievo dato dai media alla presenza femminile nel
Golfo, sembra che solo in quel momento si scopra che ha implicazioni
intollerabili: un carcere nemico non e' posto per una donna. Eppure cadere
prigionieri e' una delle conseguenze piu' ovvie del fare la guerra, ed e'
gia' successo a molte - basta pensare alle deportate politiche e alle
combattenti dei movimenti di liberazione antinazisti.
L'allarme di fronte alla prigionia di una giovane donna assomiglia per certi
aspetti alla reazione con cui durante le due guerre mondiali si guarda ai
nuovi lavori femminili. E' il fenomeno cui si richiamano prioritariamente le
tesi che vedono nelle guerre un potente acceleratore della modernizzazione;
e con buoni argomenti.
Nella prima, le donne entrano a milioni in settori prima loro preclusi,
innanzi tutto nell'industria bellica, a milioni afferrano le opportunita'
inedite proposte dall'amministrazione pubblica, dai servizi, dalle stesse
forze armate, lavorando sia sul territorio metropolitano con compiti di
assistenza e sussistenza, sia al fronte come infermiere, guidatrici di
ambulanze, ausiliarie militari.
E' una rottura drastica e repentina della divisione sessuale del lavoro che
con modalita' diverse riguarda tutti i paesi belligeranti e porta non solo
gruppi, ma masse di donne fuori da ruoli e settori classificati come
femminili, rendendole per la prima volta visibili con questa ampiezza in un
ambito non domestico. Meraviglia e preoccupazione sono forti, specialmente
in realta' come quella italiana, dove la tradizione culturale e religiosa
vede nel lavoro fuori casa una minaccia alla purezza femminile e
all'integrita' del nucleo familiare.
Insieme alla mancanza di precedenti, ad acuire l'inquietudine e' la crisi
complessiva che si innesca con la prima guerra, il crollo di un intero
mondo, dei suoi simboli, delle sue chiavi di interpretazione del reale.
Ma appunto per questo e' significativo che nella seconda si abbiano reazioni
simili: sulla stampa tornano, come fosse la prima volta, le immagini di
postine, tramviere, operaie dell'industria pesante, e tornano gli
interrogativi sulle loro capacita', i fantasmi di incidenti dovuti alla loro
inadeguatezza ai nuovi impieghi. Lo stereotipo che vuole le donne
incompatibili con gli spazi e le mansioni di volta in volta definiti
maschili si dimostra tenace.
Si reggono su questa continuita' alcuni tratti delle politiche del lavoro
che, pur in presenza di differenze radicali su altri piani, si tramandano
dalla prima alla seconda guerra: salari spesso migliori di quelli dei
settori "femminili", ma quasi sempre lontani da quelli maschili; governi e
imprese riluttanti a creare nidi, asili per la prima infanzia e camere di
allattamento per le madri, e attenti a presentarli come misure temporanee;
carattere a termine di molti nuovi lavori, cui le donne sono chiamate con
una esplicita funzione di rimpiazzo dei maschi assenti, in alcuni casi
addirittura sostitute ad personam. E' l'aspetto basilare.
Rilevarlo non equivale a minimizzare gli aspetti di rottura, ne' a sostenere
che finita l'emergenza le cose tornano uguali a se stesse. Al contrario.
Proprio questa gestione del lavoro femminile indica che non si tratta solo
di attuare strategie economiche, ma di ammortizzare una sfida, di tenere o
di rimettere le donne al loro posto. Varia il modo di farlo e variano le
reazioni sociali e istituzionali.
Durante la prima guerra, nella avanzata Torino la gente comune non trova
niente da ridire se un vecchio o un ex cameriere si trasformano in operai,
ma infierisce contro le donne accusate di aver preso un posto dove qualcun
altro avrebbe potuto imboscarsi (1). Nel dopoguerra alla rapidissima
espulsione dalle fabbriche si accompagnano ovunque attacchi scomposti contro
la "donna nuova" che a partire da inizio secolo si e' affacciata sulla scena
culturale e lavorativa (2).
Alla fine della seconda guerra, la smobilitazione e' piu' contenuta e minore
l'ostilita' verso figure femminili inedite. Non si tratta solo di un quadro
politico diverso, ma della maggiore capacita' di difendersi: nell'estate del
'45 le operaie torinesi reagiscono alla prospettiva di un'indennita' di
contingenza minore di quella maschile invadendo l'Unione industriali e
imponendo la medesima cifra per donne e uomini capifamiglia (3). Che
all'epoca il fatto resti isolato non lo rende meno importante come segnale
di mutamento, in particolare della crescita di politicizzazione che
nell'Italia del '43-'45 tocca anche le donne.
Ma il quadro e' molto meno lineare di quello proposto dalle interpretazioni
delle guerre come pietre miliari che porterebbero a passi avanti
irreversibili verso la modernita'.
Per il lavoro di mercato, ne' l'una ne' l'altra delle due guerre mondiali
inducono a un riesame concettuale e a un riassetto stabile della divisione
sessuale del lavoro; piu' modestamente, provocano uno spostamento
provvisorio dei suoi confini, imposto da un cambiamento dei ruoli maschili
(dalla sfera produttiva alla sfera militare) anziche' da una ridiscussione
di quelli femminili (4).
Per quel che riguarda la conquista dei diritti politici, epilogo classico
delle guerre e delle lotte di liberazione nazionale, bisogna interrogarsi
innanzi tutto sulle sue radici: il voto nel '18 alle donne britanniche, per
esempio, e' frutto dell'impegno pluridecennale delle suffragiste non meno
che della necessita' di dare riconoscimento alla mobilitazione femminile nel
fronte interno, e un discorso simile vale per il voto riconosciuto alle
italiane e alle francesi alla fine della seconda guerra mondiale. Bisogna
interrogarsi anche sui limiti di quelle conquiste - l'acquisizione di uguali
diritti formali puo' non intaccare affatto la marginalita' politica - e
sulla loro possibile reversibilita': in Algeria, con il codice elettorale
del 1987, non integralista, si e' tentato di dare agli uomini la
possibilita' di votare a nome delle donne.
