economia la sfida dell'intervento pubblico



da liberazione.it
martedi 28 settembre 2004

I dati sfatano il mito del "privato è meglio"
La sfida dell'intervento pubblico

Pubblichiamo il terzo intervento di Maurizio Zipponi, segretario generale
della Fiom di Milano, per proseguire la riflessione sulla crisi industriale
e sui suoi possibili sbocchi.

Ho già sostenuto (sul numero di Liberazione di domenica 5 settembre)
parlando di Fiat, la necessità di un protagonismo dello Stato per far uscire
la più grande azienda automobilistica del paese dalla crisi che la
attanaglia.
Ma "intervento dello Stato in economia" da molti viene ancora
provincialmente tradotto in "statalismo": credo sia giunta l'ora di superare
questa banalizzazione e di iniziare a ragionare su come investire in nuovi
prodotti in rapporto ai bisogni collettivi e all'ambiente, sulle tecnologie
necessarie per realizzarli, sulle risorse indispensabili per sostenerli.
I governi di Francia e Germania sono già intervenuti in modo serio e
finalizzato nel settore auto (Volkswagen e Renault) e, di recente, la
pesantissima crisi finanziaria che ha portato la multinazionale francese
Alstom (attiva nei settori dell'energia e di trasporti) sull'orlo del
fallimento è stata risolta grazie all'azione dello Stato.
Eppure a nessuno è venuto in mente di accusare il presidente francese o il
cancelliere tedesco di "statalismo" anzi, le scelte dei due governi sono
state accolte dal mondo economico e finanziario come il modo migliore per
salvare industrie leader nei settori strategici come quelli dell'energia,
dei trasporti e dell'auto.
In Italia abbiamo alle spalle anni in cui tutto ciò che aveva a che fare con
le partecipazioni statali assumeva una accezione negativa, era sinonimo di
dirigenti e manager corrotti che gestivano aziende inefficienti e
indebitate.
Così, nel calderone dei luoghi comuni è stato buttato tutto ciò che era
pubblico: quello che davvero non funzionava insieme a interi patrimoni di
competenze e professionalità.
La "religione" delle privatizzazioni, oltre che dalla necessità di reperire
risorse, nasce dal luogo comune secondo cui "pubblico" significa
inevitabilmente "inefficiente".
Nel 1993 lo Stato controllava interamente o aveva quote significative di
partecipazione in 9 dei 20 maggiori gruppi operanti in Italia che avevano
circa 996.000 dipendenti (dei quali il 52% erano "pubblici"), ricavi di
circa 198.000 milioni di euro (di cui il 55% "statale") e una perdita di
6.600 milioni di euro circa (di cui il 43% a carico dello Stato e il resto,
guarda caso, in aziende private come Fiat, Ferruzzi, Olivetti, ecc.).
Nel 2003, dopo le operazioni di privatizzazione del settore telefonico,
dell'Ilva nel settore siderurgico, della Iritecna in quello delle
costruzioni e delle autostrade e l'uscita dal comparto alimentare e della
grande distribuzione, lo Stato controlla ancora 5 grandi gruppi su 20.
Sono ancora pubblici, infatti: Eni, Enel, Alitalia, Rai e Finmeccanica.
Ebbene, quel che è rimasto fattura 98 miliardi di euro, di cui 8,3 sono il
rendimento sul capitale investito, cioè il 13%, contro il 7,8% delle altre
aziende private.
Questi dati sfatano il mito del "privato è meglio": nella gara ai profitti
vincono le aziende di Stato, dimostrando la presenza di consistenti capacità
di direzione (Alitalia a parte) e confermano la necessità di una presenza
nuova dello Stato in economia, l'esigenza di serie politiche industriali e
di ingenti investimenti perché le aziende possano reggere sul mercato.
Invece, il nuovo ministro dell'Economia, a fronte dell'esigenza di reperire
oltre 100 miliardi di euro entro il 2008, annuncia ulteriori
privatizzazioni.
E' la storia che si ripete, è lo stesso percorso che ha portato Fiat alla
soglia del collasso: per fare cassa si vendono (o, meglio, si svendono) i
gioielli di famiglia senza finanziare nuovi piani industriali.
E' la ripetizione coatta di scelte sbagliate che hanno ridotto il patrimonio
industriale del paese.
E' possibile, invece di ripercorrere le strade fallimentari del passato,
ragionare di nuove alleanze anzitutto con imprese italiane,
sull'investimento dei guadagni per rendere più competitive le aziende,
persino sull'ingresso di veri imprenditori privati con quote di
partecipazione azionaria?
Se prevarrà l'esigenza di fare cassa è chiaro che le aziende che verranno
cedute saranno le più redditizie (poco importa se si chiamano Eni, Enel,
Finmeccanica o Fincantieri).
La vicenda Alitalia dimostra che intervenire quando i buoi sono già usciti
dalla stalla (cioè quando si è perso mercato, competitività e soldi) per
gravi responsabilità dei manager e della politica lottizzatrice che questo
governo ha continuato a fare, espone l'azienda al rischio concreto di uno
smembramento e di una vendita a pezzi che favorisce la concorrenza e crea
gravi perdite occupazionali. Quando l'unico criterio è quello dell'emergenza
finanziaria non si parla più di piani industriali, con il risultato di
liquidare patrimoni come quello della compagnia aerea nazionale.
Quindi, affrontare il tema delle partecipazioni statali significa, prima che
sia troppo tardi, parlare di piani industriali, di alleanze internazionali,
