Il terrorismo, il declino, lo sgomento



Il terrorismo, lo sgomento, il declino
 
Le parole hanno un loro corso, un loro significato che nel tempo – come ogni cosa –  muta.
 
In “Nel segno della parola” BUR Saggi, 2005, il prof. Ivano Dionigi ricorda: ”Da più parti e con sempre maggiore intensità si leva corale un lamento che sembra fare l’eco all’anonimo – Del Sublime (44, 1) – sulla generale povertà dei discorsi che domina il nostro tempo: la parola oggi rischia di non esserci amica; isola e non comunica, affanna e non consola, uccide e non salva; la possiamo ritrovare chiara e distinta nella scienza oppure originaria e interrogativa nella poesia, nella filosofia e nella teologia, non però nell’esperienza quotidiana, dove – inghiottita dall’imperante legge della velocità e del delirio del fare – è ridotta a vocabolo, slogan, merce; e finisce per subire la segregazione – una vera e propria apartheid – dalla realtà, dall’altro, da noi stessi. Una delle cause principali della volgarità attuale è l’incuria delle parole; e parlare scorrettamente – diceva Platone – non è solo una cosa brutta per sé medesima, ma fa anche male all’anima. Noi scontiamo una quotidiana Babele linguistica dove le nostre parole-vocabolo smarriscono il loro volto e la loro capacità comunicativa, perché con la stessa parola indichiamo cose diverse, con parole diverse indichiamo la stesa cosa, e soprattutto alcune parole vengono impiegate e addirittura inventate per usi mistificati e false equivalenze. Si pensi ai tanti neologismi, soprattutto di ambito economico e militare, quali legge di mercato per sfruttamento, flessibilità per disoccupazione, economia sommersa per lavoro nero, guerra preventiva per aggressione, pacificatori per militari”.     
 
Le parole sono lo strumento principale di comunicazione che usiamo per capire e farci capire. 
 
Fare delle osservazioni sull’attuale utilizzo della parola “terrorismo”, così come viene usata da persone che come suol dirsi “hanno studiato”, mi fa venire da piangere. Terrorista è diventato, fra gli altri, chi - dopo aver subito una prima invasione militare sul proprio territorio, poi circa dieci anni di sanzioni durissime, e adesso sta subendo tre anni di occupazione – uccide o comunque resiste alle truppe occupanti per nome e per conto del proprio popolo, quello iracheno, peraltro appartenente a una nazione già regolarmente riconosciuta dall’Onu. 
Bene! Se questo è, l’Italia è la patria dei partigiani-terroristi che durante la II guerra mondiale uccidevano o resistevano alle truppe anch’esse di occupazione. La Costituzione, il Parlamento, il Governo, l’intero Stato italiano si basano sulla Resistenza e sulle stragi terroristiche della Liberazione partigiana. 
Se invece non è così, allora le categorie dei Ministri, Politici, Militari, Giornalisti, ecc., risultano composte da persone che nella loro stragrande maggioranza sono ignoranti oppure in mala fede. Ma forse si può pensare che nel contempo siano sia ignoranti che in mala fede? Quello di cui personalmente e collettivamente si rendono protagonisti tali Signori sarà sì giudicato dalla storia, che studierà gli eventi con materiale documentario, ma noi dobbiamo operare affinché ci siano anche le condizioni per farli giudicare equamente da legittimi tribunali nonché dall’opinione pubblica, augurandoci così per loro una lunga esistenza.
Nel frattempo, sappiamo ormai che attribuire la qualifica di terrorista all’avversario contiene in sé anche lo scopo di liberarsi preventivamente e automaticamente di ogni propria colpa e qualsiasi “eccesso”. Vuol dire inoltre provare a mettere una popolazione contro i propri resistenti, dandogli un carattere di massima pericolosità e inaffidabilità, spesso imputando ai leader qualità personali negative con il fine di delegittimarli agli occhi della stessa opinione pubblica irachena e mondiale.  
 