Nel nuovo c'e' molto del vecchio. Vale per il lavoro in settori maschili,
come per l'ingresso delle donne nei movimenti di liberazione e nelle truppe
regolari. Vale per le guerre del passato ma anche per la contemporaneita',
sia di guerra sia di pace, nei limiti in cui e' possibile oggi distinguere
fra il tempo dell'una e dell'altra.
La vicenda degli Stati Uniti insegna. Nell'apertura dell'esercito alle donne
ha certo pesato la lotta delle organizzazioni femminili/femministe liberal
per la parita' in tutti i campi. Ma sono stati determinanti due obiettivi di
politica militare messi a punto negli anni Settanta: controbilanciare la
presenza crescente di giovani neri sventando la prospettiva di un esercito
troppo di colore; sostenere il volontariato, prevenendo tensioni popolari
ricalcate su quelle contro la guerra del Vietnam e diffondendo un'immagine
del servizio militare come mestiere, e mestiere non piu' "sporco" di altri
(5). Non e' un caso che la divisione sessuale del lavoro si sia prolungata
all'interno delle forze armate e al fronte, mentre, non diversamente che
nelle guerre mondiali, al mutamento dei ruoli lavorativi extrafamiliari
delle donne non ha corrisposto alcuna ristrutturazione stabile dei compiti e
delle responsabilita' nello spazio domestico. Durante la guerra del Golfo,
la cura dei bambini e della casa delle combattenti e' ricaduta per lo piu'
su altre donne, molto di rado su uomini, e in ogni modo come fatto
temporaneo ed eccezionale.
Nei processi di trasformazione la compresenza di vecchio e nuovo e' la
regola. Ma in questo caso si tratta di un carattere fondante: e' nello
spazio domestico che risiede il primo terreno di organizzazione della
disparita'. Se il nuovo si ferma alla sua soglia, i mutamenti economici e
lavorativi rischiano di non intaccare nella sostanza i rapporti di genere;
le conquiste politiche di essere vanificate. E' difficile preservare uno
spazio politico se non si puo' mettere contemporaneamente in questione
quello culturale e simbolico.
Eppure la presenza femminile ha innescato conflitti solo in parte previsti e
prevedibili. Due esempi fra molti: nell'esercito americano le donne hanno
aperto il contenzioso delle differenti opportunita' di carriera e delle
molestie sessuali; durante la guerra del Golfo, altre hanno fatto leva sulla
carica innovativa legata alla figura delle combattenti per mettere in
discussione la propria, come le saudite che hanno manifestato alla guida di
automobili contro il divieto di farlo imposto dall'interpretazione nazionale
della legge coranica.
E' un fatto tanto piu' importante se si pensa che in tutta l'area
mediorientale le guerre hanno sfrenatamente rafforzato l'enfasi sulla
maternita' come valore e come servizio principale che le donne devono
rendere alla nazione; lo stesso avviene nella ex Jugoslavia, dove la
maternita' e' diventata strumento e bersaglio delle strategie di pulizia
etnica. In questi casi c'e' davvero da augurarsi che i cambiamenti siano
instabili; e c'e' da chiedersi se il dibattito sulla irreversibilita' o meno
delle trasformazioni non sia troppo vincolato alla storia dell'occidente e
alla nostra vecchia concezione del cambiamento come invariabilmente
progressivo. Applicarla alle vicende delle donne, dove non e' affatto chiaro
cosa rappresenti un miglioramento e cosa un peggioramento, e non lo e'
affatto come misurarli (6), sarebbe una leggerezza.
A noi pare che raramente una maggiore liberta' femminile sia stata il
sottoprodotto di processi che ne' la perseguivano ne' la prevedevano. Questi
possono contribuire ad allargare la zona neutra in cui donne e uomini
operano in termini relativamente interscambiabili; possono dilatare lo
spazio d'azione e i compiti femminili, renderli piu' visibili, metterli in
valore - ma come fatto a termine. Difficilmente ridefiniscono i ruoli
maschili spostandoli verso la domesticita' e la cura.
Se si guarda alla storia del novecento, l'impressione e' che per quanto
riguarda i rapporti di genere i risultati piu' importanti siano legati al
tempo di pace, o quantomeno a forme di lotta poco militarizzate. L'esempio
piu' vicino nel tempo viene dalla prima fase dell'Intifada, in cui l'impegno
per l'autonomia sociale e produttiva apre spazi e sollecita iniziative delle
donne; mentre il predominio dell'aspetto armato a partire dal '90-'91, con
l'avvitamento nella spirale strage-reazione-repressione-vendetta-nuova
strage, ha tolto loro visibilita', respiro, forse consapevolezza (7).
*
2.  Donne e uomini
Fare del nuovo una parentesi anziche' un punto di partenza e' stata la
strategia generale per contenere gli effetti disordinanti delle guerre.
Almeno potenzialmente, le trasformazioni minacciano infatti sia i rapporti
di genere sia le costruzioni simboliche del maschile e del femminile, a
partire da quella che associa le donne al privato e gli uomini alla sfera
pubblica del lavoro e della politica.
Nel caso delle donne soldato, si direbbe che le preoccupazioni nascano dal
loro distacco dalla casa non meno che dal loro contatto con il nemico. Nira
Yuval-Davis (8) ricorda l'intervista radiofonica di un padre inglese che,
dovendo occuparsi di due bambini piccoli dopo la partenza della moglie per
il Golfo, confessava il suo sgomento per la mole di lavoro e formulava la
calda speranza che lei rientrasse al piu' presto e se ne facesse nuovamente
carico. Forse una donna capace di combattere e insieme disponibile a tornare
alla domesticita' puo' essere la versione postmoderna dell'emancipata,
sempre titolare di un doppio lavoro, anche se il secondo e' in questo caso
radicalmente diverso da quello produttivo.
Altrettanto persistente si e' dimostrato lo stereotipo che identifica la
guerra con il maschile e la pace con il femminile. Al punto che, passate le
emergenze che l'hanno contraddetto, ha finito spesso per riaffermarsi, sia
pure in versione aggiornata: si' alle donne soldato, per esempio, ma
protette dalla contiguita' con il nemico e assegnate a settori e funzioni
che non creino ansie di tutela, rivalita' e controllo negli uomini.
