[Nonviolenza] Senza odio, senza violenza, senza paura. 25



 

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SENZA ODIO, SENZA VIOLENZA, SENZA PAURA

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Al referendum votiamo No alla riforma costituzionale golpista

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Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino" (anno XVII)

Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100

Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it, centropacevt at gmail.com, web: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/

Numero 25 del 12 ottobre 2016

 

In questo numero:

1. Un parlamento eletto dal popolo, uno stato di diritto, una democrazia costituzionale. Al referendum votiamo No al golpe

2. Norberto Bobbio ricorda Lelio Basso

3. Vittorio Foa ricorda Lelio Basso

4. Antonio Giolitti ricorda Lelio Basso

5. Stefano Rodota' ricorda Lelio Basso

 

1. REPETITA IUVANT. UN PARLAMENTO ELETTO DAL POPOLO, UNO STATO DI DIRITTO, UNA DEMOCRAZIA COSTITUZIONALE. AL REFERENDUM VOTIAMO NO AL GOLPE

 

Al referendum sulla riforma costituzionale voluta dal governo votiamo No.

No al golpe, no al fascismo, no alla barbarie.

Al referendum sulla riforma costituzionale voluta dal governo votiamo No.

Senza odio, senza violenza, senza paura.

*

Il Parlamento, l'istituzione democratica che fa le leggi, deve essere eletto dal popolo, e deve rappresentare tutti i cittadini con criterio proporzionale.

Ma con la sua riforma costituzionale il governo vorrebbe ridurre il senato a una comitiva in gita aziendale, e con la sua legge elettorale (il cosiddetto Italicum) vorrebbe consentire a un solo partito di prendersi la maggioranza assoluta dei membri della camera dei deputati anche se ha il consenso di una risibile minoranza degli elettori, e con il "combinato disposto" della riforma costituzionale e della legge elettorale il governo, che e' gia' detentore del potere esecutivo, vorrebbe appropriarsi di fatto anche del potere legislativo, rompendo cosi' quella separazione e quell'equilibrio dei poteri che e' la base dello stato di diritto.

Se prevalessero le riforme volute dal governo sarebbe massacrata la Costituzione repubblicana nata dalla Resistenza antifascista, sarebbe rovesciata la democrazia, sarebbe negata la separazione dei poteri e quindi lo stato di diritto.

*

Al referendum sulla riforma costituzionale voluta dal governo votiamo No.

No al golpe, no al fascismo, no alla barbarie.

Al referendum sulla riforma costituzionale voluta dal governo votiamo No.

Senza odio, senza violenza, senza paura.

 

2. MAESTRI. NORBERTO BOBBIO RICORDA LELIO BASSO

[Dal sito www.leliobasso.it riprendiamo il seguente ricordo di Lelio Basso, tratto da AA.VV., Socialismo e democrazia. Rileggendo Lelio Basso, Concorezzo, Gi. Ronchi Editore, 1992 che raccoglie le relazioni e gli interventi dell'omonimo convegno svoltosi a Milano nel 1988.

Norberto Bobbio (Torino, 1909-2004), filosofo e giurista. Antifascista vicino alle posizioni di "Giustizia e liberta'". Docente di Filosofia in varie universita', dal 1984 senatore a vita. Il suo pensiero e' considerato uno dei principali punti di riferimento politico e culturale della sinistra italiana]

 

Ricordavamo spesso di esserci conosciuti la prima volta all'inizio degli anni Trenta in una scampagnata guidata da Barbara Allason a Pecetto, dove essa aveva una casa di campagna.

Era probabilmente quella giornata di Pasquetta che nelle "Memorie di un antifascista" la vecchia amica Barbara descrisse cosi': "fu una lieta giornata quella Pasquetta del 1933 che passammo nel mio paese in collina, tra quello sbocciare di alberi fruttiferi che ammanta i colli di una meravigliosa fioritura bianca e rosata".

