[Nonviolenza] Telegrammi. 3607



TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 3607 del 3 gennaio 2020
Telegrammi quotidiani della nonviolenza in cammino proposti dal "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza (anno XXI)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: centropacevt at gmail.com, sito: https://lists.peacelink.it/nonviolenza/

Sommario di questo numero:
1. Due provvedimenti indispensabili per far cessare le stragi nel Mediterraneo e la schiavitu' in Italia
2. Anna Bravo: La zona grigia (parte seconda e conclusiva)
3. Enrico Peyretti presenta "La conta dei salvati" di Anna Bravo
4. Mao Valpiana: Lettera alle amiche e agli amici del Movimento Nonviolento
5. Segnalazioni librarie
6. La "Carta" del Movimento Nonviolento
7. Per saperne di piu'

1. REPETITA IUVANT. DUE PROVVEDIMENTI INDISPENSABILI PER FAR CESSARE LE STRAGI NEL MEDITERRANEO E LA SCHIAVITU' IN ITALIA

Riconoscere a tutti gli esseri umani il diritto di giungere nel nostro paese in modo legale e sicuro.
Riconoscere il diritto di voto a tutte le persone che vivono nel nostro paese.

2. MAESTRE. ANNA BRAVO: LA ZONA GRIGIA (PARTE SECONDA E CONCLUSIVA)
[Dal libro di Anna Bravo, Raccontare per la storia / Narratives for History, Einaudi, Torino 2014, riproponiamo il capitolo secondo "La zona grigia" nel solo testo italiano (pp. 29-85).
Anna Bravo, storica e docente universitaria, ha insegnato Storia sociale. Si e' occupata di storia delle donne, di deportazione e genocidio, resistenza armata e resistenza civile, cultura dei gruppi non omogenei, storia orale; su questi temi ha anche partecipato a convegni nazionali e internazionali. Ha fatto parte del comitato scientifico che ha diretto la raccolta delle storie di vita promossa dall'Aned (Associazione nazionale ex-deportati) del Piemonte; ha fatto parte della Societa' italiana delle storiche, e dei comitati scientifici dell'Istituto storico della Resistenza in Piemonte, della Fondazione Alexander Langer e di altre istituzioni culturali. Luminosa figura della nonviolenza in cammino, della forza della verita', e' deceduta l'8 dicembre 2019 a Torino, la citta' dove era nata nel 1938. Tra le opere di Anna Bravo: (con Daniele Jalla), La vita offesa, Angeli, Milano 1986; Donne e uomini nelle guerre mondiali, Laterza, Roma-Bari 1991; (con Daniele Jalla), Una misura onesta. Gli scritti di memoria della deportazione dall'Italia, Angeli, Milano 1994; (con Anna Maria Bruzzone), In guerra senza armi. Storie di donne 1940-1945, Laterza, Roma-Bari 1995, 2000; (con Lucetta Scaraffia), Donne del novecento, Liberal Libri, 1999; (con Anna Foa e Lucetta Scaraffia), I fili della memoria. Uomini e donne nella storia, Laterza, Roma-Bari 2000; (con Margherita Pelaja, Alessandra Pescarolo, Lucetta Scaraffia), Storia sociale delle donne nell'Italia contemporanea, Laterza, Roma-Bari 2001; Il fotoromanzo, Il Mulino, Bologna 2003; A colpi di cuore, Laterza, Roma-Bari 2008; (con Federico Cereja), Intervista a Primo Levi, ex deportato, Einaudi, Torino 2011; La conta dei salvati, Laterza, Roma-Bari 2013; Raccontare per la storia, Einaudi, Torino 2014]