C'e' da stupirsi, ma non troppo. Piu' che a dar conto di quanto donne e
uomini fanno, una costruzione simbolica serve a convalidare un assetto di
norme e di immagini mentali: in questo caso, un assetto costitutivo della
divisione dei ruoli fra donne e uomini e del rapporto individuo/Stato.
A dispetto degli enormi cambiamenti nei rapporti fra i generi e nella
soggettivita' femminile, da piu' parti si insiste tuttora nell'aspettarsi,
quasi nell'esigere dalle donne in quanto tali, particolari competenze e
assunzioni di responsabilita' in tema di pace (9). Fra le molte che se ne
sono fatte carico, alcune hanno agito appunto in nome di una radicale
estraneita' di genere alla guerra; e le donne in nero, cui si deve se in
questi anni il dissenso femminile e' stato portato nelle strade e davanti a
sedi diplomatiche e militari, hanno scelto deliberatamente i simboli
classici del lutto e della testimonianza silenziosa. Ma il rischio, ha
notato Lea Melandri, e' "di riprodurre una parte gia' assegnata: quella di
una fisicita' senza parole, che si e' voluta immobile nel tempo, a custodire
gli eventi dell'esperienza umana che la storia ha escluso da se': la nascita
e la morte" (10). Quasi una riedizione del tradizionale pianto materno di
fronte alle rovine della guerra.
Storicamente, sembra persino ovvio ricordarlo, la separazione non e' invece
mai stata netta. Nonostante le molte manifestazioni antibelliciste cui hanno
dato vita, nella loro maggioranza le donne hanno lavorato sostenendo la
guerra, ne hanno tollerato la violenza per rassegnazione, ma anche per
convinzione, spesso sotto le insegne della maternita'. A volte hanno preso
le armi; sempre hanno offerto un retroterra materiale e morale a figli,
mariti, fratelli, compagni; sempre hanno riparato ai guasti della guerra, o
si sono sforzate di farlo.
Non e' solo effetto dell'identificazione con il destino maschile o della
propaganda - sebbene nessun governo abbia mostrato di ignorare che per
impadronirsi dei corpi e dei cuori dei soldati bisogna prima conquistare,
quanto meno neutralizzare, le donne. Il punto e' che, in mezzo a sofferenze
e rinunce, dalla guerra nascono nuove forme di autoaffermazione: maternita'
e lavoro femminile sono promossi a componente decisiva dello sforzo
nazionale, la funzione simbolica della donna viene esaltata come contraltare
piu' che mai prezioso al mondo della violenza. Ne nasce anche, almeno per
alcune, la possibilita' di guadagni economici, di avventure e vantaggi
personali. Di piu': singole donne possono trovarsi, per scelta, necessita' o
caso, a trasmettere informazioni e fare sabotaggi, a guidare un'azione
armata, salvare e uccidere, torturare e proteggere; e a potenziare con il
proprio esempio le fantasie aggressive o eroico-romantiche di altre, vissute
abitualmente per la interposta persona dell'uomo. A dispetto di recenti
speranze e di antiche retoriche, nessun dono di nascita e nessuna eredita'
storica hanno finora immunizzato le donne dall'orgoglio di condividere
esperienze fondate su categorie da cui nella normalita' sono state escluse
come gloria, onore, virtu' civile; ne' hanno loro impedito di combattere con
vecchie e nuove armi (11).
Vuol dire allora che scegliere la pace puo' dimostrarsi, anziche' l'adesione
irriflessa a uno stereotipo, una sua interpretazione creativa, e questo
libro vorrebbe indicarne alcune espressioni. Vuol dire anche chiedersi se le
combattenti in armi manifestino o meno diversita' riconoscibili nel modo di
vivere la guerra, per esempio una resistenza all'astrazione del pensiero
militarista e alla riduzione del nemico a alieno, mostro, non uomo. In
mancanza di certezze, si puo' almeno ribadire che le motivazioni e le
esperienze formano un mosaico cosi' complicato da non sopportare
generalizzazioni.
Ma e' cosi' per la stessa esperienza maschile. Assegnarla in toto alla
guerra e' altrettanto meccanico che identificare donne e pace. Solo una
parte degli uomini fa il soldato, di questi solo una parte combatte; e non
tutti sono affetti dal virus militarista. Diversamente, come spiegare il
bisogno della leva obbligatoria, come spiegare le renitenze di massa, gli
innumerevoli processi - centinaia di migliaia nell'Italia del '15-'18 - per
diserzione, rifiuto di obbedienza, abbandono del posto?
Come hanno rilevato per primi alcuni studi ormai classici sulla grande
guerra, a intaccare il bellicismo e' la stessa fisionomia che puo' assumere
la conflittualita' moderna, con il suo tempo interminabile, il suo carattere
di meccanismo selvaggio, la dimensione di massa della morte. Nel '14-'18 per
molti volontari di classe media scoprire che la guerra e' una copia
mostruosa della vita industrializzata mette la parola fine a qualsiasi
illusione romantica; a molti operai e contadini la condizione di soldato
appariva gia' in partenza un insieme di mansioni pesanti, sporche e
mortalmente pericolose comandate da un caposquadra in divisa (12).
L'immagine della guerra come trionfo della mascolinita' ne viene incrinata a
fondo.
Che alla guerra si leghino il piacere della distruzione e lo stupore
complice di fronte a manifestazioni di potenza terribili e' un dato di fatto
(13). Ma sono molti i comportamenti che lo contraddicono, ispirandosi invece
al modello del guerriero compassionevole, capace di contenere la violenza,
di non infierire sul nemico, di riconoscere il valore piu' alto non
nell'uccidere, ma nel morire per gli altri.