La festa era stata organizzata per fare conoscere agli amici torinesi la giovane coppia dei Basso. Per quanto io allora frequentassi ambienti antifascisti degli antifascisti militanti sapevo ben poco. Dubito che allora sapessi che quel giovane avvocato era stato un collaboratore di "Rivoluzione liberale" e fosse gia' noto come scrittore politico. Dopo quell'incontro sentii riparlare di lui quando negli anni della cospirazione si ebbe notizia della formazione di un gruppo clandestino che si era staccato dal PSI con propositi di profondo rinnovamento: il Movimento di unita' proletaria, cui aderirono molti amici che avremmo voluto avere come compagni nell'allora sorto Partito d'azione. Uno dei fondatori del movimento era stato Lelio Basso e il suo nome spiccava tra quelli dei piu' autorevoli animatori dei gruppi di opposizione al fascismo. Quando e come ci si sia ritrovati dopo la Liberazione non saprei dire, tanto viva e' la mia memoria delle vicende legate alla liberazione, tanto sfocata quella degli anni successivi in cui tornai all'insegnamento e agli studi. Fu soltanto in occasione del mio primo pubblico dibattito politico, i cui documenti furono poi raccolti nel volume "Politica e cultura", uscito alla fine del 1955, che ebbi un invito a partecipare a una serie di conferenze organizzate dalla Casa della cultura di Milano su vari aspetti della democrazia. L'invito mi era stato trasmesso da Lelio Basso. Mi era stato assegnato il compito di parlare di "democrazia rivoluzionaria e democrazia liberale", mentre Basso si era proposto di trattare il tema "democrazia e paesi sottosviluppati", un tema che mostrava chiaramente sin da allora una costante direzione dei suoi interessi destinati a diventare quasi prevalenti negli ultimi anni. Gli scrissi per proporgli di cambiare il tema assegnato in uno a me più congeniale "democrazia e liberalismo". Ci davamo ancora del lei: "Caro onorevole", "Caro professore".

Conservo ancora la lettera del 24 dicembre 1954 in cui mi concedeva di parlare dell'argomento che gli avevo proposto, ma, forse perche' gli era parso troppo dottrinale, insisteva che gli organizzatori volevano porre l'accento, oltre che sulle idee, sulle circostanze storiche in cui concretamente queste idee hanno potuto in tutto o in parte realizzarsi e sulle forze sociali da cui erano state espresse. Per uno come me, che dopo lo scioglimento del Partito d'azione si era ritirato dalla politica attiva, la notorieta' di Basso era dovuta non solo alla sua azione politica, ma alla sua attivita' di membro dell'Assemblea costituente nella quale, sia per la sua preparazione di giurista sia per la sua cultura storico-politica, egli fu indubbiamente uno dei protagonisti. Ho gia' avuto occasione di ricordare altrove che il dibattito politico di quegli anni, accesissimo, tra il pullulare di riviste di battaglia spesso nate morte e i dibattiti in Parlamento, fu molto povero di solidi libri di storia e di teoria politica.

Uno dei pochi che merita di essere ricordato e' il "Principe senza scettro" uscito da Feltrinelli nel 1958 che, pur essendo un'opera essenzialmente di polemica politica contro la democrazia dimezzata quale era quella attuata in Italia sotto l'egemonia democristiana, conteneva una parte di storia della democrazia che rivelava l'attitudine dello studioso che non venne mai meno nonostante il forte e continuo impegno politico.

Fu nello stesso 1958 che avvenne uno dei nostri primi scambi di idee che continuarono poi per molti anni, privatamente per lettera o pubblicamente in convegni. Mi e' accaduto spesso di sentir iniziare un suo intervento con queste parole. "Mi dispiace di non essere ancora una volta d'accordo con l'amico Bobbio", si discutesse di guerra e pace a Milano o di nonviolenza a Perugia. Ma io sono sempre stato un moderato. Con Calamandrei ritenevo che i modelli di socialismo per il nostro paese dovessero essere il laburismo inglese e la socialdemocrazia svedese e che il marxismo, come guida teorica del socialismo, avesse fatto il suo tempo. Basso, invece, era un marxista convinto, seppure alieno, da quello spirito libero che era, da ogni forma di bigotteria. Quale fosse lo scritto che egli mi aveva mandato non saprei dire, ne' ho conservato la mia lettera in cui evidentemente lo rimproveravo di avere parlato male di Turati. Probabilmente si trattava di uno scritto su Turati pubblicato sul secondo fascicolo di "Problemi del socialismo" di quello stesso anno. Mi rispose il I maggio del 1958 (ci davamo ancora del lei) dicendomi che mi dava ragione sul fatto che il PSI aveva sempre oscillato tra una via e l'altra, ma, contrariamente a me, non ne deduceva che una terza via non si potesse trovare. Mi ricordava il libretto appena scritto "Partito socialista italiano" e un articolo su "Nuovi argomenti" per ulteriori chiarimenti. Si trattava dell'articolo "La via pacifica al socialismo e la realta' italiana di oggi" (nota bene: egli preferiva parlare di via pacifica anziche' di via democratica) pubblicato sull'ultimo numero del 1957. Il primo passo su questa via era l'attuazione della Costituzione, il cui cardine era, come ebbe a dire piu' volte, l'articolo 3 che considerava un po' come una sua creatura, vale a dire il passaggio dalla democrazia formale a quella sostanziale, passo che non doveva essere concepito come un balzo unico e improvviso, ma come un processo lento e continuo sino a che le vecchie classi avessero perduto la forza di opporsi con la violenza, rendendo cosi' anche superfluo l'uso della violenza rivoluzionaria. La proposta politica si poggiava su un'analisi spietata della storia della politica attuale della nostra classe dirigente, che non aveva mai avuto ne' tradizioni ne' spirito democratici, e del resto era possibile - egli si chiedeva - un'autentica democrazia in una societa' capitalistica che restava una societa' di classe?

