due articoli sul movimento pacifista in Israele



Inoltro a seguire due interessanti articoli sul movimento pacifista israeliano.


Una volta la giustizia abitava a Gerusalemme, adesso la fanno i coloni 

di Avraham Brug

da Haaretz del 07/03/2010 (http://www.haaretz.com/hasen/spages/1154537.html)

La più grande, unificata Gerusalemme è stata fatta a pezzi. La capitale israeliana – ebrea e araba – è diventata la capitale di pericolosi e allucinati fanatici. Questa non è la città di tutti i suoi abitanti, né la capitale di tutti i suoi cittadini. È una città triste che appartiene ai suoi coloni, ai suoi Ultra-Ortodossi, ai suoi abitanti violenti e ai suoi messia.

Il profeta ha chiesto: “Come ha fatto la città della fede a diventare una meretrice! Lei che era abitata dalla giustizia, e adesso dagli assassini!” (Isaiah 1:21). Qui ancora non ci sono stati  omicidi, ma l’anima della nazione sta morendo ogni giorno davanti ai nostri occhi. Lo spirito israeliano della giustizia è stato calpestato da politici, coloni e giudici. L’anima della nazione è stata assassinata con gli eccessi di burocrazia e l’indifferenza.   

Sì, la capitale del popolo ebraico –  quel popolo che ha sempre giurato di non fare agli altri ciò che non avrebbe voluto facessero a lui - è diventata una meretrice. Moralmente lasciva, emotivamente svenduta. È manipolata dai suoi pastori per i loro stessi benefici ed è piena di leggi – tutti fanno causa a tutti, nascondendosi dietro il diritto dell’ingiustizia. E i giudici – come se fossero costretti – emettono sentenze in conformità con leggi discriminatorie, unicamente per il “popolo eletto”. Una volta la giustizia abitava qui. Adesso la fanno i coloni, assassini dell’anima della nazione.

E nessuno dice una parola, eccetto pochi patrioti. Il popolo della verità e della morale, che si rifiuta di stare a guardare mentre lo Stato dei rifugiati ebrei ripetutamente getta famiglie palestinesi sulla strada e consegna le loro povere case a delinquenti barbuti e bestemmiatori.

Queste persone integre sono la sinistra di Gerusalemme, che è passata attraverso innumerevoli scontri con la folle “sindrome di Gerusalemme”. Conoscono fin troppo bene la minacciosa verità della città, i suoi terribili adolescenti, e non si volteranno più dall’altra parte. Si sono impegnati a fermare con i loro corpi gli energumeni tedofori che cercano di appicare il fuoco.

Al momento, nessuno guida la città, né la salvezza per lei arriverà dal leader eletto del paese. Il caso di Sheikh Jarrah è oltre la conoscenza del sindaco Nir Barkat e del primo ministro Benjamin Netanyauh, come se le agitazioni non fossero affare loro, come se stessero accadendo in Sudan o a Teheran. E in mancanza di una leadership dello Stato, e di una coalizione per la pace, i nostri figli se ne sono assunti la responsabilità, scrollandosi via di dosso l’indifferenza e la disperazione, e ci hanno portati qui. Il cerchio si sta allargando, ed è pieno di vita, rabbia e speranza. L’umanesimo israeliano è rinato a Gerusalemme Est.

Stiamo lì con la calura estiva e sotto la pioggia invernale, urlando e invitando gli altri a raccogliersi intorno a noi, alla ricerca sia dello Shabbat che della pace. Non retrocederemo davanti ad ufficiali di polizia violenti o a molestatori e teste calde. Noi restiamo lì e promettiamo: non rimarremo in silenzio quando Ahmad e Aysha saranno costretti a dormire per strada, fuori dalla propria casa, diventata di dominio dei coloni. È giustizia questa? Non la nostra! No, questa è iniquità.

Gerusalemme si sta svuotando più velocemente di qualsiasi altra città al mondo. In un primo momento l’hanno lasciata i suoi facoltosi residenti, in seguito i suoi cittadini moderati hanno abbandonato la nave, seguiti dai laici e dai giovani. Molto presto non ci sarà più nessuno da lasciare lì a vivere, e la città resterà completamente sola. Le fonti di luce sono state estinte, offuscate da raggi di oscurità.

Per quanto tempo, signor Primo Ministro e signor Sindaco? E perché voi, giudici di Israele, collaborate con il diavolo che minaccia di distruggerci? Venite con noi, tornate al giudaismo del “Non rubare” e “Non uccidere”. Lasciate Sheikh Jarrah ora!

(Traduzione in italiano di Cecilia Dalla Negra)

Non è mai esistito un campo della pace israeliano

Haaretz, 7 marzo 2010

Il campo della pace israeliano non è morto. Piuttosto non è mai nato. Anche se è vero che dall’estate del 1967 vari gruppi politici radicali e coraggiosi si sono impegnati contro l’occupazione – tutti degni di stima – qui non è mai esistito un ampio, influente campo della pace.