Passando alla parola “sgomento”, va notato che è quella che sentiamo ultimamente riferita alla morte dei tre militari italiani in Iraq. Nelle sue unità di misura, la guerra in Iraq ha causato: qualche decina di morti fra i soldati italiani, qualche migliaio fra gli statunitensi, alcune decine di migliaia fra gli iracheni (inoltre qui si tratta in gran parte di civili...). Mi sembra che – in ogni caso - i morti sono morti. Meritano il rispetto di ognuno anche se ognuno è nel contempo chiamato nel suo piccolo a ragionare con la propria testa. A questo punto, utilizzare il termine sgomento a seguito della morte dei militari italiani, mi fa chiedere quale parola si debba usare in altre pur luttuose occasioni. Ad esempio, quando si viene a sapere che muoiono degli iracheni – magari massacrati come a Falluja - quale sentimento provare? E ancora, quando accade che un bambino muore, in qualsiasi posto del mondo e per qualsivoglia motivo più o meno conosciuto, che parola si deve usare? Qual è quella più adatta? Io non la conosco più. Ditemela, per favore.         
 
Concludo con la parola “declino”, inteso come quello di una Nazione, l’Italia oppure come quello di un Impero, capitalistico-statunitense. Basti pensare che i cittadini Usa vivono nella tristezza di una finta democrazia, dinastica; per loro non c’è nemmeno più lo sfizio della parvenza di un ricambio. Qui in Italia, abbiamo un palese declino economico che si accompagna a uno istituzionale e culturale. E’ necessario quindi impegnarsi coscientemente - giorno dopo giorno - a non fornire valide idee a chi difende lo statu quo, a non rimettere nel circolo produttivo neoliberale le rendite finanziarie, a non muovere la matita su una scheda per tenere nella sua perenne vita vegetativa la Costituzione italiana, a non partecipare all'innovazione degli altri, ecc. Nel contempo – per quanto ce lo si lasci fare – pensare a costruire. Per intanto, portare sulle spalle la responsabilità e il dovere di creare altro, con calma e decisione.         

Argomentava Adam Smith: Ci sono società più o meno intergrate; con più o meno norme di solidarietà e reciprocità. Regole a garanzia di giustizia che si fondano sul consenso.

Oggi invece c'è il mercato da solo, senza legittimità. Ognuno è sempre più spinto alla responsabilizzazione in termini di autosufficienza produttiva e, quindi, non vengono più considerati i fattori della reciprocità e della redistribuzione. Dei tre meccanismi di regolazione dell'attività economica, col tempo ci è rimasto solo il mercato. 
La reciprocità che con obblighi di solidarietà e appartenenza non ha una motivazione utilitaristica, si identifica con la rete di obblighi sociali come nell'antichità. Oggi, la reciprocità è stata ridotta al volontarismo.
La redistribuzione che con lo Stato definisce le regole di condotta, era nata con il bisogno di regolare la disponibilità d'acqua, dove l'impero egiziano dettava centralmente le disposizioni dell'organizzazione economica del territorio allo scopo di incamerare le risorse per poi redistribuirle. La redistribuzione è ormai invece una mancia, che si dà quando ci sono favorevoli condizioni.
Poca efficienza e la finzione di poter disporre del consenso, producono al giorno d'oggi lo sviluppo e la società che viviamo. 

C’è chi ritiene che la nuova maggioranza di centrosinistra possa operare in qualche modo nella  direzione giusta. Per quanto mi riguarda - dopo aver ascoltato Romano Prodi affermare che la costituzione dei gruppi parlamentari dell'Ulivo vuol dire aver “raggiunto l’obiettivo di uno strumento forte” - io mi chiedo: quando verranno fuori dei “contenuti”, dei “valori”, delle “passioni” degne del significato di tali ultime parole? 
 
2/5/6 – Leopoldo Bruno