Intanto uno dei presupposti per l'attuazione di questa nuova via al socialismo era quella di respingere la tentazione di un'alleanza con la Democrazia cristiana. Solo un'alternativa di sinistra avrebbe potuto dare inizio a quel lungo processo di allargamento delle basi della democrazia da cui sarebbe nato il nuovo stato socialista. Di questa tesi si fara' portatore nel documento preparato per il XXXIII congresso socialista, svoltosi a Napoli nel 1959, in cui, contro coloro che si abbandonavano alle illusioni di una "apertura a sinistra" della DC, riaffermava la tesi, cui sarebbe rimasto fedele sino all'uscita dal partito di cui pure era stato uno dei fondatori, che "solo una politica che si presenti come una alternativa alla DC e' oggi una politica che risponde agli interessi dei lavoratori e della democrazia". Nella lettera menzionata spiegava: "Anche questa via e' fatta di riforme, ma - e questo mi pare il punto essenziale di differenziazione dal riformismo - di riforme che siano sempre nella linea di un accrescimento di potere delle masse lavoratrici e quindi di una modifica strutturale del sistema, e non, come accade per il riformismo turatiano di cui ho parlato e come accadrebbe per un'eventuale apertura a sinistra, nella linea di un appoggio a un rafforzamento del sistema". Di questa posizione avrebbe tratto con coerenza tutte le conseguenze pochi anni dopo.

Basso si considero' sempre marxista, ma come e' ben noto il marxismo cui si ispirava fu quello basato sull'interpretazione di Rosa Luxemburg, che all'inizio del secolo aveva rifiutato il revisionismo bernsteiniano, e in seguito rifiutera' anche l'autoritarismo di Lenin. All'inizio degli anni '60 ebbimo uno scambio di conversazioni e di lettere per un'eventuale pubblicazione di una raccolta di scritti della Luxemburg che egli aveva proposto a Einaudi e di cui egli stesso aveva curato in tempi diversi la traduzione. Di fatto poi i suoi libri luxemburghiani uscirono altrove, per ragioni che non mi riesce piu' di ricordare. Ricordo invece benissimo che a nome del Centro Piero Gobetti, con il quale egli aveva sempre mantenuto rapporti amichevoli (ma sui rapporti tra Basso e Gobetti ci sarebbe un lungo e interessante studio da fare), lo invitai a tenere la prolusione nel giorno dell'inaugurazione annuale del Centro, che cade in febbraio, mese della morte di Gobetti, appunto su Rosa Luxemburg.

Basso era un oratore efficacissimo che ho sempre ammirato e un po' anche invidiato. Non indulgeva all'eloquenza comune agli uomini politici che sono anche avvocati. Era chiaro, rapido, tagliente, persuasivo. Sarebbe stato un bravissimo docente universitario. Ne ero talmente convinto che lo invitai due volte a tenere un seminario agli studenti dell'Istituto di scienze politiche quando nei primi anni '60 (il '68 era alle porte) mi rendevo conto che gli studenti volevano ascoltare altre voci e occorreva rompere l'isolamento dell'Universita' e avvicinarla alla societa' e alle battaglie civili che vi si combattevano. Basso era l'uomo adatto. La sua forte vocazione politica non l'aveva mai distolto dagli studi, di cui erano nutriti i suoi saggi e i suoi discorsi, pubblicati nelle più diverse riviste italiane e straniere. Tra queste "Problemi del socialismo" si era subito contraddistinta come rivista di seria cultura politica. Proprio per queste sue qualita' di uomo di cultura non dilettantesca egli fu uno dei non molti politici italiani i cui scritti siano stati ampiamente pubblicati su riviste di altri paesi e fu noto fuori d'Italia anche per l'attivita' spesa per il Tribunale dei popoli.

