l'ingiustizia sociale dell'ambiente violato




il manifesto - 08 Giugno 2004

L'ingiustizia sociale dell'ambiente violato
CARLA RAVAIOLI

Ambiente e lavoro sono state nella tradizione di sinistra due
materielontane, anzi sovente date come confliggenti e inconciliabili. Ma
forse le cose stanno cambiando. Un segnale in questo senso è venuto dal
«Forum per un'alternativa programmatica di governo» e da sei Camere del
lavoro (Bologna, Brescia, Cosenza, Matera, Reggio Emilia, Torino) in un
incontro in cui l'ambiente ha trovato larga attenzione. Il fatto è che
sempre più il problema ambiente si impone come una questione sociale. E non
solo per (ovvie) ragioni di ordine generale (dato che l'umanità, come ogni
altra specie vivente, è parte dell'ambiente stesso), ma per ragioni
direttamente connesse alla struttura disuguale del mondo. Sono i lavoratori
i più colpiti dalla tossicità dei materiali e dei processi produttivi tipici
delle attività industriali. Basti pensare ai morti di Marghera, Seveso,
Bohpal, Chernobyl; alle abnormi percentuali di tumori e malformazioni
rilevate in prossimità di fabbriche a rischio; alle molteplici patologie
diffuse tra gli agricoltori, a contatto continuo con pesticidi,
fertilizzanti, diserbanti. E sono i poveri soprattutto a patire le
conseguenze di uragani, alluvioni, frane, dissesti territoriali, causati
dall'effetto serra. Sono poveri tutti coloro - un miliardo e mezzo circa -
che non hanno più acqua. Sono poveri i 45 milioni di profughi in fuga da
desertificazioni, deforestazioni, laghi e fiumi senza più pesci, villaggi
sommersi dalle acque di dighe gigantesche. Risalire alla radice della
complessa fenomenologia del danno sociale causato dal danno ecologico,
significa d'altronde imbattersi nell'impianto stesso del modello economico
neoliberista, forma attuale del capitalismo. E' quanto dicono i più
qualificati rappresentanti della scienza mondiale, che prevedono un
terrificante futuro di terre sommerse, migrazioni bibliche e guerre a catena
per il possesso dell'acqua, se l'immissione di Co2 nell'atmosfera continuerà
ai ritmi d'oggi. Ma lo dicono anche in rapporti commissionati dal governo
Usa e dal Pentagono, e da Bush accuratamente tenuti segreti o censurati. Lo
dicono agenzie al di sopra di ogni sospetto eversivo, dall'Onu alla Banca
Mondiale.

Ma non è solo per le ragioni ora illustrate che il modello neoliberista, con
tutta evidenza ecologicamente insostenibile, appare insostenibile anche
socialmente. Di solito sollevare critiche nei confronti della «crescita»
invocata come toccasana di tutti i nostri mali, significa sentirsi
rinfacciare fame miseria sottosviluppo: come superare tali iniquità se non
continueremo a produrre ricchezza? Si tende insomma a rimuovere il rischio
ambiente, o a vederlo come una sorta di «danno collaterale», prezzo
inevitabile del benessere di tutti. Dando per certo che, insistendo
nell'inseguimento del Pil, il benessere arriverà. Eppure proprio gli ultimi
decenni, che hanno registrato continuo aumento del prodotto, crescita
vertiginosa dei consumi e massima espansione dei mercarti, hanno visto anche
un drammatico crollo dell'occupazione, sfruttamento sempre più esoso del
lavoro, attacco sistematico allo stato sociale, costante aumento delle
disuguaglianze. Tra il Nord e il Sud del mondo, in primis: mentre in
Occidente i consumi salivano fino ad accaparrare l'80% delle risorse a
favore di un quinto della popolazione mondiale, i consumi medi di una
famiglia africana scendevano del 20%. Ma nei paesi più affluenti le cose non
vanno gran che meglio: riduzione dei salari, impoverimento dei ceti medi,
aumento di senza casa, senza lavoro, lavoratori-poveri.

Dire tutto questo non serve. Tenacissima è la fede in una crescita di
ricchezza di cui a ognuno toccherà prima o poi la sua parte. Non è già
accaduto a tanti? Vero. Qualcosa di simile per un lungo periodo è accaduto.
Ma il mondo è cambiato, e continua a cambiare velocemente, e non consente
più di ragionare con le categorie del passato. Non risultano convincenti le
apocalissi annunciate dagli studiosi del mutamento climatico? Ci si rifiuta
di vedere nella logica dell'accumulazione capitalistica l'aporia di
un'economia in espansione illimitata su di un pianeta che illimitato non è?
Non basta riflettere su scarsità cruciali, come acqua e petrolio, già
incombenti? Forse altre considerazioni si possono proporre. Domandandosi ad
esempio: perché tante imprese trasferiscono in terre lontane la loro
produzione, gettando sul lastrico masse di lavoratori? Non è in funzione di
più produttività, più competitività, più alto fatturato, il quale andrà ad
alimentare il Pil nazionale e quello mondiale? E non è in vista degli stessi
obiettivi che si chiede ulteriore flessibilità, orari massacranti, riforma
al ribasso delle pensioni? E come mai la Borsa di NewYork premia con un
forte rialzo delle loro azioni le imprese che riducono drasticamente il
proprio organico? Come mai insomma decisioni che colpiscono pesantemente i
lavoratori, sono in perfetta linea con il decalogo della crescita
produttiva, quella che dovrebbe garantire benessere a tutti? Siamo sicuri
che più Pil significhi meno disuguaglianze, e non invece, che proprio sulle
disuguaglianze, oltre che sulla selvaggia rapina della natura, si regga il
neoliberismo? La miracolosa Cina, da tutti portata ad esempio con il suo
+8/9 di Pil annuo, d'un tratto s'è accorta delle catastrofi ambientali che
la colpiscono e delle masse di disoccupati, migranti, contadini poverissimi,
che l'affliggono. E ha deciso di rivedere la propria strategia economica
cominciando con un drastico contenimento della crescita. Chissà se l'invito
a imparare dalla Cina vale ancora.