[Nonviolenza] La biblioteca di Zorobabele. 12



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LA BIBLIOTECA DI ZOROBABELE
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Segnalazioni librarie e letture nonviolente
a cura del "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo"
Supplemento a "La nonviolenza e' in cammino" (anno XXII)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: centropacevt at gmail.com
Numero 12 del 6 marzo 2021
 
In questo numero:
1. Claudia Mancina: Miriam Mafai
2. Adolfo Scotto di Luzio: Mario Lodi
3. Alcune pubblicazioni di e su George Jackson
 
1. MAESTRE. CLAUDIA MANCINA: MIRIAM MAFAI
[Dal Dizionario biografico degli italiani (2016), nel sito www.treccani.it]
 
Miriam (propr. Maria) Mafai nacque a Firenze il 2 febbraio 1926. Il padre Mario fu un importante pittore, membro e animatore della Scuola romana. La madre, Antonietta (Antoinette) Raphael, ebrea lituana, fuggita bambina dai pogrom e arrivata a Roma dopo aver prima vissuto con la madre a Londra e poi, dopo la morte di questa, a Parigi, fu anche lei pittrice e musicista, ma soprattutto scultrice. Si incontrarono a Roma all'Accademia delle belle arti, in via Ripetta. Lei, di qualche anno piu' grande, aveva la cittadinanza inglese che perse quando, il 20 luglio 1935, sposo' Mafai (fino ad allora le figlie – oltre a Miriam, Simona, nata nel 1928, e Giulia, nel 1930 – avevano portato il cognome della madre).
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Formazione
Ha scritto, nella biografia incompiuta, di essere nata "sotto il segno felice del disordine" (Una vita, quasi due, a cura di S. Scalia, Milano 2012, p. 17). Ma il segno di questa famiglia fuori dalle regole era anche quello dell'arte, del cosmopolitismo, dell'anticonformismo, in politica come nella vita quotidiana. Le bambine Mafai erano singolari in molti modi: ne' ebree ne' cattoliche, festeggiavano le ricorrenze delle due religioni in allegro sincretismo, e celebravano un loro speciale rito del venerdi', accendendo le candele della menorah e leggendo poesie; erano antifasciste e insensibili alla retorica imperiale dell'epoca; soprattutto erano figlie di due artisti. L'arte non portava tuttavia nelle loro vite una lezione di leggerezza o di scapigliatura. Al contrario, era una lezione di coerenza e rispetto di se', di passione del lavoro, che comunico' alle bambine l'orgoglio della loro diversita', nonostante il senso di isolamento talvolta provato in classe. Nel 1938, pero', quella diversita' divento' un pericolo. Le leggi razziali schiacciarono le ragazze Mafai su una sola faccia della loro composita identita': quella ebraica. Scoprirono di essere ebree, indipendentemente dalla loro scelta. Le due piu' grandi, Miriam e Simona, dovettero lasciare i banchi del ginnasio, mentre Giulia, ancora alle elementari, fu messa in una classe speciale. Miriam provo' a imparare l'ebraico e sostenne il bar-mitzvah: "per puntiglio, per dignita', per orgoglio" (ibid., p. 39). Ma presto la famiglia abbandono' Roma, mentre l'ambiente intellettuale del quale aveva fatto parte si disperdeva. Dopo un periodo a Viareggio, nell'inverno 1939 si trasferirono a Genova (precisamente a Quarto). Li' Miriam visse l'esperienza della guerra: i bombardamenti, le macerie dei palazzi, i cadaveri. Ma anche l'esperienza del mare e quella dell'adolescenza: le letture, gli amici, la scuola (era riuscita, nonostante le leggi razziali, a iscriversi al prestigioso liceo Andrea Doria). Come molti italiani della sua generazione, durante la guerra Miriam – e con lei la sorella Simona – divento' comunista, per desiderio di giustizia sociale e per l'ammirazione suscitata dall'eroica resistenza sovietica all'invasione nazista. Comincio' cosi' la sua storia d'amore con il Partito comunista italiano (PCI).
Il 30 agosto 1943 la famiglia torno' a Roma. Pochi giorni dopo, l'armistizio e l'occupazione della citta' da parte delle truppe tedesche di Albert Kesselring. Miriam ha raccontato come si mise in contatto con i comunisti. Insieme a Simona frequentava la Biblioteca nazionale, allora ospitata nel Collegio romano, l'antico collegio dei gesuiti nei pressi di piazza Venezia. Li' conobbero un giovane che era assistente del regista Luchino Visconti e che le mise in contatto con una persona che aveva l'autorita' di ammetterle nell'organizzazione clandestina del partito. Le due sorelle cominciarono a distribuire materiale proibito, volantini e soprattutto il giornale l'Unita'. Intanto facevano l'apprendistato comunista, partecipando a manifestazioni di studenti o di donne per il pane. L'impegno politico divento' ancora piu' totalizzante dopo la liberazione di Roma, tanto che Miriam, prima intenzionata a iscriversi ad agraria, decise di rinunciare all'universita'.
Alla fine del 1944 lascio' insieme a Simona la casa dei genitori, per andare a vivere in una casa del partito, che ospitava varie compagne e compagni. Dira' piu' tardi: "non sapevo che sarei entrata in una famiglia assai piu' esigente e severa di quella che lasciavo" (ibid., p. 78). Simona lavorava come dattilografa per il partito, Miriam per la Commissione alleata di controllo. Risale a questi anni un episodio poco conosciuto della sua vita: il breve matrimonio con Ugo Naxon, un ebreo egiziano arrivato a Roma con l'esercito inglese, sposato in sinagoga nel 1945, ma che mori' tragicamente poco dopo.
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Professione rivoluzionaria
Dopo un passaggio con Mauro Scoccimarro al ministero delle Finanze e poi al ministero dell'Italia occupata, Miriam divento' funzionaria del partito e come tale partecipo' alla campagna elettorale del 1948, facendo comizi in Basilicata. Di quella campagna le resto' il ricordo della spaventosa miseria dei Sassi di Matera, ma soprattutto del senso di solitudine e di incomunicabilita' provato nel parlare a piazze vuote, o, se c'era un contatto con le donne, nel rendersi conto che, come lei non le capiva, anche loro non potevano capire cio' che diceva. Da quella postazione non era possibile farsi illusioni sull'esito delle elezioni (ibid., p. 105). La sconfitta fu totale e dolorosa; ma proprio percio' lasciare il PCI, anche per riprendere gli studi, appariva impossibile. Accantonata ormai definitivamente l'idea dell'universita', Miriam si mise a disposizione del partito, che la mando' in Abruzzo, dove conobbe e sposo' nel 1949 Umberto Scalia, segretario della federazione de L'Aquila. Dopo un periodo passato alla direzione della scuola di partito di Milano, durante il quale (nel 1949) nacque il suo primo figlio, Luciano, torno' a L'Aquila nella primavera del 1950 (la seconda figlia, Sara, nacque a Roma nel 1953). Ebbe allora inizio l'esperienza politica alla quale rimase piu' legata: la partecipazione alla lotta dei contadini del Fucino, feudo dei principi Torlonia, per la riforma agraria. Molti anni dopo dira' che, se la parola rivoluzione ha un senso, e' questo: vincere la battaglia contro il principe Torlonia e portare i bambini di quei contadini ad avere le scarpe, andare a scuola, mangiare la carne. E non importa se poi quei bambini sono diventati democristiani (Il silenzio dei comunisti, Torino 2002, p. 17, con Vittorio Foa e Alfredo Reichlin).