Uno degli ultimi incontri avvenne a Bologna tra il 24 e il 26 dicembre 1977 in un convegno dedicato a Rodolfo Mondolfo. Ne ho un ricordo vivissimo, sia per la serata trascorsa tra amici in una trattoria bolognese in cui Lelio tenne in mano il filo della conversazione raccontando alcune storielle divertenti con un brio straordinario (una di queste la ricordo ancora e mi e' accaduto di raccontarla seppure senza il medesimo successo), sia per una famosa nevicata che aveva bloccato la stazione e gli impedi' di partire e lo fece tornare al convegno anche l'ultima mattinata. Fu proprio durante l'ultima parte di questo convegno che egli mi rivolse alcune garbate critiche, che erano in realta' critiche a Mondolfo che io avevo difeso perche', avendo accolto allora le tesi dei menscevichi, aveva previsto quello che sarebbe avvenuto, vale a dire che sarebbe stata inevitabile la dittatura. Basso sostenne - ho conservato alcuni appunti delle sue osservazioni - che Mondolfo aveva avuto ragione teoricamente, ma non politicamente.

Un ulteriore scambio di idee - anche questo caratterizzato da un amichevole contrasto - avvenne pochi mesi prima della sua morte. L'avevo questa volta interrogato sul tema dell'estinzione dello Stato, non ricordo a proposito di quale suo scritto. Mi rispose con una lunga lettera del 18 maggio 1978, spiegando che la questione era in gran parte una logomachia, perche' Marx distingue due funzioni dello Stato, lo stato amministrativo e quello politico (che e' lo stato di classe che si serve della forza per governare), e solo di quest'ultimo prevedeva l'estinzione. Alla mia idea fissa di allora, non esservi in Marx una vera e propria teoria dello Stato, rispondeva che a Marx non interessava dare ricette per l'avvenire, ma descrivere la teoria di un processo e "questa ce l'ha data come poteva darcela uno che era uno studioso e non un indovino". Alla mia replica sullo stato attuale dell'Unione Sovietica che contraddiceva questo processo rispose con un'altrettanto lunga lettera del 27 giugno accennando a un libro cui stava lavorando da alcuni anni, in cui voleva dimostrare che Marx non aveva avuto veri e propri continuatori e che il leninismo aveva ben poco a che fare con il marxismo. D'accordo quindi con me con le critiche al socialismo reale, che pero' egli non considerava marxismo. D'accordo anche con coloro per cui il marxismo era in "crisi totale", il che non scalfiva minimamente il pensiero originale di Marx. Concludeva con questa frase che meglio di un lungo discorso da' la misura della serieta' del suo impegno e della fermezza dei suoi ideali: "Riprendere il genuino pensiero di Marx e' stato lo scopo della mia vita di militante anche se, in questa come in tante altre cose, sono andato incontro a sconfitte, che non mi hanno disanimato, sicche' intendo ancora continuare questa battaglia".

L'ultimo nostro dibattito pubblico avvenne due mesi prima della sua morte, nell'ottobre 1978, a Perugia, durante un convegno su "Nonviolenza e marxismo nella transizione al socialismo", svoltosi per iniziativa della fondazione Capitini. Nella mia relazione avevo contrapposto il religioso, di cui vedevo un esempio in Capitini, al rivoluzionario, che vedevo rappresentato nella tradizione marxistica, in base al criterio del rifiuto o dell'accettazione della violenza. Nel suo intervento Basso disse che mi conosceva da 45 anni, dal 1933 (ed era esattissimo), e mi stimava; poi aggiunse: "Credo che (Bobbio) Marx l'abbia letto poco, perche' veramente tutto che scrive non ha niente a che fare con Marx; ha solo a che fare con quello che i deformatori hanno chiamato marxismo".

