I: rassegna stampa: Il biologico è diventato solo un'eti chetta




a cura di AltrAgricoltura Nord Est
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tratto da "Green Planet" - 3/8/04
La stampa, 3 agosto 2004
"MANGIARE E' UN ATTO AGRICOLO" «Il biologico è diventato solo un'etichetta,
solo il ritorno all'agricoltura di sussistenza può salvarci». Incontro di
Carlo Petrini con Weldell Berry, "intellettuale" dei campi" Si moltiplicano
i meeting e le iniziative in tema di globalizzazione. Ma i soggetti più
direttamente interessati e colpiti dai suoi effetti non sono mai coinvolti
di persona; ai destini dell'umanità ci pensano politici, funzionari,
scienziati, professori. Terra Madre, il meeting mondiale delle comunità del
cibo di ottobre, vedrà invece protagonisti proprio loro, i semplici, le
classi una volta definite «subalterne». Contadini soprattutto, come Wendell
Berry dal Kentucky, che è pure grande poeta e saggista: un «intellettuale
della terra» nel più ampio senso del termine. La sua frase più famosa, che
mi piace sempre citare, è: «Mangiare è un atto agricolo».
«I consumatori urbani stanno decidendo il tipo d'agricoltura che ci
troviamo oggi e in buona parte del mondo questa è una scelta basata
completamente sull'ignoranza. L'agricoltura industriale, per dirne una, è
un'invenzione urbana. I contadini ormai sono così pochi, negli Usa meno del
2%, che non possono decidere da soli la strada produttiva da seguire. Fanno
quello che gli chiede il mercato. È quindi meglio partire subito dal
presupposto che se ci sarà spazio per una nuova agricoltura, anche questa
dovrà essere un'invenzione urbana. Bisogna che il consumatore si renda
davvero conto di che cos'è importante affinché l'agricoltura possa portare
a un panorama globale accettabile e a una produzione di cibo buono,
salutare e gustoso. Per questo in Kentucky stiamo facendo delle
associazioni che cercano di mettere insieme agricoltori e consumatori, per
farli conoscere, per stimolare una comprensione reciproca.

Lei che tipo di consumatore è, qual è il suo rapporto con la gastronomia?
Se mangiare è un atto agricolo anche coltivare deve essere un atto
orientato da principi gastronomici.
«Il mio rapporto con la gastronomia è sostanzialmente con ciò che cucina
mia moglie, che è sempre fantastico, perché noi produciamo il nostro cibo e
ci divertiamo a mangiare. Ma la gastronomia, è vero, è molto importante. I
consumatori urbani purtroppo non hanno questo rapporto immediato con del
cibo davvero buono e locale. Possono avvicinarvisi nei Farmer's Markets, i
mercati che gli agricoltori organizzano in città, o tramite la Community
Supported Agricolture, un modo intelligente e funzionale per finanziare le
produzioni agricole locali e avere allo stesso tempo cibo fresco a casa
tutto l'anno. Una delle cose più difficili rimane però aiutare i cittadini
a imparare come utilizzare i nostri prodotti una volta tornati a casa dal
mercato».

I Farmer's Markets sono il luogo eletto per il fiorente movimento del
biologico. La sensazione che mi sono fatto negli States però, visti i
prezzi cui è venduta la merce in questi eventi, è che coinvolgano un gruppo
molto elitario, di veri e propri ricchi. Non trova che ci sia il rischio di
perdere di vista l'aspetto umano e sostenibile di un tale tipo di
produzioni, formando un settore di consumo per facoltosi senza incidere
realmente sull'alimentazione di tutti?
«Il biologico oggi è diventato, come del resto era destinato a diventare,
semplicemente un'etichetta. Secondo me non è mai stato un termine buono:
infatti è sempre stato possibile avere delle monoculture biologiche che
uccidono il terreno con la sua fertilità. Non ho mai usato questa parola e
penso sia molto meglio parlare di buona agricoltura e di buon cibo: questi
termini sono troppo piatti e poco entusiasmanti per diventare degli slogan
o delle etichette. Quindi, se li usi, sei sempre obbligato a spiegare cosa
intendi: questo evita la tentazione di semplificare le cose. Mi preoccupa
già da parecchio tempo la tendenza elitaria nel biologico e nei tentativi
di produrre buon cibo. Ma l'altra parte della risposta è che in qualunque
modo si arrivi alla produzione di buon cibo è sempre meglio che niente:
quindi se i ricchi mangiano bene stanno comunque imparando qualcosa. Oggi
ci piace il pane bianco perché l'elite lo ha imposto: possiamo solo sperare
che l'elite in futuro inizi a preferire il pane integrale».