Zona grigia e sopravvivenza
Sebbene il rapporto fra privilegio e sopravvivenza non sia nuovo nel dibattito sul sistema concentrazionario, Levi lo oltrepassa: "I prigionieri privilegiati", scrive, "erano in minoranza dentro la popolazione dei Lager, ma rappresentano invece una forte maggioranza fra i sopravvissuti" (39). I salvati, continua, devono la vita in primo luogo alla fortuna e ad abilita' personali, ma anche a una forma magari minima di privilegio: in un mondo dove la morte per fame, o per malattie da fame, era normale destino, la sola speranza stava nel conquistare "un sovrappiu' alimentare, e per ottenere questo occorreva [...] un modo, octroye' o conquistato, astuto o violento, lecito o illecito, di sollevarsi al di sopra della norma" (40). Se in altri testi Levi distingueva soltanto fra i piu' vulnerati e i piu' resistenti, ora - in I sommersi e i salvati - scrive che a sopravvivere non sono stati i migliori. Nessuno aveva osato tanto.
Il discorso semina sconcerto e dolore fra gli ex deportati. Qualcuno risponde con un argomento avanzato da molti, enunciato esemplarmente da Bettelheim: non c'e' niente che un prigioniero possa fare o evitare di fare per garantirsi la salvezza (41). Si vive e si muore per caso, e sapendolo.
Ma questo e' il medesimo giudizio di Levi, che lo ancora a una verita' elementare: se la fortuna e' capricciosa, il privilegio e' volatile. In un mondo dove non c'e' nessun perche', puo' succedere che il protetto (o il suo protettore) cadano in disgrazia, che il "buon" lavoro conquistato sia soppresso, che la gerarchia del campo si rimodelli con l'arrivo di gruppi agguerriti. Puo' succedere di vedere o ascoltare qualcosa di proibito, di finire tra i prescelti per una decimazione; e naturalmente di ammalarsi a morte. Il privilegio senza la buona sorte non basta, la buona sorte da sola a volte si'.
Da dove origina allora la reazione sofferta di molti ex deportati? Forse, dall'enunciazione che "a sopravvivere non sono stati i migliori". Forse, dall'impressione che Levi li abbia collocati nella zona dell'ambiguita' per il solo fatto di aver avuto salva la vita. E' decisivo, credo, questo passaggio: "E' solo una supposizione, anzi, l'ombra di un sospetto: che ognuno sia il Caino di suo fratello, che ognuno di noi (ma questa volta dico "noi" in un senso molto ampio, anzi universale) abbia soppiantato il suo prossimo, e viva in vece sua. E' una supposizione, ma rode; si e' annidata profonda, come un tarlo; non si vede dal di fuori, ma rode e stride" (42).
Anche se Levi allarga l'orizzonte dal Lager alla condizione umana, Caino resta il simbolo dell'odio fratricida verso il quale i nazisti spingono i prigionieri, a volte riuscendoci. E resta il fulcro della sua interpretazione della prigionia: il Lager di Caino e' il luogo di una guerra di tutti contro tutti, dove i sodalizi si trasformano fatalmente in complicita', i gruppi amicali in clan impegnati a scalzarsi reciprocamente, e non c'e' rapporto se non all'interno dei gruppi etnici e nazionali.
E' una visione condivisa da alcuni deportati, che parlano di solidarieta' immaginaria. Ma si scontra con la tendenza di altri a valorizzare gli aspetti di fraternita' e di resistenza, a certificare che il progetto nazista di controllo totale dei comportamenti non e' passato, che Hitler ha fallito. Impegno pedagogico forse troppo generoso, valutazione controversa: se il Terzo Reich ha perso la guerra, ha fatto in tempo a distruggere milioni di vite e gran parte della cultura yiddish.
Per alcuni autori, e in altri testi di Levi, il Lager non e' sempre quello di Caino. Secondo Tzvetan Todorov, anche nell'asprezza della competizione per la vita i prigionieri si sforzavano di preservare un abbozzo di contratto sociale "morale", che sapevano necessario per non distruggere livelli minimi di convivenza. Ne fa parte il galateo del Lager di cui parla Levi in un'intervista, "un complesso di comportamenti che non avevano direttamente a che fare con la sopravvivenza ma che erano considerati di buona o di cattiva educazione". Come una certa "proprieta' nel vestirsi, [...] aveva importanza avere gli abiti, il cappello e le scarpe decenti, dico decenti tra virgolette [...]. Allo stesso modo era considerato un... uno sgarbo, come dire una... un atto di maleducazione parlare di crematorio, nel mio campo, o di camera a gas..." (43).
E' una forma di tutela reciproca che non esclude la violenza, e neppure certe esplosioni di aggressivita' gratuita, come i riti iniziatici in qualche caso pericolosissimi ai danni dei nuovi arrivati. Compiuti, spiega Levi, "con la crudelta' tipica delle scuole e delle caserme" (44) - il Lager e' anche una grande concentrazione di maschi; all'epoca pochissimi autori uomini nominavano questo aspetto, pochi lo nominano ancora oggi.
Levi prepara il terreno alla domanda su cosa sia stata la zona grigia delle prigioniere. Nel campo femminile di Ravensbrueck le Kapos non erano meno feroci dei loro omologhi di Buchenwald o Mauthausen, la lotta per sopravvivere poteva essere violentissima, ma non c'era l'equivalente dell'"iniziazione" maschile, e tra le comuniste francesi l'atteggiamento verso l'organizzazione politica non era paragonabile a quello degli uomini (45). Forse perche' le donne non avevano ruoli di altrettanto rilievo, forse perche' in genere erano militanti e non dirigenti. O perche' la loro scala di priorita' era piu' duttile, piu' aperta alla valutazione caso per caso. Certo e' che l'esperienza maschile e quella femminile divergono, confermando la pluralita' delle situazioni, e suggerendo un nuovo terreno di ricerca alla storia di genere. Che da allora ha accumulato un patrimonio di studi imponente. Vale la pena rileggere in questa prospettiva la preziosa memorialistica femminile e i saggi spesso bellissimi usciti negli ultimi decenni (46).
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Contro l'eccezionalismo
L'analisi della zona grigia si contrappone, anche, agli stereotipi costruiti sulla figura del superstite. Assiduo frequentatore di scuole, Levi si sente chiedere da qualche alunno perche' non sia fuggito, e dubita di essere riuscito a spiegargli perche', tanto e' diffusa l'abitudine a proiettare sul Lager le categorie del presente. Il sopravvissuto rischia di trasformarsi in colui che non ha saputo abbattere i guardiani, superare i reticolati, correre incontro alla liberta'. Effetto del cortocircuito prigionia/fuga stimolato dai media, e di una storiografia poco attenta a divulgare nella scuola la realta' dei campi.
Ma c'e' uno stereotipo peggiore degli schematismi di un ragazzino, una deformazione all'apparenza lusinghiera, in realta' oltraggiosa - quella dell'eccezionalismo.
Per Terrence Des Pres, il superstite e' l'eroe moderno capace di attraversare il male per immergersi nella vita "senza riserve, svincolato da coazioni e mediazioni culturali sotto l'urgenza degli imperativi primordiali del corpo" (47). Per molta opinione comune, e' un essere sopravvissuto perche' eccezionale, ed eccezionale perche' sopravvissuto - il che rischia di trasformarlo in testimone coatto della propria eccellenza. La critica durissima a queste o simili "mostruose" ideologie (48) non ha impedito il loro riemergere periodico. Troppo radicata e' la convinzione che soffrire sia un merito e sopravvivere un premio.