E’ vero, dopo la guerra di Yom Kippur, dopo la prima guerra del Libano e durante i vertiginosi giorni di Oslo (oh, che giorni da capogiro), i cittadini sono scesi in strada, di solito quando era bel tempo e quando alle manifestazioni si suonava il meglio della musica israeliana, ma pochi dicevano qualcosa di decisivo o di coraggioso e ancora meno erano quelli pronti a pagare di persona per le loro attività. Dopo l’assassinio del Primo ministro Yitzak Rabin la gente accendeva candele in piazza e cantava canzoni Aviv Geffen, ma certo non si poteva parlare di un vero e proprio campo della pace.

È altresì vero che quella assunta dal cosiddetto movimento Matzpen subito dopo la guerra dei sei giorni è ormai diventata la posizione israeliana condivisa, ma sono solo parole, prive di contenuto. Niente di significativo è stato fatto sinora per metterla in pratica. Ci si sarebbe aspettati di più, molto di più, da una società democratica che ha dietro casa una così lunga e crudele occupazione e il cui governo ha soprattutto usato il linguaggio della paura, delle minacce, della violenza. In passato sono esistite società nel cui nome sono state commesse ingiustizie spaventose, ma almeno in alcune si sono avute genuine proteste di sinistra, arrabbiate e determinate, di quelle che implicano rischio e coraggio e non si limitano ad azioni all’interno del comodo consenso. Una società occupante le cui piazze sono state vuote per anni, eccezion fatta per vacui raduni commemorativi e proteste con scarsa partecipazione, non può lavarsene le mani. Né lo possono la pace e la democrazia.

Il fatto che non sia scesa in piazza una gran quantità di gente durante l’operazione israeliana Cast Lead a Gaza, dimostra che non esiste un campo della pace. Se la gente non si riversa nelle strade adesso – quando i pericoli sono in agguato e si perdono continuamente le occasioni e la democrazia riceve colpi su colpi ogni giorno e non ci sono risorse sufficienti per difenderla e la destra controlla la scena politica e i coloni accumulano sempre più potere – vuol dire che non esiste una vera sinistra.

Non c’è niente che faccia capire il triste stato della sinistra come il dibattito sul futuro del partito Meretz. È della settimana scorsa la strana e ridicola relazione sul mediocre risultato del partito nelle ultime elezioni. Il Meretz è scomparso perché ha perso la parola; non c’è bisogno di una commissione per scoprirlo. Ma anche nei suoi giorni migliori il Meretz non era un vero campo della pace. Quando plaudeva a Oslo, ignorava deliberatamente il fatto che i campioni degli “storici” accordi di pace non avevano mai pensato di evacuare anche un solo insediamento nel corso della grande “conquista” che valse ai suoi promotori il premio Nobel per la pace, sì, per la pace. Coloro che militavano da questa parte trascuravano anche le violazioni degli accordi perpetrate da Israele, la sua pace ingannevole.

Comunque, il problema affondava le sue radici soprattutto nell’impossibile adesione della sinistra al sionismo nel senso storico. Proprio come non può esserci uno Stato democratico ed ebraico a un tempo, occorre stabilire anzitutto che cosa viene prima – non può esserci una sinistra che condivida le posizioni del sionismo ormai superato, che ha costruito lo Stato ma ne ha guidato il corso. Questa illusoria sinistra non è mai riuscita a capire sino in fondo il problema palestinese – creato nel 1948, non nel 1967 – poiché non si rende conto che esso non può essere risolto ignorando l’ingiustizia fatta sin dall’inizio.

La sinistra illusoria non ha mai capito il punto più importante: per i palestinesi, accettare i confini del 1967 insieme a una soluzione del problema dei rifugiati, che comprenda il ritorno di almeno un numero simbolico di questi, sono concessioni penose. Essi rappresentano anche il solo giusto compromesso, senza il quale non sarà possibile arrivare a una soluzione pacifica; ma è insensato accusare i palestinesi di perdere un’occasione. Una proposta siffatta, anche considerando quelle “di vasta portata” di Ehud Barak e Ehud Olmert, non gli è mai stata fatta.

Il Meretz troverà certamente un qualche accordo organizzativo e tornerà ad avere una mezza dozzina di membri elettei alla Knesset, un giorno particolarmente fortunato ne avrà forse una dozzina. Ma questo non è molto. Gli altri gruppi di sinistra, sia ebrei sia arabi, restano esclusi. Nessuno sa che farsene, nessuno pensa ad accoglierli, e sono troppo piccoli per esercitare qualsiasi influenza. Non resta che dire pane al pane: Il campo della pace israeliano è ancora un bambino non nato.

Testo inglese in http://www.haaretz.com/hasen/spages/1154539.html - traduzione di Marilla Boffito