Il rapporto con il Partito comunista, che del resto continuo' ben oltre l'esperienza del funzionariato, e' stato descritto da Miriam con toni quasi elegiaci, e tuttavia critici, in un volume del 1996. Il partito era un universo nel quale si trovava di tutto, dal fabbro al medico all'elettricista, ma soprattutto era una grande famiglia, attraversata da sentimenti e legami forti. Ma, come in tutte le famiglie, "un'improvvisa indiscrezione o un inspiegabile silenzio facevano intravvedere l'esistenza di un segreto, di una macchia, forse di un peccato" (Botteghe oscure, addio. Come eravamo comunisti, Milano 1996, p. 28). Un segreto, un peccato, che furono improvvisamente rivelati nel 1956, dal rapporto segreto di Nikita S. Chruscev, che denuncio' i crimini e le degenerazioni dello stalinismo. I dirigenti comunisti, che ebbero l'umiliazione di conoscerlo dal New York Times, si trovarono nella scomoda situazione di chi era stato complice o connivente. Fu per lei, come per tanti, uno shock, e probabilmente l'inizio di un processo critico e autocritico. Il saggio del 1996 e' particolarmente interessante perche' si colloca sul crinale tra passato e futuro. Guardando indietro, Miriam interrogava e ricostruiva la sua memoria del PCI sulla base dei problemi dell'oggi. Due anni prima Achille Occhetto si era dimesso e Massimo D'Alema aveva vinto la sfida con Walter Veltroni. Era una fase nuova del Partito democratico della sinistra (PDS), nella quale si programmava l'abbandono del grande palazzo rosso. Miriam si chiedeva che cosa sopravvivesse del PCI, che cosa fosse stato trasmesso ai suoi eredi. La sua risposta era, in questo libro, di un ottimismo quasi sorprendente: "C'e' un patrimonio politico, morale e culturale che sopravvive, come sopravvive il desiderio di rifiutare l'ingiustizia, di difendere i deboli, di cambiare, se non il mondo, almeno la nazione in cui viviamo, o magari soltanto la nostra citta' o il nostro quartiere. [Una eredita'] non tanto povera, non tanto piccola, affidata a coloro che lasciano le Botteghe Oscure per costruire la nuova casa" (ibid., pp. 149 s.). Questa eredita' consisteva a suo parere in tre caratteristiche, che avevano fatto la specificita' e la forza del Partito comunista: anzitutto la capacita' di produrre idee e proposte su tutti i problemi del Paese; in secondo luogo la capacita' organizzativa, intesa come capacita' di dar corpo alle decisioni politiche, diffondendole nell'opinione pubblica; infine la capacita' di selezionare i dirigenti, con un uso intelligente del metodo della cooptazione.
Tuttavia, quello stesso partito aveva grandi colpe, troppo a lungo negate: la rigidita' ideologica, la mancanza di dialettica politica, la presunzione di superiorita', la fiducia cieca di avere la storia dalla propria parte, la durezza verso gli avversari e ancor piu' verso i propri iscritti, il legame di ferro con l'URSS, non solo politico ed economico ma ideale e morale (fino al punto di avere "due patrie", ibid., p. 106), la conseguente omerta' sulle repressioni staliniane e sulla perdurante mancanza di liberta' in quel Paese e negli altri Paesi dell'Est. Per questo era un'esperienza che doveva essere chiusa.
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Il mestiere di giornalista
Nel 1956 Umberto Scalia fu mandato dal partito a Parigi, per tenere i rapporti con il Partito comunista francese, e Miriam – forse anche in seguito allo shock del rapporto Chruscev? – decise di seguirlo, dimettendosi dal suo ruolo di funzionaria e diventando corrispondente di Vie nuove, settimanale di area comunista. Inizio' cosi' la sua seconda vita, quella della giornalista. Senza dubbio la piu' importante, quella in cui sviluppo' pienamente e liberamente la sua creativita'. Ma il suo legame con la politica comunista resto' fortissimo. Caratteristico del rapporto di Miriam con il partito, pur nella piena adesione, fu sempre l'assenza di rigidita' e di conformismo. Essere comunista per lei non aveva niente di teorico, ma significava aderire a un progetto di modernizzazione e di liberta'. Aveva un forte senso di appartenenza, ma contemporaneamente era libera. Il mestiere di giornalista le consenti' di coltivare la liberta' senza negare l'appartenenza. Molto piu' tardi, in un volumetto apparso nel 1986, descrivera' cosi' le caratteristiche necessarie al mestiere: "una grande curiosita' per le persone e i fatti, l'attitudine a cogliere subito gli elementi essenziali di una situazione e insieme tutti i suoi particolari, la rapidita' di apprendimento, di comprensione e di giudizio, una notevole sicurezza di se', la capacita' di ispirare fiducia e stabilire legami, una naturale tendenza alla produttiva superficialita' (sapersi appassionare ad un argomento per breve tempo, scriverne e dimenticarlo subito dopo)" (Il giornalista, Roma-Bari 1986, p. 19). Una descrizione che e' anche un autoritratto. Il suo giornalismo fu vivace, autonomo, brillante, ma anche molto investigativo, amante della cronaca e delle inchieste.
Dopo Vie nuove, passo' a l'Unita', di cui fu cronista parlamentare, ma presto lascio' anche questo giornale per Noi donne, settimanale dell'Unione donne italiane (UDI), che diresse dal 1964 al 1969. Nel frattempo si era separata dal marito e aveva iniziato una relazione con Giancarlo Pajetta che duro' sino alla morte di lui, nel 1990. Nel 1970 fu assunta come inviata da Paese Sera, importante quotidiano romano. Ma il giornalismo fiancheggiatore del PCI le stava ormai stretto. Quando Eugenio Scalfari comincio' a lavorare alla fondazione di un nuovo quotidiano, si butto' senza esitazioni nell'impresa. Fu quindi tra i fondatori de La Repubblica, che comincio' la sua fortunata avventura il 14 gennaio 1976, e ne fu sino alla fine una delle firme piu' rappresentative, dotata di grande notorieta' e autorevolezza, amatissima dal pubblico dei lettori e delle lettrici. Il volume Diario italiano, 1976-2006 (Roma-Bari 2006) raccoglie gran parte degli articoli pubblicati sul quotidiano romano, per il quale si occupo' soprattutto – ma con frequenti puntate nei temi sociali – delle vicende politiche dei due maggiori partiti. Fu presidente della Federazione nazionale della stampa italiana dal 1983 al 1986. La sua eccellenza nella professione le valse numerosi premi e riconoscimenti, tra i quali il premio Saint-Vincent nel 1964, il premio Ischia nel 2002, il premio Montanelli nel 2005. Nel 2003 fu insignita dal presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi dell'onorificenza di Grande ufficiale al merito della Repubblica italiana.