La battaglia era cominciata molto presto per lui, come racconta nel breve ma denso opuscoletto scritto nel '71, "La mia prima tessera socialista": comincio' nel momento in cui aveva preso coscienza nel primo dopoguerra della tragica realta' delle ingiustizie sociali e si trovo' d'istinto - come scrive - "dalla parte delle masse". Il socialismo gli si era presentato come un grande moto di redenzione umana; a questo moto diede per tutta la vita un contributo di lucida intelligenza e di irrefrenabile azione, con un'energia vitale e con una passione che gli anni e le delusioni politiche non diminuirono. Non aveva mai cercato il potere e per questo aveva fatto, quando era necessario, parte per se stesso, ma non era mai stato un isolato. Amava la compagnia dei giovani, cercava nei giovani quel fervore ideale che troppi compagni perdutisi nella lotta politica quotidiana avevano lasciato spegnere. Non aveva illusioni, ma non si abbandonava mai allo sconforto, aveva ferma la convinzione che questo grande moto di redenzione umana che era stato il socialismo era piu' vivo che mai nei paesi del Terzo Mondo che combattevano per la propria indipendenza. Aveva capito che in una prospettiva mondiale la storia del socialismo, contrariamente a quello che pensano coloro cui la paura di perdere il potere ha reso la vista corta, era appena cominciata.

 

3. MAESTRI. VITTORIO FOA RICORDA LELIO BASSO

[Dal sito www.leliobasso.it riprendiamo il seguente ricordo di Lelio Basso, tratto da intervista a Vittorio Foa di Giancarlo Monina, in Fondazione Lelio e Lisli Basso, La via alla politica. Lelio Basso, Ugo La Malfa, Meuccio Ruini protagonisti della Costituente, a cura di Giancarlo Monina, Milano, Angeli, 1999.

Vittorio Foa (Torino, 1910 - Formia, 2008), all'inizio degli anni trenta e' nel movimento di "Giustizia e Liberta'", fino a quando nel 1935 viene arrestato e rinchiuso nel carcere di Civitavecchia. Liberato nell'agosto 1943 partecipa alla Resistenza come dirigente del Partito d'Azione. Nel 1946 viene eletto all'Assemblea costituente e nel 1948 entra nella Cgil. Tra gli anni cinquanta e sessanta e' deputato socialista, segretario nazionale della Fiom e membro della segreteria nazionale della Cgil. Nel 1964 aderisce al Psiup. Dagli anni settanta si impegna nello studio diventando una delle voci piu' autorevoli della sinistra italiana. Nel 1991 e' eletto senatore del Partito democratico della sinistra]

 

[...] Quando andai con Riccardo Lombardi ad assistere al Congresso della Citta' universitaria [XXV Congresso del Psi tenutosi a Roma nel gennaio 1947] e sentimmo la relazione introduttiva di Basso, uscendo ci dicemmo che quello sarebbe stato il nostro partito, anche se poi abbiamo avuto motivi di esitazione.

Che cos'e' che ci piaceva e ci attraeva? Era la radicalita' del linguaggio che esprimeva la forza di un'idea, il fatto che l'idea non fosse proposta subito per essere mediata e verificata nella sua fattibilita' immediata, ma era di per se' considerata come un'arma di lotta, era l'idea stessa che doveva sfondare gli ostacoli. Questo mi sembra una caratteristica di Basso; il suo socialismo poteva essere discusso da mille punti di vista, ma in lui l'idea era considerata come una forza, un'arma di lotta immediata.

Una seconda importante considerazione su Basso e' che non ha mai ceduto allo stalinismo. A questo proposito io insisto molto su quello che chiamo l'anno della vergogna per il Psi, il 1951, l'anno delle bugie. Basso in quel periodo si e' salvato, avra' fatto forse dei compromessi anche lui, ma si e' salvato. Sono disposto a verificare se ci sono caduto anche io in quella vergogna, ma credo di no. [...]

 

4. MAESTRI. ANTONIO GIOLITTI RICORDA LELIO BASSO

[Dal sito www.leliobasso.it riprendiamo il seguente ricordo di Lelio Basso, tratto da Fondazione Internazionale Lelio Basso - Fondazione Lelio e Lisli Basso-Issoco - Lega internazionale per i diritti e la liberazione dei popoli, Lelio Basso e le culture dei diritti, Atti del Convegno internazionale, Roma, 10-12 dicembre 1998, Roma, Carocci, 2000.

