Eluana, il Consiglio superiore di Sanità: «È eutanasia».



«Morirà per eutanasia Non della sua malattia»
 Cuccurullo: siamo di fronte a una pericolosa deriva


 DA MILANO
ENRICO NEGROTTI
 « E
luana non muore della patologia da cui è affetta, muore di fame e di se­te. Anzi viene fatta morire, quindi si tratta di eutanasia». Il professor Franco Cuccu­rullo, rettore dell’Università di Chieti e presi­dente del Consiglio superiore di sanità, è do­cente di Medicina interna e non condivide af­fatto – pur rispettandola – la serie di decisioni della magistratura che stanno portando Eluana a morire. «Parlando da medico, mi resta grande perplessità e rammarico – aggiunge –. Penso che si apra una deriva pericolosa per le persone in­capaci ».
 Professor Cuccurullo, lei ha dichiarato che l’a­dempimento delle sentenze della magistratu­ra nel caso di Eluana Englaro configurerebbe un caso di eutanasia. Perché?

 Si tratta di eutanasia perché la morte di Eluana sarebbe causata dalla sospensione di idratazio­ne e alimentazione, non dalla patologia di base dalla quale è affetta. Vede, io faccio due esem­pi: un paziente cui si interrompe un trattamen­to terapeutico o quello cui si toglie il sostegno alle funzioni vitali. Il primo caso è per esempio una persona affetta da una malattia tumorale al­lo stadio terminale. Io posso interrompere una chemioterapia che sottopone il paziente a ulte­riori sofferenze senza migliorarne le condizio­ni. In questo caso la morte che sopraggiunge è una conseguenza diretta della malattia da cui è affetto il paziente. Viceversa – è il secondo caso – se a un paziente io sospendo l’idratazione e l’a­limentazione non muore per la sua malattia, ma muore di sete e di fame. Non è la malattia che lo fa morire, il de­cesso
non è conse­guenza diretta della patologia che lo af­fligge. Muore per di­sidratazione.
 Ma qualcuno so­stiene che essendo atti medici sono a­naloghi. Non è vero?

 Torniamo al primo caso. Se sospendo un trattamento che­mioterapico a un paziente terminale di cancro che può dare solo disturbi, poi in presenza del­la
comparsa di dolori, cercherò di alleviare le sofferenze, userò farmaci antidolorifici. In altre parole, metterò in atto un trattamento palliati­vo che non risolve la patologia ma lenisce il sin­tomo. Ma se a quello stesso paziente, alleviato il dolore, tolgo l’acqua, subirà la sofferenza da disidratazione. E se per risolvere il sintomo do­lore, io somministravo un antidolorifico, per ri­solvere i disturbi da disidratazione, la soluzio­ne non è l’antidolorifico. Proviamo a immagi­nare una persona dispersa nel deserto, che vie­ne ritrovato disidratato: per lenirgli le sofferen­ze gli somministriamo antidolorifici? No, gli diamo acqua.
 Viene anche sostenuto che è ormai opportuno far riprendere il suo corso alla malattia, che è stata come bloccata dai medici quasi 17 anni fa. Non è così?

 Non è così. Eluana Englaro non morirebbe del­la sua malattia, che è in uno stato stabile. C’è u­na forte spinta vitale in quell’organismo: per fer­marla occorre sospendere idratazione e ali­mentazione. Cosa c’è di diverso dall’eutanasia, o dall’omicidio? Ruotiamo intorno a questi con­cetti, è difficile discriminare. Diverso era il caso di Piergiorgio Welby. La ventilazione meccani­ca era la terapia indispensabile alla sostenerlo nella sua malattia, che colpendo i muscoli ren­deva impossibile anche la respirazione. La so­spensione del funzionamento della macchina portava il paziente a morire della sua malattia.

 Qualcuno sostiene anche che Eluana non sof­frirebbe, perché la corteccia è totalmente com­promessa. Però nel decreto della Corte d’Ap­pello di Milano si prevede un accompagna­mento alla morte che fa uso di sedativi e an­tiepilettici. Che cosa significa?

 Siamo di fronte a grandi contraddizioni: pove­ra figlia, non è una vita che si spegne, ma che vie­ne spenta. Io non conosco le condizioni clini­che specifiche, e quindi non mi posso pronun­ciare oltre un certo limite. Posso dire che esi­stono test specifici per stabilire se un paziente avverte il dolore. In questo caso credo che la morte sopravvenga per una insufficienza rena­le legata alla disidratazione progressiva. E fino­ra questa non è la sua patologia. Ho grande per­plessità e rammarico di fronte a queste senten­ze: penso che si apra una deriva pericolosa per le persone incapaci.

 «Se a un malato di cancro che sta morendo tolgo la chemioterapia, offro comunque un trattamento palliativo, e non penso certo di smettere l’idratazione»