Mi hanno detto che comunque sono in corso tentativi per «democratizzare» in
qualche modo la produzione di cibo locale e biologico negli Stati Uniti. Ci
sono progetti governativi che permettono di acquistare nei Farmer's Market
con i «food stamps» dati ai più poveri e ci sono ristoranti interessanti,
non molto costosi. Penso ad esempio a quello nel Vermont dove tutto il cibo
che si serve non proviene da una distanza superiore a 100 km, è d'altissima
qualità e ha prezzi popolari.
Ma se non sbaglio lei ha criticato questo famoso locale, perché?
«Ho detto ironicamente che 100 km sono troppi, ma non intendevo criticare
il ristorante, volevo dire semplicemente che se avessimo abbastanza buoni
contadini in giro il gestore del locale non avrebbe avuto la necessità di
andare a comprare le materie prime così lontano. L'unico modo per
permettere condizioni di vita sostenibili è quello di creare una domanda
locale per produzioni locali, perché tutta questa teoria di dare accesso ai
nostri contadini al mercato globale, significa semplicemente che questi
contadini verranno distrutti. Il mantra che ci sentiamo ripetere spesso,
"bisogna competere nell'economia globale", non vuol dire altro che svendere
al minor prezzo a chiunque nel mondo. Ecco perché abbiamo un forte
desiderio per la costruzione di una partnership tra città e campagna.
Quello che stiamo cercando sono le ragioni pratiche per sostenere
effettivamente la nostra agricoltura. Noi tutti sappiamo quali sono i
vantaggi del buon cibo per il benessere dell'uomo, non ci vuole niente a
fare una lista, ma ci sono anche ragioni più pratiche, economiche e di
sopravvivenza delle comunità rurali».

Ogni realtà locale esige un approccio diverso e specifico, non c'è una
formula uguale per tutti. Bisogna lavorare con la propria diversità, che è
anche sempre la vera forza di un territorio. Quindi è fondamentale
ricostruire il ruolo e le forme delle comunità rurali. L'omologazione
lascia dietro di sé il deserto.
«Le comunità locali oggi sono diventate più consce di quello che sta
succedendo nel mondo e questo è bene; ma non è bene che ciò che conoscono
del mondo a un certo livello le distragga o le distrugga. Mentre ovviamente
sarebbe poco saggio dire che le comunità dovrebbero sapere meno di quello
che accade sul pianeta, è un disastro che conoscano sempre meno se stesse e
i loro luoghi. Sono convinto che una delle risposte è quella di stimolare
l'esigenza di cibo prodotto localmente nei consumatori urbani e nei
contadini stessi: è forse l'unico modo perché le comunità ricomincino a
capire chi sono e dove vivono».

Tra le contraddizioni cui ci pone di fronte la globalizzazione economica,
ne esiste una tra l'agricoltura sovvenzionata, che può salvare determinate
produzioni locali nel mondo ricco, in contrapposizione ai bisogni delle
economie più povere, che per colpa delle sovvenzioni non trovano vie di
sviluppo sostenibile e realizzabile.
"La situazione attuale non è certo quella ideale, siamo nel bel mezzo del
fallimento di questo modello che ha causato molte perdite, anche
irreparabili. Per i prossimi anni bisognerà essere guidati da principi
diversi. Più praticamente dobbiamo iniziare a avere un approccio che chiamo
di "adattamento locale". Si tratta di un principio che ogni specie animale
sulla terra pratica da sempre e non si vede perché la specie umana debba
essere esente da questa necessità. Nel passato l'abbiamo fatto perché non
avevamo scelta: l'agricoltura era adattata al territorio perché non c'era
nessun'altra alternativa. Ci siamo poi allontanati da questo principio
perché la natura ci ha dato carburanti a basso costo e la regola economica
è diventata: se non lo puoi prendere qui lo puoi prendere da un'altra
parte. Ma quando questo metodo non sarà più conveniente, e ci siamo vicini,
dovremo pensare di nuovo ad adattarci localmente, il che vuol dire che
dovremo di nuovo pensare a qual è il potenziale di una zona e ai suoi
limiti. Questo concetto è strettamente collegato a quello di sussistenza,
ovvero la capacità delle persone di un luogo di vivere delle loro risorse.
Uno dei fattori che ha accelerato la transizione verso l'agricoltura
industriale è stato il convincere le famiglie a rinunciare alla sussistenza
generata dalla loro piccola azienda agricola. La regola dovrebbe essere:
prima di tutto, qualunque stato o comunità deve pensare a nutrire se stesso
e solo una volta raggiunto quest'obiettivo potrà pensare ai commerci.
Dunque sussistenza prima di tutto e poi, eventualmente, il surplus, che può
essere usato per carità o commercio".