Antonio Giolitti (Roma, 1915-2010), militante comunista negli anni quaranta, partecipa alla Resistenza nel Piemonte. Deputato all'Assemblea costituente e alla Camera nelle prime due legislature. Nel 1957 lascia il Partito comunista e aderisce al Partito socialista di cui e' deputato fino al 1985. Ministro del Bilancio nel primo governo Moro (1963). Nel 1987 e' senatore della Sinistra indipendente. E' stato presidente della Fondazione Lelio e Lisli Basso-Issoco]

 

Esattamente dieci anni fa veniva organizzata a Milano una mostra per ricordare la figura e l'opera di Lelio Basso intitolata Ripensare il socialismo: la ricerca di Lelio Basso. I termini allora utilizzati, "ripensare" e "ricerca", mi sembrano le parole chiave per comprenderne il pensiero e l'azione, quel suo non acquietarsi nell'ortodossia e meno che mai nel dogma, come sta dimostrando anche questo convegno articolato intorno alle vaste e profonde aree politiche e culturali che egli ando' esplorando e scavando.

Ho ricordato la mostra di dieci anni fa, ma ancora dieci anni prima venne pubblicato un volume che faceva seguito a un convegno organizzato dall'Istituto per la storia della Resistenza in provincia di Alessandria, al quale mi trovai a partecipare come parlamentare socialista eletto in quella circoscrizione, intitolato Lelio Basso nella storia del socialismo, dove Guido Quazza, nella prefazione, metteva in evidenza: "il gusto profondo di Basso per l'analisi dottrinale e il discorso di sistema".

In questo mio intervento mi limito a indicare soltanto alcune delle fonti cui ho attinto per ravvivare il ricordo del pensiero e dell'azione di Lelio Basso [...]

Mi e' capitato in sorte di concludere la mia vita attiva nella politica e nella cultura della sinistra proprio con la presidenza della Fondazione Basso - Issoco, poco meno di dieci anni fa; ma il mio impegno politico e culturale, dopo l'esplorazione e gli esordi degli ultimi anni trenta e dei primi anni quaranta, aveva gia' trovato molti stimoli, sin dai mesi successivi alla liberazione, nell'attivita' di partito e nell'Assemblea costituente, nel pensiero di Lelio Basso. Un pensiero particolarmente attraente per chi come me associava all'impegno politico nel Partito comunista italiano l'assillo di una ricerca critica nella piu' vasta area culturale della sinistra. Basso volle intitolare la sua rivista "Problemi" e non "certezze" del socialismo e il suo articolo apparso nel primo numero del gennaio 1958 affrontava il problema piu' arduo e complesso: quello del rapporto tra Marxismo e democrazia. Proprio per questa sua irrequietezza e questa sua continua ricerca, Lelio Basso non era in odore di santita' in una sinistra dove il maggior partito tendeva a professare e a proclamare certezze.

Storia di Lelio Basso reprobo intitolo' con ironia De Martino un suo scritto sulla rivista "Belfagor", nel luglio del 1980, in cui trattava la vicenda che si svolse tra il Congresso di Firenze del 1949 e quello di Bologna del 1951 e che si concluse con il consolidamento della maggioranza di sinistra, capeggiata da Nenni e Morandi, e con l'esclusione di Lelio Basso accusato di frazionismo e di attivita' nociva all'unita' del Partito. Il dissenso di Basso si trova esplicitamente e chiaramente motivato in una sua lettera a Nenni precedente il Congresso di Firenze del 1955 e pubblicata nel 1962 da Giovanni Bosio nel suo Giornale di un organizzatore di cultura. I motivi piu' rilevanti di tale dissenso consistevano nella rivendicazione di una "linea di sinistra piu' coerente di quella di altri giunti in ritardo a convinzioni leniniste - il riferimento e' probabilmente a Rodolfo Morandi - nella conferma del proposito di battersi per il superamento dei partiti esistenti e la creazione di un solo partito della classe operaia, nella esigenza di un rafforzamento strutturale del Partito socialista per porlo in grado di promuovere tale processo nella critica di una concezione del partito come subordinato alla guida comunista".

