Tra Siria e Turchia torna lo spettro del Pkk - rivista italiana di geopolitica - Limes



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Tra Siria e Turchia torna lo spettro del Pkk

di Stefano Torelli
La repressione della rivolta in Siria ha convinto Ankara a prendere posizione contro il regime di Assad. L'ipotesi che Damasco possa far ricorso all'organizzazione armata curda in chiave anti-turca, contravvenendo agli accordi di Adana, può far precipitare la situazione.

La storia infinita dei curdi in Turchia | (Contro)rivoluzioni in corso


(Carta di Laura Canali tratta da Limes 4/2010 "Il ritorno del sultano")

La politica di vicinato in Medio Oriente intrapresa dalla Turchia negli ultimi dieci anni sotto la guida dell’Akp, ribattezzata la politica degli “zero problemi con i vicini”, da qualche mese subisce delle incrinature. Tutto è iniziato con lo strappo diplomatico con Israele; poi c'è stata la primavera araba, che ha portato Erdoğan a fare scelte dolorose ma necessarie per la posizione internazionale della Turchia, come nel caso della Libia. Ma il paese che più di tutti sta mettendo alla prova la tenuta della politica mediorientale di Ankara è senza dubbio la Siria. O, per meglio dire, il regime di Bashar al-Assad.

 

L’ironia della sorte vuole che proprio Damasco sia stato, negli anni passati, il punto di appoggio del nuovo attivismo turco in quel Medio Oriente che per decenni era stato tralasciato in nome della politica di occidentalizzazione posta in essere da Ataturk e dai suoi successori, sino alla fine della guerra fredda. Senza tornare troppo indietro nel tempo ed arrivare all’epoca bipolare, in cui Turchia e Siria facevano parte dei due schieramenti contrapposti (Ankara fungeva da bastione della Nato e dell’Occidente in chiave antisovietica, mentre Damasco era soprannominata la “Cuba del Medio Oriente” per via dei suoi legami con l’Urss), anche negli anni Novanta le relazioni tra i due paesi hanno vissuto forti momenti di tensione.


Tra i motivi principali dell’attrito vi era la strumentalizzazione dell’annosa questione curda da parte del regime di Hafez al-Assad (padre dell’attuale presidente siriano), il quale per anni avrebbe dato ospitalità e sostegno logistico e finanziario al Pkk per fare pressioni sulla Turchia ed ottenere concessioni su questioni strategiche come la gestione delle riserve idriche dell’Eufrate e del Tigri, i cui corsi nascono in Turchia e confluiscono in Siria, rappresentando per Damasco una risorsa indispensabile.


Quel capitolo delle relazioni bilaterali si chiuse nel 1998 con il cosiddetto accordo di Adana, che sancì la fine dell’appoggio di Damasco al Pkk - la Siria ospitava il capo dell’organizzazione curda Abdullah Ocalan, che subito dopo sarebbe stato arrestato in Kenya e consegnato alla Turchia - e l’inizio della collaborazione. Allo stesso tempo, da questo momento iniziò la fase cruciale di riavvicinamento tra Turchia e Medio Oriente. La Siria, come spesso accade per le questioni geopolitiche mediorientali, ha rappresentato in quel caso la pietra angolare anche per il rapporto tra Ankara e mondo arabo, senza la quale molto probabilmente la Turchia non ricoprirebbe quel ruolo di aspirante egemone regionale che invece oggi riveste.


Per arrivare agli accordi di Adana, però, ci volle la minaccia di una guerra e furono necessari i carri armati turchi schierati al confine con la Siria. Solo davanti all’eventualità di un vero e proprio scontro armato, Assad si convinse a cambiare politica nei confronti della Turchia a ad assumere un atteggiamento più conciliatorio. Atteggiamento che, negli anni a seguire, ha ripagato la Siria, che, grazie al rapporto privilegiato con la Turchia, ha potuto giovarsi di più investimenti economici, di un maggiore flusso commerciale e di un graduale reintegro nella comunità internazionale e nella diplomazia regionale.


Oggi, a distanza di più di dieci anni da quel momento di svolta, tale idillio sembra volgere al termine. Appare chiaro che non è per responsabilità della Turchia, ma più che altro per l’ostinata persistenza di Assad nel non voler apportare alcun cambiamento alla struttura politica e istituzionale della Siria. In tal modo, la Turchia ha scelto di prendere posizione, e lo sta facendo in maniera sempre più netta contro il regime, lasciando comunque intendere che sarebbe ancora disposta ad accettare una Siria con Assad al potere, purché questi dimostri di volere e di essere in grado di procedere con le riforme richieste dalla popolazione e di cessare la repressione che sta provocando migliaia di vittime.