Raramente gli altri sono la nazione o i civili. Piu' la guerra mostra il suo
volto, piu' la fedelta' del soldato si concentra sui compagni, e
precisamente su quelli fra loro che gli sono vicini: si combatte per non
lasciarli soli, per aiutarli, se possibile per salvarli. Delle otto medaglie
ottenute da un reparto di marines nel 1944, sei riguardavano uomini che si
erano buttati a coprire le granate con il proprio corpo per proteggere i
compagni dallo scoppio; cosi' tutti e cinque i marines neri decorati di
medaglia d'onore in Vietnam (14). E' il culmine di una solidarieta' che puo'
venire da modelli precedenti, ma che per lo piu' nasce dall'interno stesso
della guerra, dove la sofferenza e il rischio patiti a lungo e fianco a
fianco uniscono come forse mai nella vita civile. I tanti episodi di
fraternizzazione indicano che questo senso di comunanza ha spesso scavalcato
gli schieramenti contrapposti.
Non solo: per un singolare paradosso, e' il soldato, non l'uomo di pace, a
imparare per primo a farsi carico del suo simile, sostituendo alla "virtu'
eroica" del combattimento quella che Todorov definisce virtu' quotidiana
della cura (15). Significa misurarsi con l'arte di ascoltare e di parlare,
di palesare uno stato d'animo o di nasconderlo se si sa che puo' ferire o
abbattere; significa badare al corpo dell'altro, toccarlo, medicarlo,
tenerlo vicino. La guerra e' forse l'unica occasione in cui giovani maschi
sperimentano fra loro un lavoro di cura simile a quello svolto dalle donne,
o riservato a figure professionali come medici, infermieri, psicologi.
Non e' un dato incompatibile con il bellicismo, spesso ne e' anzi una
componente; ma puo' portare anche alla sua negazione. Ne fa fede
l'ambivalenza con cui lo guardano i comandanti militari, ora facendo della
solidarieta' di plotone un mito (16), ora temendola come risorsa per
comportamenti antagonisti.
Che questo aspetto delle relazioni tra uomini sia stato incapsulato nella
cifra dell'emergenza e nella categoria di cameratismo non ha niente di
strano. La cura e' cosi' rigidamente associata alle donne che per definire
il comportamento dell'uomo sollecito non si trovano altro che termini come
materno o femminile. E se nel primo caso puo' agire il fascino dell'analogia
eroicistica fra il sacrificio del soldato e quello della madre,
un'identificazione con il femminile come "piccola" manutenzione della vita
parrebbe devirilizzante, e dunque dannosa per la restaurazione dei rapporti
di genere. Anche l'esperienza maschile della cura e' stata cosi' archiviata
come fatto a termine, mentre il suo potenziale di critica alla polarita' fra
immagini del maschile e del femminile restava inesplorato.
Ma oggi, primavera duemila, ci sembra che alcuni aspetti del rapporto
donne/uomini/guerra siano investiti pesantemente dall'effetto combinato
delle trasformazioni tecnologiche e dei nuovi modelli di conflitto via via
emersi dopo il crollo del muro di Berlino, in particolare quello
sperimentato durante la guerra Nato/Serbia del marzo-giugno 1999. In questo
caso, terra e cielo sono stati teatro di due guerre diverse. Sul territorio,
uno scontro di tipo tradizionale fra l'Uck, (Esercito di liberazione del
Kosovo) e le truppe serbe, che hanno sistematicamente usato la violenza
sessuale come strumento della "pulizia etnica": qui le donne sono comparse
essenzialmente come vittime, e in qualche caso come militanti della
guerriglia nazionalista. Il cielo ha conosciuto invece una guerra
tecnologica fatta esclusivamente di incursioni aeree su Serbia e Kosovo e di
controffensive serbe: nessuna contiguita' con il nemico, crucialita' delle
conoscenze tecniche, peso ridotto del fattore forza fisica. Mentre essere
uomo o donna risultava una variabile meno rilevante, l'assenza di scontri
ravvicinati e di insediamenti militari Nato in zona di guerra, il dislivello
tecnico fra i contendenti e la brevita' del conflitto hanno cancellato una
delle condizioni-base su cui si e' storicamente costruita la solidarieta'
fra compagni (ma anche la fraternizzazione con il nemico). Sebbene nella
discussione sulla guerra del Kosovo di rado sia entrata una prospettiva di
genere, e' probabile che ne escano ulteriormente modificati sia il modello
maschile del combattente, in molti conflitti sempre piu' simile a un tecnico
che a un soldato, sia le funzioni delle donne nelle forze armate.
*
Note
1. T. Noce, Gioventu' senza sole, Editori Riuniti, Roma 1950.
2. M. De Giorgio, Le italiane dall'Unita' a oggi. Modelli culturali e
comportamenti sociali, Laterza, Roma-Bari 1992, cap. I.
3. La manifestazione e' ricordata in varie narrazioni presenti in B.
Guidetti Serra, Compagne, Einaudi, Torino 1977.
4. Vedi F. Thebaud, La femme au temps de la guerre de '14, Stock, Parigi
1986; M. R. Higonnet, J. Jenson, S. Michel, M. Collins Weitz (a cura di),
Behind the Lines. Gender and the Two World Wars, Oxford University Press,
Londra-New Haven 1987;  G. Braybon, P. Summerfield, Out of the Cage: Women's
Experiences in two World Wars, Pandora Press, Londra-New York 1987; U.
Frevert, Women in German History,  Berg, Oxford 1989. Sull'Italia, F.
Bettio, The Sexual Divison of Labour. The Italian Case, Oxford University
Press, New York 1988.
5. Cfr. N. Yuval-Davis, The Gendered Gulf War: Women's Citizenship and
Modern Warfare, in H. Bresheeth, N. Yuval-Davis (a cura di), The Gulf War
and New World Order, Zed, Londra 1991, e C. H. Enloe, Le donne soldato
americane e la professionalizzazione della "cittadinanza di prima classe",
in E. Addis, V. E. Russo, L. Sebesta, Donne soldato, Ediesse, Roma 1994;
nello stesso volume, vedi Sebesta, Donne e legittimita' dell'uso della
forza: il caso del servizio militare femminile (sull'arruolamento delle
donne come risposta alle tendenze verso la delegittimazione dell'uso della
forza), e Addis, Le conseguenze economiche del servizio militare: costi e
benefici per le donne soldato.