Poi c'e' la variante mistica dell'angelismo: come denuncia Alain Finkielkraut, il sopravvissuto e' precettato a testimoniare del Bene, vale a dire della presenza di Dio nella storia, cosi' da apparire doppiamente salvato, sul piano materiale, terrestre, e su quello "celeste" o metafisico, come colui che ha beneficiato del favore divino (49). Bettelheim riferisce un dialogo-simbolo fra una donna sfuggita all'arresto e alla deportazione e un'interlocutrice che aveva pagato con diversi anni di prigionia l'aiuto offerto a famiglie ebree. "Perche' proprio io mi sono salvata?" si chiede la prima; e la seconda: "Perche' lei possa dimostrare per il resto della sua vita che era stato giusto salvarla" (50). Per Levi che parla di "salvati", non di "scelti", e che in Lager ha visto ulteriormente indebolirsi "le sue convinzioni religiose, che erano gia' molto scarse" (51), questo obbligo a dimostrarsi "degni della grazia" e' un insulto.
Del resto, il favore divino costa caro. Un amico credente - ricorda ancora Levi - gli aveva detto che era stato salvato perche' scrivesse, e scrivendo portasse testimonianza (52). E' altra cosa dal dovere di testimoniare sentito dagli ex deportati, e' la condanna a giustificare la propria esistenza con la scrittura, una condanna che non prevede il "fine pena", ma il suo reiterarsi - come se tacendo il superstite perdesse il diritto alla vita. Collocando i sopravvissuti (e se stesso) fra i "peggiori", forse Levi cercava di contrastare quelle idealizzazioni, comprese le molte costruite sulla sua persona: in Italia, il testimone per conto di terzi era diventato anche il Giusto per conto di terzi (53).
Ricordo che di fronte alla morte di Primo Levi il dolore e lo stordimento per la perdita di un padre simbolico (di un santo laico, dicevano alcuni) si mischiavano alla sensazione di essere stati doppiamente abbandonati. Per la sua fine, come se i santi non avessero diritto di morire. Per il modo, come se il suicidio gettasse retrospettivamente un'ombra sulla vita. Nell'opinione comune, Levi era l'uomo che aveva vinto Auschwitz - definizione infelice per una persona cosi' libera dal vizio della belligeranza. Il suicidio rompeva quell'immagine. Di qui la pulsione, comprensibile in chi lo amava ma violenta, a "spiegarlo" per farsene una ragione. Di qui la non innocente ostinazione di alcuni aspiranti biografi a rovistare nella sua vita alla caccia del minimo dettaglio personale.
Forse l'intero capitolo sulla zona grigia si puo' leggere, anche, come difesa/diffida dalle idealizzazioni.
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Dentro e fuori dai reticolati
Sebbene non sia universalmente condiviso, in tutto il mondo il termine "zona grigia" e' entrato negli studi filosofici, femministi, di diritto, storia, teologia, cultura popolare. Ed e' diventato presto un riferimento e un terreno di confronto per moltissimi autori, da Wiesel a Todorov, da Giorgio Agamben a Dalia Hofer, da Claudia Card a Finkielkraut a Stefano Levi Della Torre, da Alberto Cavaglion a Claudio Pavone a Lawrence Langer - troppi anche solo per nominarli. Al centro, spiccano alcune domande della contemporaneita' e di sempre. Perche' vertono sulla narrazione del dolore e della morte di massa, sui soggetti che hanno la titolarita' per raccontarli. Sul giudizio morale applicabile o meno ai comportamenti delle vittime. Sulla possibilita' di usare le parole del Lager per descrivere altre realta'.
Cosa puo' dirci I sommersi e i salvati su quest'ultimo crocevia storico-teorico?
Innanzitutto, Levi mostra che comparare non significa fare il conto delle somiglianze e differenze fra due fenomeni; si tratta di "smontare" i concetti applicati al primo fenomeno nelle loro componenti di base, per distinguere quelle che gettano nuova luce sul secondo, e quelle che al contrario li falsificano entrambi. Nel capitolo sulla zona grigia, si legge che il Lager "(anche nella sua versione sovietica) puo' ben servire da 'laboratorio'" (54). Per il Gulag, che Levi considera uno dei rari terreni accettabili di comparazione fra nazismo e comunismo, poche parole, ma immerse in un'analisi del Lager cosi' minuziosa e dettagliata da offrire a chiunque la possibilita' di impostare una propria riflessione.
Oggi lo stato della ricerca e' molto cambiato, e cosi' il clima; la comparazione fra nazismo, comunismo e altri sistemi totalitari e' auspicata e praticata. Ma proprio grazie a questa maggiore liberta', si puo' scoprire che resta ancora molto da esplorare all'interno stesso del mondo concentrazionario nazista. Per la zona grigia, un esercizio necessario e ancora da completare e' capire se abbia le stesse caratteristiche e si realizzi allo stesso modo in tutti i Lager e per ogni categoria di prigionieri - a cominciare dalla differenza fra donne e uomini, che molti citano in modo commosso e sommario, e Levi con loro.
A maggior ragione, se si guarda a una realta' esterna, a un "fuori", bisogna chiedersi quali tratti siano almeno parzialmente associabili alla zona grigia, e se bastino a reggere l'analogia.
Levi scrive che e' necessario conoscere le figure turpi o patetiche della zona grigia "se vogliamo conoscere la specie umana, se vogliamo saper difendere le nostre anime quando una simile prova si dovesse nuovamente prospettare, o se anche soltanto vogliamo renderci conto di quello che avviene in un grande stabilimento industriale" (55).
Ma Levi diceva anche di non capire chi si ostinava a definire un Lager la Fiat, e - lo ricorda Lawrence Langer - dubitava dell'estensibilita' del concetto. Avrebbe respinto "any effort to identify such camp behavior with the collaboration of free men and women in the Vichy or Quisling regimes in France and Norway" - il giudizio cambia a seconda che la collaborazione avvenga all'interno o all'esterno dei reticolati (56). Si sarebbe stupito di fronte all'uso del termine "zona grigia" per definire una pratica diffusa nella Grande guerra, la "pulizia delle trincee", vale a dire le operazioni di sgombero e messa in sicurezza del territorio guadagnato in uno scontro; una cosa sono le azioni dirette a rendere inoffensivo il nemico, un'altra quelle messe in atto per sterminarlo (57).
Un esempio di buona analogia e' invece il lavoro di Claudia Card sulle mogli di proprietari di schiavi. Per quanto oppresse dal potere maritale, queste donne sono in condizione di opprimere a loro volta altri piu' vulnerabili come appunto i neri che lavorano in casa loro; e un discorso simile vale per le madri sorelle mogli di membri di organizzazioni criminali: vittime del primato maschile, da un lato, complici dall'altro (58). Card definisce queste situazioni area grigia (a suo avviso, "zona" alluderebbe troppo all'istituzione totale chiusa al mondo); ma anche al di la' di questa precisazione, il suo e' un prestito rispettoso, e utile a mettere in luce la coabitazione fra responsabilita' e irresponsabilita', la differenza fra non avere alcun potere e averne uno, sia pure circoscritto.
Non sempre e' cosi'. Puo' succedere invece che, come si puo' cogliere in vari studi e nel senso comune, ci si aggrappi al tema dell'ambiguita' e dell'incertezza dei confini. Con effetti che Levi certo non avrebbe immaginato.
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Da concetto a metafora
Quantomeno in Italia, la risposta all'analisi della zona grigia e' stata una tendenza istantanea, e ancora prevalente nei media e nel linguaggio quotidiano, a mutilare il concetto della sua carica innovativa.
Oggi si usa il termine come un attrezzo psico-antropo-sociologico buono per leggere ogni realta' che appaia opaca, nascosta, mal definita. Dalla struttura per lo spionaggio telefonico nella piu' grande azienda italiana (59) alla presunta trattativa stato/mafia, non esiste settore che non abbia diritto alla sua zona grigia; ce l'hanno la politica, la cultura, la societa', i servizi di informazione, le polizie, lo spettacolo, lo sport, e naturalmente la mafia, l'etica e la bioetica. E' stata, per usare le parole di Alberto Cavaglion, una marcia trionfale. Ma lungo la strada si e' perso molto del suo significato originario: sono sparite le distinzioni fra gli abitatori della zona grigia, il suo rapporto con il potere, l'abnormita' della pressione sull'individuo, alla cui luce - ammonisce Levi - vanno considerati i temi della "complicita'" e della responsabilita'. Cancellati i suoi caratteri fondanti, alla zona grigia mediatizzata non sono rimasti che l'oscurita' e l'incertezza dei confini - terreni ideali sia per gli psicologismi sia per le mentalita' complottiste. Dalla precisione del concetto si e' passati alla vaghezza della metafora.