La presa di posizione turca ha portato Damasco a irrigidirsi sempre di più nei confronti di Ankara, al punto da ipotizzare che il regime di Assad stia nuovamente mettendo sul tavolo il proprio asso nascosto, la sua vecchia carta già in passato giocata contro la Turchia: il Pkk. Il ministro degli Esteri turco Davutoğlu e il presidente Gul sono intervenuti sulla questione: hanno ammonito ufficialmente la Siria, lasciando intendere che se usasse il Pkk contro Ankara quest'ultima non starebbe a guardare.


D’altro canto, anche la Siria ha dichiarato di non voler cambiare i termini degli accordi di Adana e di ritenere il Pkk un’organizzazione terroristica. Nonostante ciò, molti avvenimenti fanno sorgere il sospetto che dietro la campagna di attacchi che ha colpito la Turchia negli ultimi mesi vi possa essere la mano di Damasco.


A far emergere tali ipotesi vi sarebbero delle coincidenze, unite ad alcune dichiarazioni da parte di membri importanti del Pkk e ad alcuni dati di fatto venuti alla luce proprio nelle ultime settimane. Prima di tutto, non si può restare del tutto indifferenti alla recrudescenza del terrorismo di matrice curda contro obiettivi militari turchi tra settembre e ottobre, proprio quando il governo di Erdoğan appoggiava la formazione del Consiglio nazionale siriano (Cns). Si è trattata di una delle ondate di attacchi più cruente dalla fine degli anni Novanta - quando, appunto, era la Siria a foraggiare la guerriglia curda. La Turchia, inoltre, ospita anche il braccio armato della rivolta siriana, il cosiddetto Esercito libero siriano (Free syrian army), formatosi proprio in questi ultimi mesi da gruppi di disertori dell’esercito regolare di Damasco.


Accanto a tali fatti, vi sono poi le dichiarazioni del numero due e attuale capo di fatto delle forze di guerriglia del Pkk, Cemal Bayik, il quale ha detto senza mezzi termini in un’intervista che, qualora la Turchia dovesse ingaggiare un conflitto armato contro la Siria, il Pkk non esiterebbe a schierarsi dalla parte del regime di Assad. In questo clima di sospetti, aumentati dalla coscienza storica di quanto la Siria abbia già usato il Pkk per propri fini politici contro la Turchia, a fine novembre sembra sia stato scoperto un vero e proprio campo di addestramento per i guerriglieri curdi del movimento.


La novità è che, rispetto alle “solite” basi nel nord dell’Iraq, questa volta si tratta di un campo che ha sede proprio in territorio siriano. Per l’esattezza alcune fonti, tra cui il quotidiano turco Zaman, parlano della presenza di circa 150 guerriglieri nella zona di Ras al-‘Ayn, nel governatorato di Hasakah, zona a forte presenza curda ai confini con il distretto turco di Ceylanpinar. Il campo sarebbe stato intitolato a Rustem Bayram, guerrigliero del Pkk ucciso in una delle incursioni aeree che l’esercito turco ha effettuato nel nord dell’Iraq (uccidendo in tutto quasi 300 membri del movimento) a seguito degli ultimi attentati degli scorsi mesi. Il campo sarebbe comandato da Fehman Huseyn, detto anche Bahoz Erdal: si tratta di uno dei fondatori storici del Pkk, di origine siriana, ideatore dell’attacco contro alcuni soldati turchi a Cucurka, lo scorso ottobre, che provocò la morte di 24 militari.


Sebbene non vi sia niente di ufficiale, insomma, la questione dell’appoggio siriano al Pkk, che sembrava del tutto terminata con gli accordi di Adana del 1998, torna d'attualità. Allora come adesso, il regime di Assad sembrerebbe in grado di colpire il tallone di Achille di Ankara, costituito da ormai quasi trent’anni dalla presenza della guerriglia curda del Pkk. Si potrebbe ipotizzare che la Siria stia mandando messaggi al governo turco con l’obiettivo di far sì che quest'ultimo desista dall'appoggiare le forze dei ribelli contro il regime di Damasco.


A differenza degli anni Novanta, però, adesso il clima in Medio Oriente è rovente; la Turchia ha intenzione di continuare a perseguire l’obiettivo di guidare la regione, anche a costo della rottura con la Siria, e la questione turco-siriana non è più bilaterale, ma potrebbe internazionalizzarsi. Date tali condizioni, l’appoggio al Pkk (se i sospetti fossero fondati), potrebbe essere una disperata mossa di Assad, ma qualora la comunità internazionale decidesse di intervenire, tale tattica non pagherebbe più e costituirebbe un motivo in più per la Turchia per appoggiare, anche indirettamente, la caduta del regime di Damasco e contribuire a insediare un governo “amico”.


La storia infinita dei curdi in Turchia | (Contro)rivoluzioni in corso

(20/12/2011)

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