di rapporto con il capitale privato, di difesa dei marchi, dei brevetti,
degli stabilimenti e dell'occupazione.
Significa, ad esempio, parlare di ciò che sta accadendo in Finmeccanica.
Finmeccanica è un insieme di aziende che operano in diversi settori:
elettronica per la difesa, aereospazio, elicotteri, navi, energia, treni e
tanto altro.
La brillante idea che sta prevalendo al ministero per l'Economia è quella di
dividere Finmeccanica in due grandi agglomerati composti: il primo dalle
imprese che operano nei settori della difesa e dell'aerospazio; il secondo
da realtà come Fincantieri (alla quale pure non mancano le commesse, essendo
leader mondiale nella produzione di navi) e dalle aziende che si occupano di
attività civili.
In sintesi: in Finmeccanica Uno le realtà con solide alleanze
internazionali; in Finmeccanica Due aziende, che pur collocate in settori
strategici, necessitano di cospicui investimenti e di connessioni con il
capitale privato.
Il problema è che per permettere a Finmeccanica Uno di avere solide alleanze
internazionali è necessario un forte apporto di capitali. Questi capitali
vengono cercati sul mercato che, in cambio, chiede garanzie. E le garanzie
che a questo punto verrebbero date sono la cessione di tutta la parte civile
non considerata core bussines.
Il risultato è che tutte le attività civili verranno caricate dall'obbligo
di essere vendute per fare cassa, per garantire i prestiti necessari a
Finmeccanica Uno. A quel punto ogni discussione sui piani industriali e
sulle prospettive occupazionali degli stabilimenti sarà inutile, perché
assisteremo alla corsa alla privatizzazione ed alla cessione delle attività
civili magari ad imprese internazionali che le acquisirebbero non per
potenziarle e svilupparle, ma per eliminare un concorrente, con i
conseguenti drammi sociali per il paese.
Il risultato finale sarà l'uscita dell'Italia da tutti i settori che
determinano la competitività di un sistema: l'energia, i trasporti, le
infrastrutture.
Per questa ragione la Fiom è contraria alla divisione di Finmeccanica.
E' possibile muoversi in un'ottica diversa, considerando Finmeccanica come
un insieme che, attraverso i risultati operativi delle realtà "che tirano"
può rilanciare le attività civili, in particolare nei settori del trasporto
e dell'energia?
Ma qui torniamo al nodo di fondo: la mobilità o l'energia sono oppure no
grandi questioni che attengono alla collettività?
In ogni città del paese si susseguono i blocchi dei mezzi di trasporto a
causa dell'inquinamento e spostarsi in metropoli come Milano diventa sempre
più difficoltoso, e corriamo il rischio del bleck out energetico.
Il nostro paese spende per l'energia il 20-25% in più di Francia e Germania
e per l'80 % è dipendente dal petrolio.
Ma chi, se non lo Stato, può indirizzare e sostenere la ricerca, la
progettazione e la produzione di mezzi non inquinanti e pensare ad una nuova
strategia del trasporto pubblico?
E chi, se non lo Stato, può indirizzare e sostenere la ricerca, la
progettazione e la messa in opera di fonti energetiche alternative? E come
può farlo se consegna aziende storiche alle multinazionali e non obbliga
enti di ricerca come l'Enea ad operare in stretto rapporto con lo sviluppo e
l'innovazione dell'industria?
In una nuova cornice, Ansaldo Energia, ad esempio, che oggi utilizza la
tecnologia di altri per le centrali che fabbrica, deve rendersi autonoma da
questo punto di vista, cominciare a studiare come costruire impianti per
l'energia pulita e, magari, di produrre energia in proprio.
Le operazioni di rilancio delle aziende di Finmeccanica possono anche
prevedere l'ingresso di privati che abbiano dimostrato capacità
imprenditoriali reali, e che non siano soggetti (come è accaduto per Telecom
e Autostade), interessati solo a trovare un luogo sicuro dove investire i
propri soldi, partendo però da scelte industriali elaborate dal management e
discusse e condivise dalle organizzazioni sindacali.
Diventa quindi importante costruire con le aziende pubbliche un nuovo
sistema di relazioni industriali che dia al sindacato e ai lavoratori la
possibilità di conoscere, criticare o condividere sia i processi legati alle
alleanze internazionali, sia all'intervento di industriali privati,
all'interno di una logica di difesa del patrimonio industriale nazionale.
Concretamente si tratta di raggiungere un protocollo di intesa che impedisca
alle imprese di compiere azioni unilaterali e, valorizzando sia la
professionalità dei manager che quella dei lavoratori, porti ad operazioni
consensuali.
Lo schema che questo protocollo dovrebbe prevedere è il seguente: il
management indica le linee principali di intervento, si apre il confronto
con le organizzazioni sindacali prima di qualsiasi fase operativa, si
raggiungono le intese necessarie, e solo a quel punto si apre la possibilità
di apporti di capitali e capacità imprenditoriali privati, mentre
Finmeccanica rimane nel pacchetto azionario con un quota in grado di
garantire l'effettiva applicazione degli accordi condivisi.
Insomma, un nuovo governo potrà rilanciare il sistema industriale, e di
conseguenza l'occupazione, se si dimostrerà capace di valorizzare l'enorme
patrimonio che ancora oggi è di proprietà pubblica.
Maurizio Zipponi