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La zona grigia addomesticata
A ridosso dell'uscita de I sommersi e i salvati, uno scrittore e giornalista, ex partigiano con una storia giovanile di adesione a fascismo e razzismo, scrive sul quotidiano "la Repubblica" un articolo dove, "partendo da un elogio della zona grigia, [...] si approdava, con non piccola forzatura, a un invito all'assoluzione da ogni colpa individuale e collettiva" (60). Molti che, come l'articolista, potrebbero riflettere in chiave autobiografica sul potere di corruzione del fascismo, preferiscono cercare riparo in una abusiva ma provvidenziale terra di mezzo. Levi ne rimane stupefatto e ferito (61). Sotto i suoi occhi, l'espressione zona grigia diventa una sorta di "liberi tutti" dalle responsabilita' del passato.
Di li' a poco diventera' anche una scorciatoia storiografica, raggiungendo il suo estremo in Italia, dove negli anni Ottanta gli ormai laicizzati studi sulla resistenza stavano vivendo una fase di passaggio.
Ad alcuni (soprattutto ad alcune studiose) sembrava sterile la rigida distinzione instaurata da sempre fra una minoranza attiva e l'area vastissima di quanti non "avevano saputo fare una scelta" (62) - intendendo per scelta, riduttivamente, l'atto di salire in montagna (in subordine, di appoggiare i partigiani) o all'opposto di arruolarsi nelle milizie fasciste (in subordine, di sostenere la repubblica di Salo'). E sembrava improduttivo, oltre che moralistico, spiegare la parzialita' e l'instabilita' del radicamento partigiano fra le popolazioni con il ricorso a stereotipi annosi come l'arretratezza italiana o il particolarismo contadino: il disamore popolare poteva avere le sue ragioni.
Questione delicata, perche' riconoscere che l'appoggio (o l'ostilita') erano dipesi, anche, dalle diverse strategie politico/militari dei partigiani, non era indolore. Sebbene aperta al bisogno di dedicare uno sguardo piu' libero ai fatti del 1943-'45, una non piccola parte degli studiosi esitava a metterlo in pratica - ma non rinunciava a usare metaforicamente il nuovo concetto.
Sostituire "zona grigia" a espressioni datate e colpevolizzanti come ritardo, attendismo, inerzia, e' stata almeno in parte un'operazione di maquillage - il che contribuisce a spiegare la rapidita' con cui la nuova formulazione e' entrata nel linguaggio storiografico. In apparenza, si apre la strada a una visione non manichea degli orientamenti popolari; in realta', spesso si sottintende che non c'e' molto da capire. Grigiore, opacita', ambiguita', il quadro e' gia' li' - un quadro monco, in cui la popolazione per lo piu' compare come la cassa di risonanza della lotta armata, quasi una componente ambientale che aderisce, sabota o si astiene in una partita giocata tra fascisti e partigiani.
Il fatto e' che la nuova zona grigia ha poco a che fare con quella di Levi: la sua nasceva per sottrazione dai due blocchi dei "buoni" e dei "cattivi", revocando ad alcuni la definizione impiegata fino ad allora, per spostarli nel nuovo territorio - il che implicava un ripensamento delle due partizioni originarie.
La zona grigia addomesticata, al contrario, non ridisegna affatto quei recinti, semplicemente aggiunge loro un'appendice pronta per tutti gli usi, compresi alcuni assolutamente impropri. Infatti al suo interno si fanno rientrare soggetti diversissimi fra loro, dagli indifferenti di cui e' giusto dire che non avevano "fatto una scelta", a quanti si erano schierati in forme invisibili alle categorie della politica. Per esempio le e i resistenti senza armi, e quanti agivano fuori dai circuiti di partito e dentro reticoli parentali, di vicinato, di paese.
Che con questo uso dilagante della categoria "zona grigia" si faccia a qualcuno uno sconto, a qualcun altro un'ingiustizia, non sembra importare molto. Qui il concetto non nasce dall'analisi storica, al contrario la sostituisce e la fa apparire futile. In tempi brevi, zona grigia diventa il nuovo modo di nominare una realta' poco o niente studiata, e che non si ritiene decisivo studiare - nell'ortodossia storiografica e intellettuale degli anni Ottanta domina ancora l'aspetto armato/militante, e sottoporre a un vaglio critico il rapporto fra combattenti e popolazioni metterebbe in luce i chiaroscuri degli uni e delle altre. Espulsi dalla resistenza, quei chiaroscuri vengono spostati al suo esterno, e la zona grigia entra nell'"autobiografia" del paese come nuovo tassello di un fantasmatico carattere nazionale.
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Un'eredita' raccolta
Novita' di sostanza sul nodo storico del rapporto partigiani/popolazione cominciano a manifestarsi nei primi anni Novanta. Se e' decisiva l'aria di liberta' che spira dopo il crollo del muro di Berlino, in Italia a determinare la direzione del cambiamento contribuisce il pensiero di Levi. Assimilata per decenni a una palude opportunista (63), la parte maggioritaria della popolazione ha cominciato proprio allora a essere guardata con piu' sensibilita', per esempio sottolineando la fatica di sopravvivere e la sofferenza comune, o rifiutando di stigmatizzare esitazioni e sentimenti di estraneita' rispetto allo scontro in corso (64).
Ma c'e' un risultato piu' sorprendente, favorito in buona misura dal concetto di resistenza civile, messo a punto nell'89 da uno storico francese di formazione nonviolenta, Jacques Semelin (65). E' il debutto di un filone di ricerche locali e no - storie di singoli o di microgruppi, di exploit e di lunghe routine, di salvataggi (o di complicita') - in cui la popolazione e' narrata come soggetto portatore di motivazioni e obiettivi propri, non sempre integrabili all'interno dello schieramento resistenziale.
In alcuni casi - e' una novita' assoluta - si sceglie di lavorare intorno alle memorie di comunita' vittime di stragi naziste. Memorie "estreme", perche' si sono cristallizzate intorno a quell'evento traendone materia per una ostilita' duratura verso i partigiani locali, a volte verso la resistenza in blocco. Estreme, anche, perche' esacerbate dalle false accuse di profascismo e di subordinazione ai parroci, che risuonano nell'autodifesa dei resistenti e nei discorsi pubblici. A queste memorie, fino ad allora lasciate in esclusiva alla pubblicistica antipartigiana o assegnate alla zona grigia addomesticata, si dedicano opere che rappresentano un evento per il solo fatto di essere state scritte (66). E che portano quelle vicende nella storia nazionale, come chiedevano da tempo alcune comunita' (67). A volte l'idea di una ricerca mirata parte dal loro interno, e diventa operativa con la "convocazione" di un gruppo di docenti universitari cui si chiede di appurare l'accaduto.
Qui la lezione di Levi si sente. Come lui, gli autori "smontano" i due blocchi di "buoni" e di "cattivi" - i partigiani della zona, la popolazione che ne condanna l'operato. Come lui, conducono un'analisi serrata e accurata dei conflitti, paure, rancori innescati o esasperati dalla strage, dei poteri locali - quelli, negoziabili, delle vacillanti istituzioni, dei partigiani, dei notabili, della comunita', degli stessi fascisti del luogo. Su tutti, il potere di vita e di morte dei responsabili della strage.
Ne escono straordinari spaccati di memorie ancora ferite, di situazioni (e di soggetti) i piu' diversi, di un lungo compianto che puo' affratellare o dividere. Storie vive, e veridiche.