Due anni prima dell'esordio della sua rivista, nel memorabile anno 1956, Lelio Basso pubblico' su "Mondo Operaio" del mese di luglio un articolo che ben ricordo per la sua profondita' e ampiezza di analisi; proprio in un momento in cui simili contributi, per altro assai rari, andavamo ansiosamente cercando. Si intitolava L'esperienza sovietica e la dittatura del proletariato ed era ospitato nella rubrica "Problemi del socialismo". Si trattava di un contributo di analisi critica rigorosamente marxista con sostanziosi riferimenti luxemburghiani.

All'indomani del 25 luglio 1943, in un momento di morte e di resurrezione nella storia d'Italia di questo secolo, Basso sollecito' e quasi invoco', in un articolo intitolato La ricostruzione del Partito Socialista Italiano: "la ricerca di un partito impregnato di spirito nuovo, non legato a strategie e a formule superate (...). Tra le formule e le strategie superate consideravamo anche quelle di cui erano state espressione l'Internazionale socialista e l'Internazionale comunista ormai sciolte entrambe e la cui resurrezione ci appariva suscettibile di cristallizzare il movimento operaio su posizioni e lacerazioni che nella nostra coscienza erano superate".

Notevole, per rigore marxista e consapevolezza della dimensione internazionale dei problemi della trasformazione economica e sociale, anche la relazione di cinquantacinque pagine letta al convegno Tendenze del capitalismo europeo, organizzato a Roma dall'Istituto Gramsci nel giugno del 1965, e poi pubblicata in volume da Laterza nel 1969 col titolo Neocapitalismo e sinistra europea. Fortemente influenzato dalla sua ostilita' nei confronti del centro-sinistra italiano e, naturalmente, nei confronti delle sempre esecrate e vilipese socialdemocrazie, resta tuttavia ancora oggi un valido contributo di analisi e di critica stimolante e illuminante, paradossalmente proprio per la sua inattualita'. Nonostante infatti quell'errore di giudizio storico e politico nei confronti delle socialdemocrazie, Lelio Basso seppe cogliere con lungimirante chiaroveggenza il significato e la portata della nuova dimensione europea [...] e del nuovo ambito geopolitico della nozione marxista di proletariato, una nozione resa obsolescente per effetto delle politiche economiche e sociali delle socialdemocrazie, nell'ambito dei paesi economicamente sviluppati. Basso seppe restituire un significato "diagnostico" e "terapeutico" a quella nozione di proletariato collocandola in una dimensione mondiale, guardando cioe' alle vaste aree continentali del sottosviluppo, della emarginazione, della miseria. E ancora una volta seppe e volle unire pensiero e azione, cultura e politica, promuovendo la Fondazione internazionale e la Lega Internazionale per il diritto e la liberazione dei popoli [...].

 

5. MAESTRI. STEFANO RODOTA' RICORDA LELIO BASSO

[Dal sito www.leliobasso.it riprendiamo il seguente ricordo di Lelio Basso, testo del discorso pronunciato il 15 novembre 1988 nella sala Zuccari di palazzo Giustiniani, e pubblicato in "Annali della Fondazione Lelio e Lisli Basso", vol. X (1989).

Stefano Rodota', (Cosenza, 1933), tra i protagonisti della vita politica italiana, e' stato deputato come indipendente nelle liste del Pci e poi del Pds, piu' volte membro di commissioni parlamentari e vicepresidente della Camera dei Deputati. Docente di diritto civile all'Universita' di Roma "La Sapienza", ha presieduto per vari anni la Fondazione Lelio e Lisli Basso-Issoco. Dal 1997 primo presidente dell'Ufficio del Garante per la protezione dei dati personali. Ha partecipato, su incarico del Governo italiano, alla redazione della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, approvata a Nizza nel dicembre 2000]

 

C'e' un'irresistibile, e mai sopita, vocazione costituente che accompagna Lelio Basso per l'intero arco d'una vita che lo vide protagonista di vicende politiche e sociali, studioso e uomo d'azione insieme. Una vocazione che emerge prepotentemente all'Assemblea costituente, ma che negli anni successivi trova continue manifestazioni e conferme sempre piu' consistenti. C'e' il rilancio del Tribunale Russell, con un'iniziativa che si allarghera' e trovera' forma stabile nella Lega internazionale per la liberazione e i diritti dei popoli, c'e' la riapertura del dibattito sull'art. 7 della Costituzione, con quella mozione che porta il suo nome e che dara' l'avvio al processo di revisione del Concordato (poi concluso in un modo che non gli sarebbe piaciuto), ci sono le innumerevoli imprese di organizzazione culturale e politica, che si consolideranno nella Fondazione che porta il nome suo e della moglie Lisli; c'e' una vera, grande reinterpretazione del ruolo dei diritti nel tempo di oggi, con la carta di Algeri, laDichiarazione universale dei diritti dei popoli del 1976.