La sua attivita' giornalistica fu accompagnata da una intensa produzione pubblicistica. Entrambe ebbero due fuochi principali: la politica, soprattutto ma non solo a sinistra, e l'emancipazione femminile.
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Dalla parte delle donne
Miriam ebbe sempre un'attenzione particolare, anche se mai scontata e mai banale, per quella che un tempo si chiamava la questione femminile. Questo fu per lei non soltanto un campo di interesse e di indagine, ma un punto di vista da cui guardare la politica e anche la storia del Paese. Due suoi libri sono dedicati al ruolo delle donne nella guerra e nel dopoguerra. Nell'Apprendistato della politica (Roma 1979), osservo' il modo diverso che hanno avuto le donne di fare politica in una fase molto difficile, il secondo dopoguerra, che era pero' anche una fase di ricostruzione dei partiti e della politica stessa: "Ci furono quindi fin dall'inizio due modi diversi di fare politica, e il secondo – l'intervento nella dimensione quotidiana dell'esistenza – fu certo patrimonio delle donne, che vi si impegnarono con una concreta, quasi avida volonta' di fare di soccorrere di organizzare, con uno slancio e una passione che le videro protagoniste di un movimento di solidarieta' quale non si e' piu' manifestato nel nostro paese. Fu questo il primo modo specifico in cui le donne si presentarono sulla scena politica nazionale" (p. 37). Non si tratta pero' della solita notazione sulla naturale concretezza delle donne. Miriam vedeva in questo stile femminile una scelta precisamente politica, coerente con l'impostazione togliattiana del partito nuovo, aperto alla societa' e attento a cercare soluzioni ai problemi del Paese. In questo senso sottolineo' l'importanza data al lavoro tra le donne da Togliatti sin dal suo primo discorso pubblico, nel maggio 1944, e vide la scelta del leader comunista per il voto alle donne come un passaggio necessario, anche se rischioso, del radicamento del PCI nell'Italia del dopoguerra. Questa resto' sempre la sua interpretazione della politica delle donne, che vedeva profondamente connessa, con la sua specificita' e la sua autonomia, alla politica generale. Questo sguardo femminile, ma non settoriale, trova la sua espressione piu' felice in Pane nero. Donne e vita quotidiana nella seconda guerra mondiale (Milano 1987): un libro a meta' tra storia e inchiesta, dedicato alla vita quotidiana durante la seconda guerra mondiale, e dunque alle donne che della vita quotidiana sono protagoniste. Un libro che racconta quella guerra terribile attraverso parole e ricordi di donne, trasmettendoci l'idea che e' questo il punto di vista migliore, quello che fa capire di piu', che da' il senso di una guerra combattuta nelle retrovie, nelle file per il pane e nelle lotte sotterranee per la sopravvivenza e contro il regime; una guerra irregolare e feroce, e tuttavia "una storia di donne e di bambini" (p. 187). Sempre pronta a promuovere il protagonismo delle donne, Miriam fu pero' lontanissima da atteggiamenti lamentosi e autocommiserativi. Vide nelle donne, nonostante tutti i problemi e le difficolta', un soggetto forte, capace di migliorare la propria vita con il lavoro e l'impegno politico; capace di guidare la vita sociale, come aveva fatto durante la guerra. Per il femminismo differenzialista, che ebbe una certa egemonia nella sinistra tra gli anni Ottanta e Novanta, nutri' molte riserve e una sostanziale diffidenza, vedendovi un atteggiamento utopistico e ideologico che impediva il riformismo e le ricordava il massimalismo delle prime fasi del movimento operaio. Nella polemica delle femministe differenzialiste contro l'uguaglianza sentiva l'eco di un pensiero marxista e leninista che il movimento comunista aveva a fatica lasciato dietro di se'. "Dopo aver rifiutato Lenin, perche' dovrei oggi giurare su Luce Irigaray?" (Le vedove di Lenin e la deriva femminista, in Micromega, VII (1990), 15, pp. 7-15, in partic. p. 10). E mentre non condivideva la tesi dell'estraneita' delle donne alle regole e ai comportamenti della politica, riconosceva senza esitazione il mutamento culturale indotto dalla loro presenza nella vita pubblica (Il morso della mela. Interviste sul femminismo, Rionero in Vulture 1993, con Ginevra Conti Odorisio e Gianna Schelotto). Nonostante le sue non taciute e severe critiche, fu sempre solidale con le donne e disponibile a farsi coinvolgere in corsi, seminari, dibattiti, senza risparmio. La sua ultima uscita pubblica, a pochi giorni dalla morte, fu una lezione in un corso di formazione politica femminile.
Mettersi dal punto di vista delle donne ebbe un effetto non secondario nel suo modo molto particolare di essere comunista. Derivarono anche da qui un certo tratto scanzonato e irriverente, un'autonomia di giudizio, una capacita' critica, che spesso le impedirono di cadere nella trappola dell'ideologia o del luogo comune di sinistra, come quando denunciava nei movimenti del Sessantotto "una componente di tipo luddista, antimodernizzatrice, pauperista" (Il silenzio dei comunisti, cit., p. 34). Memorabile la sua risposta critica a Pier Paolo Pasolini, che lamentava la scomparsa delle lucciole: "Il tempo delle lucciole era per me il tempo in cui le donne andavano a lavare i panni al fiume" (ibid.). Un tempo che una donna non poteva rimpiangere: e dunque non poteva non essere dalla parte della modernizzazione.
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Essere comunista
La sua attivita' pubblicistica fu in gran parte rivolta ad analizzare la storia, i problemi, le crisi di identita' del Partito comunista. Oltre ai moltissimi interventi sulla stampa quotidiana, diversi libri testimoniano la mai sopita passione per il partito che era la sua seconda famiglia. Due di questi hanno la forma di biografie: L'uomo che sognava la lotta armata. La storia di Pietro Secchia (Milano 1984) e Il lungo freddo. Storia di Bruno Pontecorvo, lo scienziato che scelse l'Urss (Milano 1992). Ma la forma biografica, soprattutto nel primo caso, non esaurisce affatto il senso dell'opera. Il libro su Pietro Secchia e' in realta' un saggio politico sulla formazione del "partito nuovo", cioe' sul cambiamento radicale di strategia – e di identita' – imposto da Togliatti al Partito comunista al momento del suo rientro in Italia, dopo il lungo e periglioso esilio moscovita, e sulle tenaci resistenze da lui incontrate. E' particolarmente interessante leggere questo saggio insieme a Pane nero: da ambedue traspare una piena consapevolezza del significato dell'impresa togliattiana, che ha fatto del PCI un partito completamente diverso dagli altri partiti comunisti, destinandolo cosi' ai suoi successi, ma anche alle contraddizioni che ne hanno poi segnato la fine. Il libro su Secchia mette in rilievo anche la forza del filone insurrezionalista interpretato da lui e inizialmente dallo stesso Luigi Longo; un filone da Togliatti sconfitto ma non domato, tanto da riemergere negli anni Settanta nelle organizzazioni terroristiche. Il volume su Bruno Pontecorvo e' animato da un autentico interesse per le motivazioni personali della scelta del fisico italiano, per le sue riflessioni ed emozioni durante i lunghi anni passati in Unione Sovietica, in condizioni privilegiate ma anche con restrizioni della liberta' impensabili per un occidentale. Ma la domanda finale a Pontecorvo, se si sia pentito, resta in realta' senza risposta: pur non potendo vanificare il senso della sua intera vita, lo scienziato appare confuso, incerto, perfino sgomento di fronte alla subitanea fine dell'URSS. In questo sgomento si esprime un interrogativo che non inquieta solo il protagonista del libro ma tutti coloro che, "con impavido ottimismo, cieca innocenza e una fiducia che sfidava ogni ragione" (Il lungo freddo, 1992, p. 6), hanno condiviso il sogno del comunismo.