Oggi non si puo' che partire da questo patrimonio di ricerche se si vuole affrontare con franchezza il processo che porta alcune comunita' a trasferire la responsabilita' degli eccidi dai tedeschi ai partigiani. E se si vuole esaminare laicamente le difficolta' della resistenza a porsi come matrice dell'identita' collettiva. E' quel che fa anche Tzvetan Todorov in un libro del '94 (68), dove racconta l'andirivieni spasmodico fra comandi partigiani, tedeschi, fascisti, con cui il sindaco di una cittadina francese cerca di scongiurare un cortocircuito di rappresaglie e controrappresaglie, e la disperazione del fallimento.
Che gli autori rivendichino o meno la lezione de I sommersi e i salvati, poco importa. Importa molto quel che il loro lavoro testimonia: che a dispetto delle distorsioni, l'appartato Levi e' stato determinante nella costruzione di un nuovo spirito del tempo.
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Note
39. P. Levi, I sommersi e i salvati cit., p. 1020.
40. Ivi, p. 1021.
41. Bruno Bettelheim, Sopravvivere [Surviving and Other Essays, 1979], Feltrinelli, Milano 1981, pp. 197-231.
42. P. Levi, I sommersi e i salvati, cit., p. 1054, dal capitolo "La vergogna". Il tema di Caino e' ampiamente commentato da Tzvetan Todorov, "Il secolo di Primo Levi", in Memoria del male, tentazione del bene. Inchiesta su un secolo tragico [Memoire du mal Tentation du bien, 2000] Garzanti, Milano 2001, pp. 213-23.
43. Vedi l'intervista resa ad Anna Bravo e Federico Cereja, a Torino il 27 gennaio 1983, ora col titolo Intervista a Primo Levi, ex deportato, a cura dei medesimi, Einaudi, Torino 2011, pp. 4-5, 11.
44. Ibid., p. 21.
45 Claire Andrieu, Reflexions sur la Resistance a' travers l'exemple des Francaises de Ravensbrueck, in "Histoire@Politique. Politique, culture, societe'", II (maggio-agosto 2008), n. 5, dossier Femmes en resistance a' Ravensbrueck, online: http://www.cairn.info/revue-histoire-politique-2008-2.htm.
46. Cfr. fra gli altri, Dalia Ofer e Lenore J. Weitzman (a cura di), Donne nell'Olocausto, Le Lettere, Firenze 2001; Sara R. Horowitz, The Gender and Good and Evil: Women and Holocaust Memory, in Jonathan Petropoulos e John K. Roth (a cura di), Gray Zones. Ambiguity and Compromise in the Holocaust and its Aftermath, Berghahn Books, New York 2005, pp. 165-78. Un esempio chiarissimo (non un modello!) della differenza si coglie confrontando l'esperienza del corpo affamato narrata da Jean Amery, Intellettuale a Auschwitz [Jenseits von Schuld und Suhne. Bewaltigungsversuche eines Uberwaltigten, 1966], Bollati Boringhieri, Torino 1987, pp. 39, 37, 35, 54-55, 40, e da Margareta Glas-Larsson, Survivre dans un camp de concentration. Entretien avec Margareta Glas-Larsson, commente' par G. Botz e M. Pollak, in "Actes de la recherche en sciences sociales", VIII (1982), n. 41, pp. 4-28. Mi permetto di rimandare anche all'Introduzione di Anna Bravo a Donne nell'Olocausto, cit.
47. Terrence Des Pres, The Survivor. An Anatomy of Life in the Death Camps, Oxford University Press, New York 1976; ora in traduzione italiana: Il sopravvivente. Anatomia della vita nei campi di morte, a cura di Adelmina Albini e Stefanie Golish, Mimesis, Milano-Udine 2013.
48. Si vedano B. Bettelheim, Sopravvivere, cit., pp. 197-231; P. Levi, I sommersi e i salvati, cit., p. 1020, capitolo "La zona grigia".
49. Alain Finkielkraut, Le combat avec l'Ange, in "Le messager europeen", IV (1990), n. 4, pp. 229-40.
50. B. Bettelheim, Sopravvivere, cit., pp. 36-37.
51. Intervista a Primo Levi, ex deportato, cit., p. 26.
52. Cfr. P. Levi, I sommersi e i salvati. cit., pp. 1054-55, capitolo "La vergogna".
53. "Per una sorta di transfert collettivo, il Giusto tra i Giusti, il campione dell'umano si e' visto attribuire una delega che lo chiamava a pensare e garantire per tutti. Ma a lui chi pensava?" Ernesto Ferrero, Primo Levi. La vita, le opere, Einaudi, Torino 2007, p. 127. Di Ferrero vedi anche Primo Levi in Italia, intervento al convegno La manutenzione della memoria. Diffusione e conoscenza di Primo Levi nei paesi europei, Torino, 9-10-11 ottobre 2003, a cura di Giovanni Tesio, Centro Studi Piemontesi - Regione Piemonte, Torino 2005, pp. 23-31, ora anche (col titolo La solitudine di Primo Levi) in www.ernestoferrero.it
54. P. Levi, I sommersi e i salvati cit., p. 1022.
55. Ivi, p. 1020.
56. Lawrence L. Langer, Legacy in Gray, in Memory and Mastery: Primo Levi as Writer and Witness, a cura di Roberta S. Kremer, State University of New York Press, Albany (N.Y.) 2001, pp. 208-9.
57. Frederic Rousseau, Aux marges de la guerre: le nettoyage des tranchees. Exploration d'une "zone grise" durant la Grande Guerre, in Philippe Mesnard e Yannis Thanassekos (a cura di), La zone grise: entre accommodement et collaboration, Kime', Paris 2010, p. 235. Il saggio, interessante, tratta della "pulizia delle trincee", vale a dire delle operazioni di sgombero e messa in sicurezza del territorio guadagnato. Nella IV parte (pp. 293-390) del citato Gray Zones, a cura di Petropoulos e Roth, il concetto di zona grigia viene fatto interagire con i limiti giuridici ed economici della denazificazione, e con l'autodifesa di una istituzione come la Chiesa protestante.
58. Claudia Card, Women, Evil, and Gray Zones, in "Metaphilosophy", XXXI (ottobre 2000), n. 5, pp. 509-28. Di Card, vedi anche The Atrocity Paradigm. A Theory of Evil, Oxford University Press, New York 2002, specie il capitolo "Gray Zones", pp. 211-34, 260-64.
59. Marco Belpoliti, La "zona grigia", introdotta vent'anni fa da Primo Levi, in "La Stampa", 27 settembre 2006.
60. Alberto Cavaglion, Attualita' (e inattualita') della zona grigia, in Primo Levi. Scrittura e testimonianza, Atti del convegno omonimo (Roma, Sala del Refettorio del Senato della Repubblica, 10 giugno 2004), a cura di David Meghnagi, Libri Liberi, Firenze 2006, p. 45. Il giornalista citato e' Giorgio Bocca.
61. Ibid.
62. Il mito di un'unanime mobilitazione antifascista e antinazista costruito nel dopoguerra era ormai alle spalle, anche se ha una tendenza a riemergere in circostanze politicamente delicate come elemento dell'uso pubblico della storia.
63. Vedi la critica a queste posizioni di Gian Enrico Rusconi, Resistenza e postfascismo, il Mulino, Bologna 1995, cap. I.
64. Pietro Scoppola, 25 aprile. Liberazione, Einaudi, Torino 1995, pp. 47-54.
65. Jacques Semelin, Sans armes face a' Hitler. La resistance civile en Europe, 1939-1943, Payot, Paris 1989.
66. Storia e memoria di un massacro ordinario, a cura di Leonardo Paggi, Manifestolibri, Roma 1996; Michele Battini e Paolo Pezzino, Guerra ai civili. Occupazione tedesca e politica del massacro. Toscana 1944, Marsilio, Venezia 1997; Giovanni Contini, La memoria divisa, Rizzoli, Milano 1997; Paolo Pezzino, Anatomia di un massacro. Controversia sopra una strage tedesca, il Mulino, Bologna 1997; Id., Storie di guerra civile. L'eccidio di Niccioleta, ivi 2001; Id., Sant'Anna di Stazzema: storia di una strage, ivi 2008; Alessandro Portelli, L'ordine e' gia' stato eseguito. Roma, le Fosse Ardeatine, la memoria, Donzelli, Roma 1999; Leonardo Paggi (a cura di), Stragi tedesche e bombardamenti alleati. L'esperienza della guerra e la nuova democrazia a San Miniato (Pisa): la memoria e la ricerca storica, Carocci, Roma 2005; Luca Baldissara e Paolo Pezzino, Il massacro. Guerra ai civili a Monte Sole, il Mulino, Bologna 2009 (questo volume riguarda Marzabotto).
67. Nel caso di Civitella, paese toscano in cui il contrasto fra la memoria prevalente nella comunita' e quella della resistenza era particolarmente acceso, lo Stato si era ridotto a cassare il paese dalle commemorazioni ufficiali.
68. Tzvetan Todorov, Une tragedie francaise. Ete' 1944: scenes de guerre civile, Seuil, Paris 1994.