6. J. W. Scott, Rewriting History, in Higonnet et al., Behind the Lines
cit., p. 25. Sul concetto di modernita' resta essenziale T. Mason, Moderno,
modernita', modernizzazione: un montaggio, in "Movimento operaio e
socialista", 1987, n. 1-2.
7. Vedi E. Donini, Che cosa resta, in "Inchiesta", 1991, n. 91-92.
8. Yuval-Davis, The Gendered Gulf War cit.
9. Lo notava nell'84 Alessandra Bocchetti nel Discorso sulla guerra e sulle
donne, Centro culturale Virginia Woolf, Roma, ora in A. Bocchetti, Cosa
vuole una donna, La Tartaruga, Milano 1995.
10. L. Melandri, L'illusione dellíinnocenza, in "Il manifesto", 26 febbraio
1991.
11. J. B. Elshtain, Donne e guerra, Il Mulino, Bologna 1991, parte II, La
virta' civica armata; S. Ruddick, Il pensiero materno, Red, Como 1993, pp.
191 sgg.
12. Vedi E. J. Leed, Terra di nessuno: Esperienza bellica e identita'
personale nella prima guerra mondiale, Il Mulino, Bologna 1985, cap. III, e
l'altrettanto noto P. Fussell, La grande guerra e la memoria moderna, Il
Mulino, Bologna 1984; per l'Italia A. Gibelli, L'officina della guerra. La
Grande Guerra e le trasformazioni del mondo mentale, Bollati Boringhieri,
Torino 1991.
13. Cfr. J. G. Gray, The Warriors: Reflection on Men in Battle, Harper &
Row, New York 1970.
14. Elshtain, Donne e guerra cit., p. 278. Vedi l'intero capitolo VI,
Uomini: i molti militanti / i pochi pacifici.
15. Per la distinzione tra virtu' "eroiche" e "quotidiane", T. Todorov, Di
fronte all'estremo, Garzanti, Milano 1992.
16. Vedi M. Isnenghi, Il mito della Grande Guerra: da Marinetti a Malaparte,
Mondadori, Milano 1990.
(Parte prima - segue)

3. MEMORIA. NICOLA CALIPARI, UN EROE DELLA NONVIOLENZA
[Dal n. 34, dell'inverno 2005 di "Adesso sulla strada", la bella rivista
diretta da Arnaldo Casali e promossa dall'associazione Sulla strada e da
altre esperienze di pace e di solidarieta' (per contatti: redazione di
"Adesso": via Ugo Foscolo 11, 05012 Attigliano (Tr), e-mail:
adesso at reteblu.org, sito: www.reteblu.org/adesso; associazione "Sulla
strada": via Ugo Foscolo 11, 05012 Attigliano (Tr), tel. 0744992760, cell.
3487921454, e-mail: sullastrada at iol.it, sito: www.sullastradaonlus.it),
riprendiamo il seguente articolo.
Nicola Calipari, nato a Reggio Calabria, laureato in giurisprudenza, con una
straordinaria e prestigiosa esperienza nelle forze dell'ordine con ruoli di
grande responsabilita' nella lotta contro il crimine, da due anni
funzionario del Sismi, e' l'eroe che ha salvato la vita a Giuliana Sgrena,
come gia' prima alle due Simone; e' stato ucciso il 4 marzo a Baghdad.
Giuliana Sgrena, intellettuale e militante femminista e pacifista tra le
piu' prestigiose, e' tra le maggiori conoscitrici italiane dei paesi e delle
culture arabe e islamiche; autrice di vari testi di grande importanza (tra
cui: a cura di, La schiavitu' del velo, Manifestolibri, Roma 1995, 1999;
Kahina contro i califfi, Datanews, Roma 1997; Alla scuola dei taleban,
Manifestolibri, Roma 2002; Il fronte Iraq, Manifestolibri, Roma 2004); e'
stata inviata del "Manifesto" a Baghdad, sotto le bombe, durante la fase
piu' ferocemente stragista della guerra tuttora in corso. A Baghdad e' stata
rapita il 4 febbraio 2005; e' stata liberata il 4 marzo.
Florence Aubenas e' la giornalista francese del quotidiano "Liberation", da
sempre impegnata per la pace e i diritti umani, rapita da mesi in Iraq. Tra
le opere di Florence Aubenas: con Miguel Benasayag, Resistere e' creare, Mc
editrice, Milano 2004]

La tragica morte di Nicola Calipari ha rivelato l'esistenza di un eroe della
nonviolenza che era funzionario del servizio segreto militare, ovvero
ricopriva un ruolo che apparentemente non puo' che essere in netta
contraddizione con la scelta della nonviolenza.
E invece quell'essere umano quel ruolo ricoprendo salvava vite umane,
contrastava la guerra nel suo nocciolo duro, consistendo la guerra
nell'uccisione di esseri umani; nel suo nocciolo duro praticava la
nonviolenza, la nonviolenza che questo afferma: tu non uccidere, tu salva le
vite umane, tu opponiti alla violenza, tu costruisci umanita',
riconoscimento di umanita'; tu opponiti alla violenza nel modo piu' nitido e
piu' intransigente; tu afferrati alla verita', quella interiore verita' che
ciascuno reca nel cuore e che dice: sii responsabile per gli altri, ama il
mondo, considera e tratta ogni altra persona cosi' come vorresti essere
considerato e trattato tu.
*
La liberazione di Giuliana Sgrena, che resta una gioia grande sebbene
funestata dal lutto immedicabile della morte del suo salvatore, ci
restituisce piu' che una giornalista, ci restituisce una testimone di pace e
un'amica della nonviolenza, una persona impegnata all'ascolto della voce
delle vittime, una persona al servizio dell'unica causa al cui servizio vale
la pena di mettersi: la causa dell'umanita', del diritto di tutti gli esseri
umani e di ogni singolo essere umano a vivere, a vivere una vita dignitosa.
Che e' la causa della pace, della giustizia, dei diritti umani, della
solidarieta' e della liberazione, della salvaguardia del creato.
Giuliana Sgrena da molti anni di questo impegno e' una protagonista, umile e
nobile a un tempo, la sua liberazione dopo l'angoscia del rapimento ci
restituisce una persona che molto ha gia' contribuito e molto ancora
contribuira' al comune impegno per la pace.