Storia del PCI e sogno del comunismo sono i due temi, strettamente intrecciati, al centro di tre libri che hanno avuto grande risonanza: il gia' citato Botteghe oscure, addio. Come eravamo comunisti, Dimenticare Berlinguer. La sinistra italiana e la tradizione comunista (Roma 1996) e, infine, Il silenzio dei comunisti, che ha avuto anche una fortunata versione teatrale, messa in scena da Luca Ronconi. Tre titoli che raccontano in modo chiaro come Miriam fu una delle pochissime persone che, dopo aver vissuto una piena esperienza di comunista, sono poi state capaci di chiudere quell'esperienza con totale e limpida convinzione, senza minimamente cedere alla tentazione di guardare indietro, e nello stesso tempo senza mai rinnegarla. Il suo Botteghe oscure, addio mette in scena una cerimonia degli addii di stile cechoviano, con grande tenerezza per il PCI, per il suo sogno politico e nostalgia soprattutto per il ricchissimo ambiente umano, per la moralita' dei rapporti che il partito aveva creato. Ma l'autrice di quel libro cosi' commosso non pensa neanche per un momento che si debba tornare indietro ne' per un momento dimentica o sottovaluta il carico di errori e di contraddizioni che ha contrassegnato quella storia.
Dimenticare Berlinguer e' un bilancio molto critico dell'eredita' politica del leader che piu' di ogni altro ha incarnato le contraddizioni del Partito comunista. Un libro estremamente coraggioso e lungimirante. L'inchiesta, come la defini', e' non tanto su Enrico Berlinguer quanto sul rapporto con la sua eredita'. Anche in questo caso, l'analisi e' mossa dai problemi del presente. E cioe' in primo luogo dalla evidente incapacita' dell'allora PDS di affrontare un bilancio critico della sua storia passata e in particolare di quel pezzo cosi' importante che e' stato il non lungo regno di Berlinguer, segretario del PCI per dodici anni (1972-84), durante il quale il partito ha toccato il massimo dei consensi e insieme il massimo dell'isolamento e dell'impasse politica. Miriam vide in Berlinguer un uomo insieme antico e moderno: antico, per il suo legame con la tradizione, per il suo attaccamento all'unita' del gruppo dirigente, ma insieme moderno, per il suo modo solitario e innovativo di interpretare la leadership; schivo e riservato, ma insieme straordinario comunicatore, uno dei primi protagonisti della politica spettacolo. E dunque il leader che aveva spinto al massimo le possibilita' espansive del PCI, fino a incontrare il punto limite, oltre il quale non c'era che da cambiare strategia e anche identita'. Dopo Berlinguer, doveva cominciare una nuova storia, quella delle formazioni postcomuniste, della quale Miriam fu ancora partecipe, tra l'altro ricoprendo un mandato parlamentare alla Camera dei deputati, nella legislatura del 1994-96, eletta nella lista di Alleanza democratica.
Negli ultimi anni fu molto critica con gli imbarazzi e le ambivalenze dei postcomunisti; denuncio', rispondendo senza reticenze alle dure domande di Vittorio Foa (ne Il silenzio dei comunisti), la cattiva coscienza e l'incapacita' di fare i conti con la propria storia da parte di chi era stato comunista. Aveva troppo senso della realta' per non condividere la necessita' che il PCI diventasse un'altra cosa, si aprisse, facesse un tuffo nella modernita' e nella democrazia. Aveva la lucidita' di capire che il mondo era definitivamente cambiato; e che in un mondo cambiato l'eredita' non frutta da se', ma bisogna saperla mettere a frutto. Avrebbe voluto pero' una politica piu' coerente e coraggiosa. Soffri' i fallimenti politici delle nuove formazioni della sinistra e non trovo' convincente la sintesi di tradizione comunista e tradizione cattolica operata dal Partito democratico (PD), che le ricordava l'infelice unificazione tra socialisti e socialdemocratici, nel 1966. Rimase pero' sino in fondo una donna di sinistra, nonostante la delusione. Delusione, ma non sfiducia. Aveva fiducia che una nuova sinistra sarebbe venuta, anche se forse non piu' da quel ceppo antico. Perche', come scrisse, l'ottimismo e la fiducia nel futuro erano il suo difetto principale.
Mori' a Roma il 9 aprile 2012. Le sue ceneri riposano nel cimitero degli acattolici della citta'.
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Opere
Oltre a quelle citate nel testo: Roma cento anni fa, Roma 1973; Lombardi, Milano 1976 (2a ed. Riccardo Lombardi. Una biografia politica, Roma 2009); Il sorpasso. Gli straordinari anni del miracolo economico, Milano 1997. Ha intoltre curato Le donne italiane. Il chi e' del '900, Milano 1993.
Sul sito www.miriammafai.it si trovano tutti gli articoli pubblicati da Miriam Mafai. Sullo stesso sito sono presenti gli articoli pubblicati in occasione della sua morte.
 
2. MAESTRI. ADOLFO SCOTTO DI LUZIO: MARIO LODI
[Dal Dizionario biografico degli italiani (2015), nel sito www.treccani.it]
 
La famiglia
Mario Lodi nacque a Piadena, in provincia di Cremona, il 17 febbraio 1922 da Ferruccio e da Maria Morbi, primo di tre fratelli (Fausto, di un anno piu' giovane; Sergio, nato nel 1935). Suo padre era socialista, sua madre una casalinga cattolica.
Crebbe in una famiglia di condizioni molto modeste.