3. REPETITA IUVANT. ENRICO PEYRETTI PRESENTA "LA CONTA DEI SALVATI" DI ANNA BRAVO
[Riproponiamo il seguente intervento del 6 giugno 2013]

Anna Bravo, La conta dei salvati. Dalla Grande Guerra al Tibet: storie di sangue risparmiato, Laterza, 2013, pp. 245, euro 16.
*
In copertina parla una foto silenziosa: la bambina che, a Sarajevo, nella casa distrutta, protegge il suo bambolotto, con le manine raccolte e col bacio. E' delicata e forte come la pace, fragile, timida, e felice, e vigile. Le fai subito un monumento (cioe': ammonimento), che non chiede piazza ne' marmo, ma solo il tuo sguardo nel suo sguardo, perche' ti rimanga dentro, con la tenacia della speranza mai rassegnata.
Il nuovo libro di Anna Bravo, affermata storica della Resistenza civile, raccoglie documentati fatti di pace-dentro-le-guerre, di arte del "vivere e lasciar vivere" in mezzo alla fiera dell'uccidere: la terza via tra uccidere e morire, indicata dalle donne. "Tra uccidere e morire c'e' una terza via: vivere" (Christa Wolf, Cassandra, e/o, 1997, p. 147).
Non si tratta solo di memorialistica - certo anche questa, di cui l'Autrice, come altre storiche, e' magistrale raccoglitrice - e tanto meno si tratta di leggende buoniste, ma di lavori e ricerche documentate in ogni pagina.
Dopo un'introduzione "Violenza, nonviolenza, storia", i capitoli sono dedicati alle guerre evitate (anche da diplomazie e governi) tra '800 e '900, poi alle molte tregue spontanee e alle fraternizzazioni fra "nemici" da trincea a trincea nella guerra - che non era inevitabile - 1914-18 (l'anno prossimo la ricorderemo con mostre e convegni); un capitolo su Gandhi; due capitoli su "Senza armi contro Hitler" (il titolo della classica raccolta di Semelin), in Italia e in Danimarca; un capitolo sul Kosovo e uno sul Tibet.
La storiografia ufficiale rimbomba di guerre, ma, come la politica, in generale non ha occhi ne' orecchie (emblematica l'ignoranza della lunga esemplare resistenza nonviolenta del Kosovo, prima della guerra) per le arti della pace "invece" delle guerre, e persino "dentro" le guerre. Nessun libro sulle guerre balcaniche racconta la protezione reciproca tra alcuni villaggi bulgari e turchi.
La conta dei salvati (ma il vero piu' giusto titolo e' Storie di sangue risparmiato) e' un libro d'amore, ricco di documentazione, che "salva la vita" perche' salva dalla rassegnazione disperata alla violenza, usurpatrice regina della storia; salva dal vedere la storia umana solo come quell'"immenso mattatoio" che dicono Hegel, Bobbio, e troppi altri. "Le guerre scoppiano quando si smette di cercare la pace", chiarisce Anna Bravo. Ci sono guerre evitate, c'e', prima e persino dentro le guerre, molto "sangue risparmiato". Se cio' e' possibile, se e' tante volte avvenuto, allora e' doveroso. Il principio "si vis pacem para bellum" e' ridicolo e pericoloso come dire ad un alcolizzato "se vuoi guarire vivi in un pub".
"E' un'idea malsana - scrive Anna Bravo - che quando c'e' guerra c'e' storia, e non quando c'e' pace. Il sangue risparmiato fa storia come il sangue versato". Non esagero se mi viene in mente cio' che scrive Leone Ginzburg dell'immenso affresco tolstojano: "Guerra e' il mondo storico, pace il mondo umano", dove storia e' la storia degli eserciti imperiali, non quella degli umani utilizzati come loro gambe, tra i quali c'e' Andrej e c'e' Karataev.
Come nei suoi lavori precedenti, Anna Bravo ascolta e racconta con amore e scienza questa storia della vita contro la morte. Dice che la nonviolenza non e' onnipotente, ma e' potente.
C'e', anche dentro le guerre, una nonviolenza senza nome e senza teoria, senza saper nulla di Gandhi, che e' l'istinto umano profondo del non uccidere, del non distruggere, perche' solo a questa condizione si vive da umani. Questo libro e' una intelligenza illuminata sul bene della storia, sulla pace sottostante a tutti i mali e i dolori, nascosta alla vista breve dell'occhio del potere, della storiografia di corte e di accademia. La violenza e' da denunciare e da smontare nei suoi meccanismi materiali e psicologici, proprio perche' la pace e' possibile, e la guerra e' stupida, sempre assolutamente senza ragioni proporzionate al danno che infligge, come sa l'intelligenza dei semplici e delle donne.
Annita Santemarroni non e' medaglia d'oro, perche' e' gia' d'oro la sua vita, portata a morire a Mauthausen, colpevole di aver fatto vivere, lei madre di figli altrui in pericolo. Perche' aiutare chi ha bisogno di tutto, rischiando tutto? "Non c'e' che fa': s'a' da esse boni", risponde una contadina ciociara, senza medaglia, ne' nome nei patrii annali.
Mi pare che una tesi del libro sia questa: il sistema internazionale puo' essere pacifico, la guerra non e' mai inevitabile. Allora, perche' scoppia? L'industria degli armamenti, e l'idea fallace che le armi difendano, per cui si affamano i popoli per supernutrire gli eserciti antropofagi, insieme alla patologia della paura aggressiva, insieme al calcolo cinico dei profitti di guerra, insieme alla insufficiente convinzione nei popoli del loro potere di veto nonviolento, con la non-collaborazione: queste cause accumulate accendono i fuochi di guerra.
L'aumento degli armamenti riduce la sicurezza (lo mostrava gia' Kant, e lo dimostra la vita privata nelle societa' piu' armate, come gli Usa). Diamo per un momento ancora la parola a Christa Wolf: "Non esiste una pace armata. La pace o e' disarmata o non e' pace - qualsiasi cosa uno pensi di dover difendere. Per due volte, in questo secolo, dalla 'pace armata' e' nata la guerra, e ogni guerra e' stata piu' dura della precedente. Brecht disse esattamente la stessa cosa negli anni Cinquanta: 'Se non ci armiamo avremo la pace; se ci armiamo, avremo la guerra'. Non vedo come si possa pensarla diversamente" (da Premesse a Cassandra).
Il capitolo su Gandhi demitizza il Mahatma, non per screditarne (come fa Domenico Losurdo) il lascito di esperienza e di possibilita' che ci ha consegnato, ma per farlo risaltare realisticamente attraverso i concreti limiti personali (cosi' fa anche Giuliano Pontara in AA.VV., Tra etica e politica. Nuovi saggi su Gandhi, Editrice Apes 2013).
Dice Anna Bravo, nel dibattito avvenuto presso il Centro Studi Sereno Regis, che la seconda guerra mondiale non l'ha vinta nessuno: puo' essere stata necessaria, tardivamente necessaria, ma non giusta. Un libro di storia come questo, che percorre il secolo lungo di guerre vecchie e nuove, e' una contestazione nei fatti di quella violenza filosofica, di quella antropologia militaresca, che afferma la violenza come il vero se' dell'essere umano. L'uomo e' indotto e si lascia indurre alla violenza contro l'uomo, ma e' ugualmente capace di riconoscersi nel nemico. Come quel fante tedesco traumatizzato che urla: "Vedete il nemico laggiu'? Ha un padre e una madre. Ha una moglie. Io non lo uccido".
I vincitori, i generatori di umanita' sono questi, i tantissimi che hanno negato la guerra inceppando dall'interno il suo meccanismo mostruoso, per arrivare domani a demolirlo. Noi siamo figli loro.