*
Mentre scriviamo restano ancora ostaggi della guerra e del terrorismo
(dell'occupazione militare straniera e dell'occupazione militare delle bande
criminali, delle organizzazioni terroristiche e dei gruppi armati di ogni
genere) tante persone sequestrate e imprigionate, come Florence Aubenas, e
con esse l'intero popolo iracheno.
La guerra non sconfiggera' il terrorismo poiche' essa lo alimenta e
riproduce, poiche' di esso essa e' la magnificazione. E il terrorismo non
fara' cessare l'occupazione straniera, poiche' esso stesso e' occupazione
straniera, straniera e nemica dell'umanita' intera, poiche' esso e' ancora
guerra, di guerra frutto e di guerra seminagione. Essa guerra ed esso
terrorismo sono parimenti orrore assoluto, disumanizzazione e morte.
Solo la scelta della nonviolenza puo' sconfiggere a un tempo guerra e
terrorismo, puo' realizzare le condizioni che consentono e promuovono la
convivenza umana, che schiudono all'umanamente attingibile felicita'. Solo
la scelta della nonviolenza puo' salvare l'umanita'.
*
Qui e adesso, nella drammatica concretezza della situazione che abbiamo di
fronte, la nonviolenza deve sapere intervenire concretamente e massivamente
per portare soccorsi e sollievo alla popolazione irachena, disarmando le
mani e gli animi, facendo cessare guerra, occupazione militare e terrore,
togliendo le armi agli armati, spezzando tutti i fucili, chiamando tutte e
tutti a quella verita' che e' comune, al di la' del linguaggio in cui i
diversi popoli, le diverse culture, le diverse tradizioni religiose o laiche
la dicono: "Tu non uccidere" come comandano le tre religioni figlie del
medesimo Abramo; satyagraha, "tieniti stretto a cio' che e' buono e vero
sempre", come spiegava Gandhi; la "forza dell'amore" di Martin Luther King,
il "rispetto per la vita" di Albert Schweitzer; la scelta di Simone Weil e
di Etty Hillesum, di Virginia Woolf e di Hannah Arendt, la scelta di
Marianella Garcia.

4. MEMORIA. FERNANDA PIVANO RICORDA ROBERT CREELEY
[Dal "Corriere della sera" del 3 aprile 2005.
Fernanda Pivano, intellettuale italiana impegnata nei movimenti per i
diritti civili, studiosa della cultura americana e personalmente
intensamente partecipe delle piu' rilevanti esperienze di impegno civile,
artistiche, letterarie e culturali nordamericane novecentesche (e
particolarmente di quelle legate alla cultura ed alla militanza democratica
e radicale, pacifista ed antirazzista, di opposizione e di contestazione, ed
agli stili di vita alternativi). Tra le opere di Fernanda Pivano: oltre a
numerose e giustamente celebri traduzioni (tra cui la classica versione
dell'Antologia di Spoon River, di Edgar Lee Masters; la stupenda raccolta di
poesie di Allen Ginsberg, Jukebox all'idrogeno; la fondamentale antologia
Poesia degli ultimi americani), ha pubblicato tra altri volumi le raccolte
di saggi: La balena bianca e altri miti, 1961; America rosso e nera, 1964;
Le belle ragazze, 1965; L'altra America negli anni Sessanta, 1971; "Pianeta
Fresco", 1967; Beat hippie yippie, 1972, Mostri degli anni Venti, 1976,
C'era una volta il beat, 1976, Hemingway, 1985.
Su Robert Creeley riportiamo la seguente scheda dal quotidiano "Il
manifesto" del 24 marzo 2005: "E' morto ieri a Odessa, nel Texas, il poeta
statunitense Robert Creeley. Considerato uno dei massimi poeti del novecento
americano, Robert Creeley nasce a Arlington, Massachusetts, il 21
maggio1926. Dopo la laurea all'Universita' di Harvard, lavora, durante gli
ultimi anni del secondo conflitto mondiale, per l'"American Field Service"
in India. Nel 1946 pubblica la sua prima poesia nella rivista di Harvard;
nel 1949 cominicia la sua corrispondenza con William Carlos Williams e Ezra
Pound, e poco dopo con il poeta Charles Olson. Nel 1954 Olson, come capo del
"Black Mountain College", una scuola d'arte sperimentale in North Carolina,
invita Creeley al college per curare la "Black Mountain Review". Creeley
attraverso questa rivista e i suoi scritti concorre a definire una
"contro-tradizione" rispetto a quella dell'establishment letterario
ufficiale: una "contro-tradizione" che ha le radici in Pound, Williams e
Zukofsky e che continua con Olson, Robert Duncan, Allen Ginsberg, Denise
Levertov, Edward Dorn e altri. Creeley si avvicina al movimento beat nel
1956 dopo la chiusura del "Black Mountain College" e l'incontro con Allen
Ginsberg. Nel frattempo pubblica molte raccolte di poesia come A Snarling
Garlandof Xmas Verses (1954), A Form of Women (1959), For Love: Poems(1962),
Words (1967), A Day Book (1972), Thirty Things (1974), Selected Poems
(1976). La produzione poetica di Creeley si e' poi arricchita di altri 30
quaderni di poesia. La sua partecipazione al movimento beat e' un vero e
proprio spartiacque nella sua vita. Di quell'esperienza conservera' il
carattere fortemente anticonformista e una continua tensione alla ricerca e
alla sperimentazione. Rispetto al riconoscimento della qualita' della sua
produzione poetica, che anche l'establishment gli riconosce, meno conosciuta
rimane invece la sua collaborazione con artisti jazz o con gruppi rock, che
ha dato vita a performance ed esibizioni che hanno inscritto il poeta
statunitense tra le personalita' piu' eclettiche del panorama poetico
americano. Allo stesso tempo, Creeley ha continuato la sua attivita' di
docente che lo ha portato ad insegnare in vare universita' americane e a
contribuire all'elaborazione di vari programmi nazionali per l'insegnamento
della poesia. Premiato piu' volte, ha ottenuto il prestigioso Walt Withman
Citation nel 1988"]

Ah, Robert, caro Robert Creeley, grandissimo poeta di grandissime poesie,
grandissimo divulgatore e trasmettitore di idee, di cultura, di storia,
grandissimo interprete di poeti cosiddetti difficili, grandissimo amico di
chiunque avesse bisogno di un consiglio per respingere il suicidio.
