Frammenti di donna di Igiaba Scego




Frammenti di donna
Igiaba Scego

L’immaginario sulle donne d’Africa continua a essere spregevole. La musica, la letteratura e il cinema sono oggi le strade preferenziali per recuperare i corpi, le storie, i dolori.


Saartjie Baartman morì a Parigi nel 1815. Aveva solo 26 anni. La seppellirono in una terra straniera, senza il suo nome. Il mondo (bianco) la conosceva come la “Venere Ottentotta”. Da viva, fu esibita come fenomeno da baraccone a Londra e a Parigi; da morta, fu vivisezionata e umiliata. Un anatomista francese (quello che poi la battezzerà Venere), Georges Cuvier, si occupò in prima persona di questo compito. Era affascinato dai genitali della donna. Piccole labbra lunghe, che lui descrisse come «petali carnosi increspati».
 
«Quasi un cuore», annotò. Ma questi genitali erano per l’uomo – e per la società bianca di cui faceva parte – il segno inequivocabile dell’inferiorità dei neri e, soprattutto, delle nere. “Venere Ottentotta”, infatti, era un nome ingiurioso. Indicava un’orrida scala di valori. Ottentotto, un termine di derivazione olandese, significava “balbuziente”. I colonizzatori europei consideravano, infatti, i popoli africani dei “senza lingua”: non pensavano che quegli schiocchi e quelle torsioni gutturali fossero da prendere sul serio; non pensavano che ci fosse una logica dietro una grammatica.
 
Il termine Venere, poi, richiamava paesaggi esotici, corpi in offerta, sensualità, bestialità. Le donne erano per la società l’ultimo anello dell’evoluzione; il loro unico ruolo era servire l’uomo. Le bianche, però, erano da trattare con educazione. Erano considerate oneste, fragili, nate in un clima fresco, posate. Le nere, nella mentalità dominante, erano animali da soma, pronte alla copulazione selvaggia.
 
Saartjie, il cui vero nome si è perso per strada, fu schiacciata da questo immaginario più forte di lei, e ne morì. Le sue piccole labbra furono esposte al Musée de l’Homme, a Parigi, fino al 1975. Poi il Sudafrica post-apartheid chiese indietro le spoglie, che furono restituite solo nel 2002. La donna è tornata nella sua terra e ora guarda dalla sua piccola tomba le sorelle del suo continente e le loro lotte.
 
Oggi la storia, quella che tritura, ha portato il conto da saldare alle sorelle di Saartjie. Un conto fatto di dittatori sanguinari, multinazionali predatrici, rifiuti tossici, genocidi, guerre, strazi. A 50 anni dall’indipendenza del Ghana, l’Africa festeggia la sua libertà tra le macerie. Ma è stata vera libertà? Vera libertà da chi l’ha umiliata per secoli? Il gigante oggi sembra stare peggio di prima. Soffocato da ricatti, da malattie apocalittiche, da capi inetti. La felicità sembra aver abdicato da questi luoghi.
 
L’immaginario sulle donne d’Africa continua a essere spregevole. Quello che nel 1933 Mitrano Sani scriveva nel romanzo Femina Somala non è ancora scomparso dal sentire comune. E lo sanno bene le donne africane in Occidente. Sani fa dire al suo protagonista: «Elo non è un essere, è una cosa (…) che deve dare il suo corpo quando il maschio bianco ha voglia carnale». Elo, Saartjie, tutte erano viste come passive, senz’anima, da penetrare.
Erano il simbolo vivente dello stupro collettivo bianco nei confronti di terre sfruttabili. Avere il corpo delle donne (ieri come oggi), giocarci e possederle era anche sottolineare l’immensità del potere pallido. Immaginario, questo, che poi ha continuato a perdurare in Occidente anche dopo la fine dei colonialismi storici.
 
Se l’uomo bianco non tratta bene la donna nera, spesso nemmeno l’uomo nero tratta bene la donna nera. Si lotta duro nel continente. Con le indipendenze nazionali, le donne hanno reclamato rispetto, pari dignità, diritti. Alcune, le più forti, hanno affrontato a viso aperto le società patriarcali, le regole di tradizioni maschiocentriche. Combattendo spesso con il poco a disposizione. Anche con una radio a pile, come fa Collé Ardo del film Mooladé, opera ultima del grande Ousmane Sembène. Collé Ardo prende coscienza del dolore, del suo sesso strappato attraverso le parole di un iman alla radio. Le donne in Africa, come Collé, amano molto la radio. Amano sapere quello che succede. Vogliono informazione.
 
Conoscenza. Ed è per questo che oggi molte donne cercano modi di informare le loro sorelle. Musica, letteratura, cinema sono le strade preferenziali.
La regista senegalese Safi Faye, ad esempio, non ha mai nascosto di fare pedagogia nei suoi film e nei suoi documentari. Ha cominciato a filmare con pochi mezzi la sua Africa, senza gli occhi invasori del Nord, senza gli stereotipi molesti degli ex padroni, cercando d’interrogare chi non è mai stato interpellato, come i contadini e le tante lavoratrici. Faye dice sempre che ha cominciato a fare film per sua madre analfabeta, per farla partecipe della sua storia violata, del suo corpo oltraggiato.
 
L’intento pedagogico di Faye lo ritroviamo identico in tante altre pellicole di donne. Basti pensare al famoso Le Truc de Konaté, della burkinabé Regina Fanta Nacro. Il suo film è un divertente sguardo sui rapporti tra uomini e donne d’Africa ai tempi dell’aids. Questo dell’aids è un tema che interessa molto le donne, anche perché sono più a rischio e più esposte. Una riflessione che ha investito anche il mondo della musica. Sono tanti i testi dedicati alla questione, dal rap al raggamuffin. Ultimi arrivati, i somali-etiopici Waahaya Cusub (nuova era). Gira una loro “strana” canzone nei sobborghi di Eastleigh, la “little Mogadishu” di Nairobi. La canzone s’intitola “Cudur” (malattia) ed è stata scritta/cantata anche da voci femminili. Parla di aids in una comunità dove il sesso è un tema tabù.
 
In Africa la parola d’ordine per tutti è “recupero”. Si recuperano i corpi, le storie, i dolori, i luoghi, le note. Lo si fa per ri-raccontare un continente a sé stesso. Una donna a sé stessa.
da www.nigrizia.it

 
 
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