4. REPETITA IUVANT. MAO VALPIANA: LETTERA ALLE AMICHE E AGLI AMICI DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
[Dal Movimento Nonviolento riceviamo e diffondiamo, invitando ad aderire alla proposta]

Natale 2019 – Capodanno 2020
Cara amica e caro amico,
inviamo questa mail a tutti coloro che nel corso dell'anno sono entrati in contatto con il Movimento Nonviolento. Vogliamo innanzitutto rinnovare la nostra amicizia e nell'occasione porgere gli auguri per le prossime festivita', il Natale e l'inizio d'anno nuovo.
Il Movimento Nonviolento vive solo grazie a chi decide di assumersi la responsabilita', iscrivendosi, di renderlo strumento utile alla crescita della nonviolenza organizzata.
Per questo ti proponiamo di fare una scelta, sottoscrivendo l'adesione al Movimento, con una quota che comprende anche l'abbonamento alla rivista Azione nonviolenta.
Sappiamo bene che sono crescenti le difficolta' economiche, ma non possiamo pensare che chiunque di noi non abbia la possibilita' di destinare al Movimento 0,15 centestimi al giorno (la quota annuale di 60 euro, divisa per 365 giorni), mentre sappiamo che ognuno di noi paga, per le spese militari, piu' di 1 euro al giorno (la cifra annuale di 25 miliardi, divisa per i cittadini italiani).
60 euro per la nonviolenza, contro 400 euro per le armi. Dobbiamo invertire la proporzione.
Le attivita' ordinarie del Movimento, pur considerando l'enorme impegno su base volontaria e gratuita, hanno dei costi fissi cui dobbiamo quotidianamente fare fronte: gestione della sede nazionale (tasse, bollette, telefono, ecc.), costo del lavoro di segreteria, mantenimento straordinario delle sedi di Ghilarza e Brescia, contributi al lavoro delle reti nazionali ed internazionali (Rete Pace, Rete Disarmo, Beoc, War Resisters International, ecc.), sostegno a campagne e iniziative, spese di viaggi per riunioni e lavori di segreteria, costi per la comunicazione, siti e social, e soprattutto le uscite per la redazione della rivista cartacea (spese tipografia, spedizioni, ecc.).
Contiamo quindi su uno sforzo straordinario di ciascuno, la collaborazione e il contributo di tutti, a partire dell'abbonamento/adesione per il 2020 a partire almeno da 60 euro, tramite il conto corrente postale 18745455 intestato al Movimento Nonviolento, oppure con bonifico bancario con Iban IT 35 U 07601 11700 000018745455 intestato al Movimento Nonviolento, che puo' essere utilizzato anche per liberi contributi (fiscalmente detraibili).
Ricordiamo anche l'importanza di destinare il 5x1000 al nostro Movimento, e di consigliarlo agli amici. Basta una firma e il nostro codice fiscale 93100500235.
Se desideri ricevere regolarmente le nostre comunicazioni, mandaci la tua mail per l'indirizzario informatico. Invia a: amministrazione at nonviolenti.org, con oggetto "per lista iscritti MN".
Grazie e auguri di pace per te e i tuoi cari.
Mao Valpiana, presidente del Movimento Nonviolento
*
Per informazioni e contatti: Movimento Nonviolento, sezione italiana della W.R.I. (War Resisters International - Internazionale dei resistenti alla guerra)
Sede nazionale e redazione di "Azione nonviolenta": via Spagna 8, 37123 Verona (Italy)
Tel. e fax (+ 39) 0458009803 (r.a.)
E-mail: azionenonviolenta at sis.it
Siti: www.nonviolenti.org, www.azionenonviolenta.it