La base del capitalismo è guadagnare sul surplus, sarà duraŠ
«La base del capitalismo è il peccato! Un altro principio è quello di buon
vicinato: se hai un vicino che è povero e affamato allora gli regali del
cibo, se il vicino è affamato e ha dei soldi, glielo vendi a un giusto
prezzo. È un principio di giustizia».

Parla di carità: la donazione è un concetto molto profondo nella cultura
contadina.
«Negli anni passati, prima che l'agricoltura fosse industrualizzata così
tanto, prima che avessimo tutti questi strumenti di riduzione del carico di
lavoro, facevamo il nostro dovere all'interno della famiglia e scambiavamo
il lavoro con i vicini. Vigeva la regola che nessuno terminava il proprio
raccolto finché tutti gli altri non avevano finito il loro. Ho conosciuto
persone che erano fiere di aver lavorato in tutte le fattorie del
circondario senza aver mai ricevuto soldi: questo non è capitalismo. Al
massimo si può vedere come una forma strana di investimento: investire nel
corpo della comunità».

So che lei ha un rapporto molto particolare con la tecnologia, ha scritto
un pezzo diventato famoso contro i computer, le dà quasi fastidio usare il
telefono di casa, figuriamoci il cellulare. «Ho 69 anni e sono cresciuto
nel mezzo dell'agricoltura vecchio stile del mio paese. Era un'agricoltura
di sussistenza, la struttura sostanziale di produzione di cibo era tutta
all'interno della fattoria. Sono cresciuto con un amore molto forte per
questo modo di lavorare, ho imparato molto dai contadini del tempo, i miei
maestri. Il buon senso dice che non ci può essere una condanna a priori
della tecnologia industriale: la questione invece è che tipo di standard
dovrebbe essere usato per poterla applicare bene. Perché se le potenzialità
massime della tecnologia diventano lo standard ovunque si rovina la terra.
Invece se lo standard è la salute della terra, beh allora c'è della
speranza».

Consiglierebbe ai giovani di fare i contadini? «No, perché tanto se lo
vogliono fare lo fanno comunque. A parte le battute, ricevo tante lettere
di persone che vogliono lasciare tutto e tornare in campagna, ma io gli
rispondo "Non fatelo!" Le persone che tornano in campagna per un richiamo
superficiale sono un fallimento dopo l'altro. Secondo me il problema più
urgente è quello di riuscire a dare sostegno ai ragazzi che sono stati
allevati nelle fattorie e vogliono mollare. Ma in linea generale è molto
pericoloso dare dei consigli ai giovani. Io gli chiedo soprattutto di
imparare a conoscere le loro terre e d'iniziare a farsi delle domande
riguardo alle loro economie del cibo. Qual è la storia di una testa di
lattuga? A quale costo culturale ed ecologico è stata prodotta? Mi auguro
che riescano a capire che per poter comprendere la storia di ciò che
mangiano dovranno iniziare a mangiare prodotti locali. Spero in un processo
più naturale: se si sviluppa una domanda locale per cibo locale, allora a
quel punto le persone normali inizieranno ad avere una cognizione maggiore
sui problemi dell'agricoltura e alcuni di questi avranno una vocazione vera
per lavorarci. Una domanda forte di alimenti locali porterà a una diffusa
diversificazione produttiva che a quel punto avrà bisogno di persone che se
ne occupino: i giovani allora potrebbero avere un'alternativa reale».

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