Ha passato una vita in Giappone a imparare la filosofia buddhista e
l'insegnamento zen: una quarantina d' anni a partire dal '53, con brevi
intervalli per ritornare nella sua America. Per andare a fare i corsi al
Black Mountain College del North Carolina e per dirigere la rivista dell'
Universita'. E poi per vivere a Taos e a San Francisco e in New Mexico nel
'56 per insegnare ad Albuquerque e poi in una finca nel Guatemala.
Questa girandola occidentale basata sulla sua formazione ormai orientale
l'ha fatta quasi tutta soffrendo di un enfisema, per il quale ha sempre
detto di non avere tempo, nonostante negli ultimi anni vivesse attaccato a
una bombola di ossigeno, aiutato nella sua ostinazione da una biopsia ai
polmoni risultata negativa.
Robert Creeley non era mai riuscito a staccarsi dagli strani, stupendi
costumi del Giappone. Ne' dalla sua America, di cui amava profondamente
cultura e civilta'.
I suoi interessi non si fermarono mai solo alla poesia. Gentile e dotato di
una grazia ospitale, era soprattutto amico dei piu' importanti artisti
moderni e lavorava spesso con loro a libri e progetti di mostre, era pure
socio di musicisti jazz: un vero cultore dell'arte.
La popolarita' gli veniva anche dalle migliaia di letture che faceva:
l'ultimo reading, in Virginia, l'ha organizzato due settimane prima di
morire. E quando qualcuno si stupiva del suo intenso programma di presenze
pubbliche rispondeva con un verso di uno dei suoi piu' cari amici poeti, il
medico William Carlos Williams: "Mi chiamano e io vado".
Sono molti a pensare che la sua morte ha impoverito il mondo dell'arte e
delle lettere. Almeno Oltreoceano, aveva una gran reputazione di poeta
postmoderno. Moltissimi giornali americani hanno accolto cosi' la sua
scomparsa: "Il poeta Robert Creeley, uno dei maggiori esponenti della lirica
postmoderna americana, e' morto in Texas a 78 anni. Insieme ai piu' noti
esponenti della Beat Generation e' considerato uno degli autori che ha
contribuito in modo definitivo a rinnovare la poesia americana nel mondo
durante il Secondo Dopoguerra".
E' stato un eroe degli Anni Cinquanta, uno dei momenti piu' gloriosi della
cultura Usa, idolatrato per i suoi esperimenti linguistici e per le libere
improvvisazioni nel corso delle sue letture. Quella di Robert e' stata una
delle voci poetiche piu' ascoltate e amate: lui, cosi' appassionato ai
tentativi di migliorare il linguaggio; lui, tanto lodato da Allen Ginsberg
per l'intelligenza dei suoi esperimenti.
In America ha pubblicato una sessantina di libri e qualcuno e' arrivato
anche qui in Europa, dove pero' era noto soprattutto come direttore delle
riviste di poesia americana, specialmente di quella "Black Mountain Review"
in cui sviluppo' la sue affinita' con Charles Olson: insieme concepirono
l'opera poetica come centro di possibilita' nuove del "respiro", un respiro
che divenne componente essenziale di versi trasformati in atto dinamico
attraverso la lettura.
Il mio ricordo me lo riporta agli occhi e alle orecchie, soprattutto al
cuore, ripensando a quando l'ho incontrato la prima volta nell'Istituto di
San Francisco dove si tenevano i reading suoi e degli altri poeti beat
famosi. Naturalmente stava fumando un joint, naturalmente era la prima volta
che ne vedevo uno, naturalmente era la prima volta che mi trovavo, da un
piccolo centro provinciale del nord Italia, nella sala famosa della capitale
letteraria d'America. Tenero, gentilissimo, senza bisogno di parole aveva
capito tutto e mi aveva fatto, con mia sbalordita riconoscenza, la prima
lezione su quello che era successo e stava succedendo alla poesia americana,
postmoderna o no, ma nuova, libera, tesa al futuro invece che al passato: mi
parlava con una sincerita', un riserbo, un'umilta' che non ho trovato in
nessuno dei miei amici piu' cari. Chiunque lo abbia avvicinato non puo' che
piangere la sua morte e invocare il futuro perche' riesca a essere amato e
capito negli enormi spazi profumati dell'eternita'.

5. RIFLESSIONE. LUISA MURARO: FERMARSI A PARLARE
[Dal sito della Libreria delle donne di Milano (www.libreriadelledonne.it)
riprendiamo questo articolo apparso sul quotidiano "l'Unita'" del primo
aprile 2005. Luisa Muraro insegna all'Universita' di Verona, fa parte della
comunita' filosofica femminile di "Diotima"; dal sito delle sue "Lezioni sul
femminismo" riportiamo la seguente scheda biobibliografica: "Luisa Muraro,
sesta di undici figli, sei sorelle e cinque fratelli, e' nata nel 1940 a
Montecchio Maggiore (Vicenza), in una regione allora povera. Si e' laureata
in filosofia all'Universita' Cattolica di Milano e la', su invito di Gustavo
Bontadini, ha iniziato una carriera accademica presto interrotta dal
Sessantotto. Passata ad insegnare nella scuola dell'obbligo, dal 1976 lavora
nel dipartimento di filosofia dell'Universita' di Verona. Ha partecipato al
progetto conosciuto come Erba Voglio, di Elvio Fachinelli. Poco dopo
coinvolta nel movimento femminista dal gruppo "Demau" di Lia Cigarini e
Daniela Pellegrini e' rimasta fedele al femminismo delle origini, che poi
sara' chiamato femminismo della differenza, al quale si ispira buona parte
della sua produzione successiva: La Signora del gioco (Feltrinelli, Milano
1976), Maglia o uncinetto (1981, ristampato nel 1998 dalla Manifestolibri),
Guglielma e Maifreda (La Tartaruga, Milano 1985), L'ordine simbolico della
madre (Editori Riuniti, Roma 1991), Lingua materna scienza divina (D'Auria,
Napoli 1995), La folla nel cuore (Pratiche, Milano 2000). Con altre, ha dato
vita alla Libreria delle Donne di Milano (1975), che pubblica la rivista
trimestrale "Via Dogana" e il foglio "Sottosopra", ed alla comunita'
filosofica Diotima (1984), di cui sono finora usciti sei volumi collettanei
(da Il pensiero della differenza sessuale, La Tartaruga, Milano 1987, a Il
profumo della maestra, Liguori, Napoli 1999). E' diventata madre nel 1966 e
nonna nel 1997"]

Ha un titolo lungo come una recensione breve, l'ultimo Quaderno della
rivista "Via Dogana": Parole che le donne dicono per quello che fanno e
vivono nel mondo del lavoro oggi. Editrice, la Libreria delle donne di
Milano. Autore, sette nomi fra i quali spiccano quelli di Lia Cigarini, una
che c'era dagli inizi del femminismo (come Carla Lonzi e Daniela Pellegrini)
e di Oriella Savoldi della Camera del lavoro di Brescia.