5. SEGNALAZIONI LIBRARIE

Letture
- Pilar Pascual, Colette, Rba, Milano 2019, pp. 192, euro 9,99.
- Un certo Julio. Vita di Cortazar illustrata da Rep. Bonus track: "Cortazar lettore", un'intervista di Sara Castro-Klaren, Sur, Roma 2014, pp. 96, euro 8.
*
Riletture
- Orhan Pamuk, Il libro nero, Einaudi, Torino 2007, Mondolibro, Milano 2008, pp. IV + 506.
- Goffredo Parise, Il prete bello, Garzanti, Milano 1965, 1973, pp. 264.

6. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO

Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli.

7. PER SAPERNE DI PIU'

Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it
Tutti i fascicoli de "La nonviolenza e' in cammino" dal dicembre 2004 possono essere consultati nella rete telematica alla pagina web: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/

TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 3607 del 3 gennaio 2020
Telegrammi quotidiani della nonviolenza in cammino proposti dal "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza (anno XXI)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: centropacevt at gmail.com , sito: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/
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Nuova informativa sulla privacy
Alla luce delle nuove normative europee in materia di trattamento di elaborazione dei  dati personali e' nostro desiderio informare tutti i lettori del notiziario "La nonviolenza e' in cammino" che e' possibile consultare la nuova informativa sulla privacy: https://www.peacelink.it/peacelink/informativa-privacy-nonviolenza
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