Piccolo impiegato di un'officina meccanica che produceva attrezzi agricoli, la Girelli di Piadena, il padre era stato sergente di artiglieria durante la prima guerra mondiale e assessore socialista nel primo dopoguerra. Nel 1932 fu lambito dalle indagini sull'attivita' antifascista a Piadena, che portarono all'arresto di alcuni lavoratori della Girelli accusati di far parte del movimento comunista locale. Fu percio' iscritto nell'indice dei sovversivi della Questura di Cremona e sottoposto a vigilanza politica. Tuttavia le preoccupazioni del padre di famiglia dovettero prevalere in lui sull'antica militanza socialista, se gia' nel 1935 il podesta' di Piadena scriveva al prefetto di Cremona per perorare la causa di Ferruccio in occasione della sua richiesta di rinnovo di una licenza per il porto di un fucile, sostenendo addirittura che le accuse contro di lui fossero dovute a uno scambio di persona, e per questo prendendosi una reprimenda del prefetto. Nel 1936, un rapporto dei carabinieri di Casalmaggiore ne accertava l'iscrizione ai sindacati fascisti della categoria industria e al dopolavoro di Piadena. Da un rapporto successivo risultava anche che piu' volte Ferruccio aveva chiesto l'iscrizione al Partito nazionale fascista (PNF), senza che la domanda venisse accolta. Nel 1937, poi, il segretario locale del Fascio scriveva alla Questura per assicurare che dal 1933 in avanti Ferruccio Lodi aveva "sempre tenuta ottima condotta politica" e, tra i meriti, citava Mario, il primo dei suoi tre figli, "che si distinse per la sua fede ed ebbe la Croce al Merito dell'Opera Balilla" (Archivio di Stato di Cremona, Questura di Cremona, Indice dei sovversivi, b. 75, f. 1768; M. Lodi, Il corvo, Firenze 2001, p. 21). Dal fascicolo dell'Indice dei sovversivi sia lui che il fratello Fausto risulta fossero iscritti all'Opera Nazionale Balilla.
Tutti questi interessamenti produssero alla fine il risultato auspicato, e Ferruccio Lodi fu "radiato" dal novero dei sovversivi iscritti negli elenchi della Questura. L'uomo aveva "ormai dato sicure prove di ravvedimento". E' evidente, tuttavia, che il suo contegno riguardo al fascismo rimase quello di un antico oppositore, piegatosi per ragioni di convenienza e di quieto vivere. L'irriducibile antifascista, "persona scaltra, che opera in modo da non farsi scoprire", di un rapporto del dicembre 1932 (Indice dei sovversivi, b. 75, f. 1768), immediatamente a ridosso degli arresti della Girelli, era divenuto a meta' del decennio l'uomo appartato che non prendeva parte alle manifestazioni del regime e che per questo non convinceva il comandante della tenenza dei carabinieri di Casalmaggiore.
In Il Corvo, piccolo romanzo autobiografico pubblicato nel 1971, Lodi ricorda che il padre leggeva in famiglia I Miserabili (la prima figlia di Mario fu chiamata Cosetta) e nel 1932 annuncio' commosso la morte in esilio di Filippo Turati. Questo e' il mondo in cui, come ricorda Gianni Bosio, la generazione degli uomini nati nel 1900 aveva l'abitudine di farsi chiamare con il cognome dei grandi capi socialisti, da Ferri a Prampolini a Turati (Musoni, Gianni Bosio... 1984, p. 92).
La Chiesa era altrettanto influente. Grazie soprattutto alle donne, negli anni Trenta l'organizzazione cattolica contendeva efficacemente al fascismo l'educazione dei giovani. E cosi' il piccolo Mario Lodi crebbe tra sordo risentimento paterno, custodia materna dei valori religiosi e militanza giovanile fascista.
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La formazione
Il 30 settembre 1933, a undici anni, si iscrisse alla prima classe del corso inferiore dell'Istituto magistrale di Cremona, dove sarebbe rimasto per i sette anni del ciclo di studi riformato nel 1923 da Giovanni Gentile ministro della Pubblica istruzione. Ne usci', diplomato maestro, nell'estate del 1940.
Dopo aver assolto agli obblighi di leva, fu congedato il 24 aprile 1941 con l'obbligo di frequentare il corso allievi ufficiali di complemento. Richiamato alle armi il 3 febbraio 1943, i suoi mesi successivi furono contrassegnati da ricoveri e convalescenze per una corticopleurite che gli valse, nell'ottobre di quello stesso anno, la licenza illimitata senza assegni. Il 29 febbraio 1944 fu nuovamente chiamato alle armi dal neocostituito esercito repubblicano per completare la leva, cosi' afferma il provvedimento, interrotta l'8 settembre 1943, con l'armistizio. Allontanatosi dal reparto il 25 settembre 1944, si presento' alle autorita' militari del Comune di Piadena il 28 ottobre in occasione del bando di amnistia. A disposizione del comando tedesco di Piadena, fu arrestato il 26 marzo 1945 e tradotto dalla Guardia nazionale repubblicana al distretto militare di Cremona. Il 23 aprile, "in seguito agli eventi della liberazione", si allontano' dal reparto (Archivio di Stato di Cremona, Distretto militare di Cremona, Fascicoli militari, Fogli matricolari, ad nomen).
In quei giorni, dopo la Liberazione, aderi' a Piadena al Fronte della gioventu' per l'indipendenza nazionale e la liberta', l'organizzazione giovanile partigiana fondata a Milano nel gennaio del 1944 sotto la direzione di Eugenio Curiel.
Inizio' la carriera di maestro nel 1948 a San Giovanni in Croce, a pochi chilometri di distanza dal paese natale.
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L'attivita'
Da quella prima esperienza magistrale sarebbe nato il libro C'e' speranza se questo accade al Vho. Pagine di diario, accolto da Gianni Bosio per le edizioni Avanti! nella collana "Il Gallo grande" nel 1963. Il diario scolastico di Lodi si estendeva lungo un periodo compreso tra il 1951 e il 1962, da San Giovanni in Croce a Vho di Piadena. L'arrivo a Vho, nel settembre del 1956, coincise con l'entrata in vigore dei nuovi programmi per la scuola elementare del ministro democristiano Giuseppe Ermini.
"I nuovi programmi" – scrive Lodi – "pur presentando contraddizioni di fondo lasciano largo margine all'iniziativa del maestro e favoriscono, almeno formalmente, l'impostazione di una didattica che intende rispettare la psicologia del fanciullo" (p. 87).
Da questo giudizio emerge uno sguardo tutto incentrato sui temi della didattica e del "fare scuola". Come e' noto, i programmi Ermini furono oggetto di dure polemiche tra gli anni Cinquanta e Sessanta, soprattutto da parte comunista. Si imputava loro l'ispirazione clericale, la religione cattolica, coronamento e fondamento della scuola elementare, le preghiere recitate tutti i santi giorni prima dell'inizio delle lezioni, l'insegnamento religioso.
Tutto questo c'era senz'altro, ma il cuore delle obiezioni stava altrove. I comunisti rigettavano il blando roussovianesimo dei cattolici, proposto come terreno di riproduzione della cultura magistrale degli anni Cinquanta. Su questo terreno invece Ermini incontrava l'approvazione dei maestri progressisti come Lodi e del loro vago romanticismo pedagogico.