Si tratta dunque di lavoro-donne-oggi, ma non troviamo operaie ne' contadine
ne' infermiere ne' insegnanti ne' le tipiche segretarie: non ci sono le
classiche categorie del lavoro femminile, ci sono "le altre", quelle che si
sono messe a fare lavori che erano soprattutto di uomini (architetto, agente
di borsa, capo del personale...) o che semplicemente non c'erano (call
center) o che non ci sono e loro stesse inventano. Non ci sono neanche
grandi numeri, inchieste o statistiche, ma solo donne in carne e ossa,
invitate a raccontare e a ragionare del loro lavoro con le invitanti e con
il pubblico di un circolo femminista.
Si cercano le parole e un linguaggio per dire un'esperienza di donna in
rapporto ad un fuori molto segnato dagli uomini, sia come presenza fisica
sia come organizzazione del lavoro. La situazione fa pensare a quella delle
immigrate di paesi di altre culture che devono imparare quasi tutto e, al
tempo stesso, lottare per non perdere se stesse. Che cosa ci fa vedere? Un
paesaggio dove il lavoro, per quelle che hanno lavoro, e' troppo ma piace,
il tempo libero e' molto poco, il perfezionismo domestico non e' sparito,
dove un filo di umorismo non manca mai e il risentimento verso gli uomini
non si sente, ma una certa paura forse si', e molte non sanno ancora
chiedere e contrattare, dove la voglia di fare bene spesso supera quella di
fare carriera, dove non si rinuncia ai bambini e agli amori... insomma vite
sul trapezio.
E' il fronte della civilta' che si muove e cambia: lavoro, aspirazioni,
rapporti sociali, vita familiare, dentro-fuori-distante da casa, vestiti,
cibi, pettinature, e cambia in forme che non si pretende, o non si puo',
dirigere, ma almeno saperle, dirle e ridisegnarle con parole proprie. Il
libro non ha capitoli, sostituiti da una serie di voci o lemmi, liberta' di
scelta e' la prima, seguita da lingua materna, lingua d'azienda, per finire
con corpo di donna in guerra, con la testimonianza di due fotogiornaliste,
in tutto ventidue voci. A parte che non c'e' ordine alfabetico, somiglia al
fascicolo di un grande dizionario d'uso del mondo che cambia a causa che le
donne vanno ormai dovunque.
*
Io ho cominciato a fare questo tipo di lavoro con la pratica femminista
dell'autocoscienza, che ha ispirato anche le autrici di questo libro, ma
bisogna dire che il fermarsi a parlare con altre, parenti, colleghe, amiche
vicine, parlare di se', dei problemi che si hanno, delle cose che si fanno,
e' sempre stata un'abitudine femminile, e forse molte continuano ancora
negli interstizi delle nostre giornate vissute correndo.
Ma di che "lavoro" si tratta? Proprio quello delle parole. Il piu' grande
filosofo americano, Peirce, ha insegnato che il significato-significante
ultimo delle parole, cio' che le rende vive, quando vive sono e non frasi
fatte, e' una trasformazione interna dei parlanti, ossia la formazione di
uno specifico abito mentale che ci dispone ad agire per il meglio.
Questo e' lo splendore di avere un linguaggio (uso una formula di Clarice
Lispector), avere cioe' la possibilita' di mettere fine alla confusione, di
fare luce, aprire passaggi di comunicazione, e disporci ad agire, dove prima
c'era l'impasse di una dolorosa scissione tra dentro e fuori, tra se' e gli
altri o perfino tra se' e se'.
*
Di questo breve libro, sono poco piu' di cento pagine, e' stato scritto che
e' pieno di verita', nel segno del cambiamento (da Anna Bandettini, su "La
Repubblica"). Sono parole forti e accettabili. Nel libro, infatti, e'
all'opera un significato-significante ultimo, nel senso del filosofo
americano, che trasforma la lettura in un'esperienza di conoscenza
modificatrice. Il risultato e' che una smette di recriminare contro le
discriminazioni, ma smette anche la difesa di voler considerare l'essere
donna come una circostanza indifferente. E si mette a portare il fatto di
essere una donna con lo stile di un vestito e di un'acconciatura, stile
sobrio o appariscente, sportivo o elegante, ma portato bene, portato nelle
parole stesse con cui rende conto di se' e chiede conto al mondo.
Questo Quaderno della Libreria delle donne non e' uno scritto sulla
differenza sessuale, come ne conosciamo, io stessa ne ho fatti. E' uno
scritto di donne che raccontano e ragionano la loro esperienza, e cosi'
cambiano la figura del mondo, anche dentro di se', facendo vedere che ci
sono anche loro, e vedendosi nel mondo, loro stesse, per prime. Vorrei che
anche gli uomini sapessero fare questo tipo di lavoro, vorrei che in ogni
campo del vivere ogni tanto ci si fermasse a farlo, fermarsi a parlare.

6. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

7. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it,
luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at inwind.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 892 del 7 aprile 2005

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