Dina Bertoni Jovine, a capo della sezione scuola del Partito comunista italiano (PCI) dalla fine del 1950, scrisse che i nuovi programmi mantenevano "il ragazzo fino a nove o dieci anni in una specie di ambiente fantasioso, evanescente". Per non tradire "la spontaneita' infantile", ogni cognizione doveva rimanere "sporadica, rapsodica, slegata" e il maestro "guardarsi bene [dal] dare organicita' al [...] mondo sfocato" del bambino. Il lavoro intellettuale, semmai, sarebbe venuto dopo e per quei pochi cui era riservata una carriera scolastica superiore (Storia della didattica. Dalla legge Casati ad oggi, a cura di A. Semeraro, I, Roma 1976, pp. 250 s.).
La laboriosita' era cio' che contraddistingueva il tipo del bambino sentimentalizzato prefigurato dai programmi Ermini. La nuova cultura magistrale del dopoguerra vi riconosceva il tratto distintivo di una vita infantile popolare che la scuola non avrebbe dovuto spegnere. Per i comunisti era la conferma dell'infanzia povera dentro i limiti angusti di una condizione sociale subalterna (pp. 246 s.).
Era con tutta evidenza, quello della dirigente comunista, un approccio alla questione scolastica molto poco preoccupato di metodologie didattiche e molto attento, invece, a interpretare la scuola come istituzione politica e ideologica di prima grandezza.
Da questo punto di vista, allora, il giudizio di Lodi si segnala perche', nonostante l'accenno prude alle "contraddizioni di fondo" secondo un uso tipico del tempo, rimanda a una opposizione strutturale nel discorso scolastico del secondo Novecento (e da li' fino a noi), non tanto tra destra e sinistra, ma tra politica e "mondo della scuola", tra cultura e didattica.
Dentro questo solco scavava in particolare il Movimento di cooperazione educativa, al quale Lodi aderi' a meta' degli anni Cinquanta. Il didatticismo di Giuseppe Tamagnini, il primo animatore del Movimento, nasceva, attraverso Maria Boschetti Alberti e l'esperienza della Scuola serena di Muzzano nel Canton Ticino, da una lettura unilaterale della pedagogia di Giuseppe Lombardo Radice, di cui Tamagnini era stato allievo negli anni Trenta. Il tentativo era, con tutta evidenza, di staccare, nel nome di un presunto sapere professionale della scuola, la figura del pedagogista siciliano dalla presenza ingombrante e ormai dannata del suo maestro, Giovanni Gentile. L'opzione didattica rappresentava insomma la soluzione piu' a portata di mano per una generazione magistrale di formazione idealistica in cerca di riposizionamento in un quadro ideologico radicalmente mutato. Un ruolo importante in questa operazione lo svolse Ernesto Codignola.
A Codignola si deve innanzitutto l'introduzione nel dibattito italiano delle proposte didattiche di Celestin Freinet, il maestro francese affiliato al Partito comunista (ne fu espulso nel 1953), che nel 1925 era entrato in contatto, durante un viaggio in Russia, con Nadezhda Kostantinovna Krupskaya, la moglie di Lenin, all'epoca ministro sovietico dell'educazione.
Freinet arrivo' in Italia su invito proprio di Ernesto Codignola, e fu a Firenze nel 1950. Qui entro' in contatto con alcuni maestri elementari, tra i quali Aldo Pettini, che insegnava nel quartiere del Pignone, fuori Porta San Frediano ed era un altro degli animatori della prima ora del Movimento di cooperazione educativa. Con Codignola si era laureato nel 1947.
Sia Giuseppe Tamagnini che la moglie, Giovanna Legatti, avevano combattuto nella guerra partigiana. Al di la' della autorappresentazione del Movimento, con la sua insistenza sulla cooperazione e sulla promozione nei bambini di un abito alla discussione, l'aspetto piu' interessante della loro attivita' all'inizio degli anni Cinquanta stava nella definizione di una nuova geografia dell'esperienza magistrale dopo il forte accentramento della politica scolastica di epoca fascista. Una geografia individuata sui punti di un'Italia periferica, di esplicita matrice rurale e contadina. Tamagnini insegnava a Fano, Giovanna Legatti aveva cominciato a Vigolzone nella campagna di Piacenza. La parte centrale della loro esperienza magistrale si sarebbe svolta tra il 1960 e il 1970 nelle Marche, a Coldigioco, un posto sperduto ai piedi del monte San Vicino, nell'Appennino umbro marchigiano, tra Ancona e Macerata. Tamagnini teneva un corso per insegnanti a Frontale di Apiro ed era alla ricerca di un metodo che funzionasse con bambini di posti isolati come quelli della sua infanzia.
Lodi entro' in contatto con il Movimento nell'autunno del 1955. A Novembre partecipo' al congresso magistrale di San Marino, nel Cremonese (C'e' speranza, pp. 44 s., 49). L'idea stessa di tenere un diario della propria attivita' scolastica era fortemente ispirata dalle pratiche di Cooperazione educativa.
Questo tema della perifericita' rurale che il Movimento di Tamagnini mette in evidenza riporta a un aspetto cruciale nell'esperienza di Lodi: la centralita' del tema contadino.
Gli anni della formazione di Lodi si svolgono sullo sfondo di un universo rurale, quello della bassa pianura orientale, tra Brescia, Cremona e Mantova, che e' anche la scena cruciale, tra Otto e Novecento, dei movimenti sociali dell'Italia contemporanea. Per essere piu' precisi, del permanere del nuovo Stato sulle basi di un mondo agrario violento e ribelle che solo le trasformazioni generate dalla seconda guerra mondiale avrebbero finalmente dissolto. Tanto rapidamente quanto a lungo la sua questione aveva gravato sulla situazione politica e sociale del Paese.
La bassa pianura orientale e' il luogo dove, ancora negli anni dell'infanzia e della prima giovinezza di Lodi, va in scena il grande conflitto tra la 'Nazione' e la 'Bandiera rossa'. Il cinema italiano radicale degli anni Settanta lo ha raccontato con immagini tanto unilaterali quanto cariche di eloquenza, da Novecento di Bernardo Bertolucci al Mondo degli ultimi del fotografo e regista Gian Butturini.
Quel mondo era diventato oggetto di recupero culturale gia' a partire dalla meta' degli anni Cinquanta, proprio quando cominciava la sua liquidazione economica e sociale, per opera di un gruppo di intellettuali locali profondamente ispirati dalla lezione di Ernesto De Martino. Il saggio, che tante polemiche avrebbe suscitato con il PCI, Intorno a una storia del mondo popolare subalterno, era apparso nella rivista Societa' nel 1949. Sulle tracce di questa storia si era mosso, primo fra tutti, Gianni Bosio. Organizzatore socialista di cultura, Bosio fu l'animatore del movimento delle leghe di cultura nel Mantovano e nel Cremonese.
Proprio nel film Novecento c'e' un preciso riferimento a questo universo ideologico maturato dopo la seconda guerra mondiale, all'epoca delle grandi lotte contadine tra il 1947 e il 1950. Nella celebre scena dell'ammazzamento del maiale, Gerard Depardieu chiama Genia perche' intoni Quando bandiera rossa si cantava. Genia era Eugenia Arnoldi Azzali. La scena del maiale fu girata in una cascina di Voltido a pochi chilometri da Piadena, dove gli Azzali abitavano. Figlio di Genia era Gianfranco Azzali che insieme a Giuseppe Morandi era stato uno dei giovani collaboratori di Lodi alla Biblioteca popolare della Cooperativa di consumo di Piadena all'inizio degli anni Cinquanta. Nel 1966, in contatto con Bosio, aveva fondato nel paese natale la Lega di Cultura. La sede della Lega era nella casa degli Azzali.
Lodi collaborava con Bosio alle edizioni dell'Avanti!, di cui questi aveva assunto la direzione nel 1953 in stretto rapporto con Raniero Panzieri. Nel 1957, sulla scia dell'impegno demartiniano di Bosio, aveva costituito il Gruppo padano, che si dedicava alla ricerca dei documenti dell'espressivita' popolare e, nel quadro delle attivita' della Biblioteca, aveva iniziato la pubblicazione dei Quaderni di Piadena. Il primo, dedicato alla Storia del Natale, si presentava come "studio collettivo di un gruppo di giovani piadenesi" (cfr. http://gruppo_padano_piadena.e-cremona.it/biblioteca_popolare/storia_del_natale.htm).
Sposatosi nel luglio del 1958 con Fiorella Ferrazza (dal matrimonio nacquero le figlie Cosetta e Rossella), nel 1961 Bosio gli affido' la nuova collana delle edizioni Avanti!, l'"Universale ragazzi" in cui apparve, tre anni dopo, la seconda edizione di Cipi', il suo libro forse piu' noto (la prima edizione, nel 1961, era uscita sotto l'insegna delle "Messaggerie del Gallo", altra creatura di Bosio). A questa collaborazione e' con molta probabilita' legato il trasferimento di Lodi a Milano, registrato dall'estate del 1963.
Questo tessuto di legami politici e intellettuali, a cui va aggiunta la partecipazione del fratello di Mario, Sergio, musicista e produttore musicale, al Nuovo Canzoniere Italiano, colloca la formazione del maestro di Piadena non solo come si e' detto all'interno dei problemi posti dalla permanenza ideologica della 'questione contadina' nell’Italia del secondo dopoguerra ma fa emergere, insieme alla costanza dei riferimenti sociali, le basi effettive della sua proposta pedagogica. Non senza, tuttavia, imprimere a questa proposta una significativa virata.
Il tema contadino era stato infatti posto da Bosio e dai gruppi socialisti piu' radicali in rapporto al problema squisitamente politico dell'autonomia della classe.
Lodi da parte sua accantono' queste preoccupazioni. In lui il riferimento al passato contadino diventa generico, disponibile a recuperi nostalgici e piuttosto edulcorati, come dimostrano il racconto autobiografico Il corvo (1971), gia' ricordato, e soprattutto, I bambini della cascina. Crescere tra le due guerre (Venezia 1999), dedicato alla memoria di quello che avrebbe significato "crescere tra le due guerre".
Per comprendere questo passaggio, che corrisponde sul piano locale a una spaccatura a meta' degli anni Sessanta del gruppo di Piadena tra il maestro e i suoi piu' giovani collaboratori e alla nascita della Lega di cultura, bisogna rifarsi proprio al mutato contesto che matura a mezzo del decennio, con la conclusione del primo ciclo della scuola media unificata (1963-1966).
I temi demartiniani dei primi anni Cinquanta furono consegnati a una sorta di antiquaria proletaria ormai del tutto incapace di cogliere, almeno sul piano dell'educazione, le nuove questioni poste dalla scolarizzazione di massa. Anche le proposte operative del vecchio Movimento di cooperazione educativa di Tamagnini e compagni conobbero una crisi significativa. Il vecchio progetto resistenziale della scuola per i figli dei contadini poveri e' ormai superato dagli eventi. Il centro dell'associazione abbandono', allora, la sua antica dislocazione periferica e rurale e si sposto' sempre di piu' verso i centri urbani maggiori, Torino innanzitutto e poi Roma, l'Universita' e i nuovi saperi a base psicologica, piu' adatti ad affrontare le questioni inedite poste dall'integrazione degli alunni di nuovo tipo prodotti dalla riforma dell'istruzione post elementare.
La nuova scuola di massa ha ormai nel mondo contadino non piu' un referente sociale concreto ma semmai un paradigma di natura mitopoietica. I contadini forniscono al nuovo immaginario pedagogico le figure rimpiante di un mondo sociale compatto vagheggiato nella forma di quella che Michelangelo Pira ha definito la "bottega familiare" (cfr. La rivolta dell'oggetto. Antropologia della Sardegna, Milano 1978): spazio dell'integrazione di conoscenze e pratiche, sapere e saper fare, di cui la scuola avrebbe dovuto fornire una sorta di riproduzione artificiale, da laboratorio, nel nome dei bambini dei banchi dell'ultima fila prodotti dalla difficile inclusione del nuovo popolo della scuola media nel quadro di un'istruzione prolungata.
Ripulito di ogni asprezza, deconflittualizzato e reso ideologicamente neutro, il mondo rurale-contadino poteva cosi' diventare la base di una pedagogia senza troppe pretese teoriche e Lodi il maestro per eccellenza della nuova scuola democratica che, messa su questa strada, imparava a concepire se stessa in termini di pratiche piu' che di studio, di valorizzazione delle 'culture' in opposizione al tradizionale primato della cultura, polemicamente identificata in termini di astrazione intellettuale e ideologico-letteraria. Insomma, come custode di valori perduti piu' che come istituzione impegnata a sostenere, con forti strumenti intellettuali, la fuoriuscita della societa' italiana dalla sua lunga condizione di arretratezza. E questo avveniva negli anni cruciali della grande trasformazione del Paese.
Per questa via il tema delle espressioni spontanee e via via coscienti della cultura della classe, che era stato al centro della ricerca di Bosio e della sua proposta di una federazione delle leghe di cultura, riformulato sul terreno dell'educazione, si risolveva nella formula certamente piu' inoffensiva del diritto all'espressione, garantito dalla Costituzione, dei semplici, bambini in testa. Nel nome di una scuola ancora una volta meno preoccupata di istruire che di controllare ideologicamente il nuovo popolo.
In questo contesto Lodi incontro' Gianni Rodari. Rodari era in contatto con Bruno Ciari, ex partigiano garibaldino e segretario della Sezione comunista di Certaldo. Per il quotidiano Paese sera seguiva le attivita' di Cooperazione educativa. Fu Rodari che mise in contatto Lodi con Einaudi, cui aveva gia' proposto la pubblicazione dei testi del gruppo di Tamagnini (Lettere a Don Julio Einaudi..., 2008, p. 69). Attraverso l'autore delle Filastrocche in cielo e in terra, il maestro di Piadena conobbe Daniele Ponchiroli, che ando' a trovare nella sua casa di Viadana, alla fine degli anni Sessanta. Ponchiroli, che con lo pseudonimo di Franco Bedulli aveva scritto un libro per ragazzi ed era inoltre un raffinato illustratore, aveva un interesse specifico per la nuova letteratura per i bambini, oltre che una particolare attenzione politica per la nuova questione scolastica.
Il paese sbagliato, il diario dell'esperienza didattica condotta a Vho di Piadena dal 1964 al 1969, che prolunga le riflessioni del precedente C'e' speranza se questo accade al Vho, usci' nel 1970 non piu' per le edizioni del Partito socialista ma per i tipi ben piu' prestigiosi dell'editore torinese. Il libro vinse il premio Viareggio nel 1971 e Lodi divennne uno scrittore di successo.
La fama di Lodi e' fortemente legata alla particolare temperie ideologica degli anni Settanta e si prolunga sostanzialmente come effetto della sua stanca sopravvivenza culturale nell'Italia, pure profondamente cambiata, dei decenni successivi. L'affermazione del maestro di Piadena a partire dalla pubblicazione del Paese sbagliato surroga la crisi di fatto dei tentativi del secondo dopoguerra di una nuova pedagogia e si risolve, insieme all'altra esperienza 'contadina', quella di Barbiana, in una mitografia della scuola democratica sempre piu' distante dai movimenti reali dei sistemi di istruzione.
Lodi aveva incontrato don Lorenzo Milani nell'agosto del 1963 grazie alla mediazione del giornalista Giorgio Pecorini, lo stesso che alla fine del decennio avrebbe fatto da tramite con Tullio De Mauro. Nella pratica della scuola di Barbiana della scrittura collettiva, Lodi aveva ritrovato alcuni punti di contatto con la sua antica ispirazione freinetiana e da li' era nato un breve scambio epistolare con don Milani. Dopo questa stagione e sempre sulla linea di una pedagogia degli ultimi, Lodi incrocio' negli anni Ottanta la divulgazione della pedagogia degli oppressi del brasiliano Paulo Freire, in occasione della partecipazione nel 1986 al convegno, organizzato ad Assisi dal Centro di educazione alla mondialita', "Liberare l'educazione sommersa". Si tratta, come e' evidente, di materiali eterocliti incapaci di ricomporsi in un quadro coerente, tale da dare forma a una rinnovata proposta pedagogica e culturale.
Messo a riposo nel 1978, dagli anni Ottanta in avanti Lodi appare sostanzialmente impegnato ad amministrare il patrimonio di esperienza accumulato negli anni di piu' intensa militanza magistrale, come testimonia l'iniziativa piu' rilevante dell'ultima fase della sua vita, la costituzione nel 1989, con i proventi del premio internazionale "Lego", della Casa delle arti e del gioco in una cascina di Drizzona, il Comune a pochi chilometri da Piadena in cui si trasferi' nel gennaio del 1990.
Quel mondo rurale che aveva avuto il suo centro nella cascina padana primo-novecentesca torna alla fine, ormai dileguatosi come mondo sociale concreto, nella forma di una vaga metafora pedagogica, come citazione di uno spazio di possibilita' della libera esperienza infantile prima della televisione.
Nel 2000 Tullio De Mauro, allora ministro della Pubblica istruzione, lo nomino' nella commissione incaricata del riordino dei cicli scolastici e nel 2001 membro dell'Indire, l'istituto nazionale di documentazione, innovazione e ricerca educativa, nato dalla soppressione della Biblioteca nazionale pedagogica e riconfigurato con la nascita del Sistema nazionale di valutazione nel 2011. In quegli anni scrisse su un tema in lui sempre presente, il rapporto tra scuola e Costituzione (Costituzione. La legge degli italiani, riscritta per i bambini, per i giovani... per tutti, a cura di M. Lodi, Drizzona 2008).
Mario Lodi mori', al termine di una lunga e intensa vita, tre anni piu' tardi, il 2 marzo 2014.
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Fonti e bibliografia
Piadena, Archivio del Comune, Ufficio Anagrafe, Schede anagrafiche personali, ad nomen; Archivio di Stato di Cremona, Questura di Cremona, Indice dei sovversivi, b. 75, f. 1768; Distretto militare di Cremona, Fascicoli militari, Fogli matricolari, ad nomen; Cremona, Archivio del liceo Sofonisba Anguissola, Registri, anni 1933-1840.
Sui rapporti con Gianni Bosio si veda G. Bosio, L'intellettuale rovesciato, a cura di C. Bermani, Milano 1998, ad ind., in particolare la sezione Cronologia della vita e delle opere di Gianni Bosio; si vedano anche F. Nardini, Dalle societa' di mutuo soccorso ai sindacati: il movimento operaio e contadino nella Bassa, ad indicem e R. Musoni, Gianni Bosio e l'"altra cultura", in Atlante della Bassa, II, Uomini, vicende, paesi della pianura orientale, Brescia 1984, pp. 79-82; 92-96 e il piu' recente A. Tarpino, Spaesati. Luoghi dell'Italia in abbandono tra memoria e futuro, Torino 2012, pp. 90-128 (sull'esperienza di Lodi a Piadena); sul Movimento di cooperazione educativa, Didattica operativa. Le tecniche di Freinet in Italia, a cura di G. Tamagnini, Frontale 1965, passim (Azzano San Paolo 2002); su Daniele Ponchiroli si veda G. Davico Bonino, Incontri con uomini di qualita'. Editori e scrittori di un'epoca che non c'e' piu', Milano 2013, pp. 46-51; sulla proposta di Gianni Rodari a Einaudi riguardo a Tamagnini e compagni si veda G. Rodari, Lettere a Don Julio Einaudi, Hidalgo editorial e ad altri queridos amigos (1952-1980), a cura di S. Bartezzaghi, Torino 2008, p. 69; sui rapporti tra Lodi e don Lorenzo Milani e tra Lodi e De Mauro si veda, tra gli altri, la testimonianza di quest'ultimo in T. De Mauro, La cultura degli italiani, a cura di F. Erbani, Roma 2010, pp. 100 s. Il sito http://gruppo_padano_piadena.e-cremona.it/biblioteca_popolare/storia_del_natale.htm e' stato visitato il 12 giugno 2015.
 
3. SEGNALAZIONI. ALCUNE PUBBLICAZIONI DI E SU GEORGE JACKSON
 
- George L. Jackson, Col sangue agli occhi, Einaudi, Torino 1972, pp. 198.
- George Jackson, I fratelli di Soledad. Lettere dal carcere di George Jackson, Einaudi, Torino 1971, 1977, pp. XVI + 270.
- A cura di Michel Foucault, Gilles Deleuze e del Groupe d'Information sur les Prisons, L'assassinio di George Jackson, Feltrinelli, Milano 1971, 1972, pp. 56.
 
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LA BIBLIOTECA DI ZOROBABELE
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Segnalazioni librarie e letture nonviolente
a cura del "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo"
Supplemento a "La nonviolenza e' in cammino" (anno XXII)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: centropacevt at gmail.com
Numero 12 del 6 marzo 2021
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