Vocazione costituente, dunque. Ma, insieme, proclamazione rivoluzionaria. Perche' di Basso puo' certo dirsi quel che egli ha detto di altri, l'essere stato "dominato tutta la vita dalla sua passione rivoluzionaria". E il tema della rivoluzione, delle sue possibilita' e modalita' nell'epoca nostra, e' centrale nella sua riflessione teorica e nella sua azione politica: che cerco' sempre di congiungere, perche' questa congiunzione - come ha ricordato Antonio Giolitti - "era intrinseca alla sua concezione stessa del socialismo", parendogli che cosi' soltanto si potesse rimanere fedeli al "momento piu' vitale della strategia marxista, cioe' la presenza cosciente dello scopo finale in ogni obiettivo parziale". E aggiungeva: "se questa presenza del salto rivoluzionario nell'azione di ogni giorno si oscura, il movimento rischia di essere facile preda di un empirismo che lo rende subalterno ai meccanismi della societa' capitalistica e che e' alla radice dei processi di integrazione". Questa non e' solo una dichiarazione di principio: e' il criterio che, sul filo degli anni, orientera' il suo giudizio sui partiti della sinistra italiana e che sta a fondamento di quel discorso di commiato dal PSI che fu l'intervento con il quale, nel dicembre del 1963, a nome suo e di altri ventiquattro deputati, nego' la fiducia al nascente governo di centro-sinistra.

Ancor piu' nitidamente questo punto si coglie nel rifiuto di adoperare la "grossolana distinzione, che domino' la Seconda internazionale, tra riformisti e rivoluzionari". "Distinzione grossolana - diceva - almeno dal punto di vista marxiano, perche' una semplice somma di riforme che non rispondano a determinati requisiti non porteranno mai al socialismo, e la conquista violenta del potere non puo' da sola creare il socialismo se prima non ne sono state gettate le basi all'interno della societa' capitalistica". Da qui l'insistita sua interpretazione della rivoluzione come processo, dando particolare rilievo a un passo solitamente poco citato di Marx, dove il processo rivoluzionario viene definito come "la partecipazione cosciente della classe operaia ai processi che si sviluppano gia' all'interno della societa' capitalistica". Partecipazione, dunque. E che cosa aveva detto Basso all'Assemblea costituente intervenendo nella discussione sul progetto di Costituzione? "Noi pensiamo che la democrazia si difende, che la liberta' si difende non diminuendo i poteri dello Stato, non cercando di impedire o di ostacolare l'attivita' dei poteri dello Stato, ma al contrario, facendo partecipare tutti i cittadini alla vita dello Stato (...). Solo se noi otterremo che tutti siano effettivamente messi in condizione di partecipare alla gestione economica e sociale della vita collettiva, noi realizzeremo veramente una democrazia". La sua visione del processo rivoluzionario e la sua azione istituzionale, lungi dall'entrare in conflitto, si congiungono cosi' intorno alla "partecipazione". Ma, per comprendere un atteggiamento profondo piu' che per sciogliere una contraddizione che non c'e', conviene andare oltre, approdare a Rosa Luxemburg, a colei che Basso amava nominare familiarmente (non diro' teneramente) soltanto come Rosa, nel cui lavoro scorgeva l'inveramento pieno della lezione di Marx nel nostro tempo. Si' che mi pare che il suo insistito riferimento a uno scritto di Gyorgy Lukacs sulla Luxemburg - prima ricordato come quello che lo rese "cosciente" dell'importanza teorica del pensiero luxemburghiano, poi menzionato con rammarico per la mancata autorizzazione al suo inserimento nell'antologia di scritti di Rosa curata da Lelio - quel riferimento insistito fosse dovuto assai al titolo evocativo dello scritto, Rosa Luxemburg als marxist, che ai suoi occhi doveva simboleggiare appunto l'incarnazione nella Luxemburg della tradizione marxista. Che cosa diceva Rosa? "La dialettica storica si compiace per l'appunto di contraddizioni e pone nel mondo per ogni necessita' anche il suo contrario. Il dominio di classe borghese e' senza dubbio una necessita' storica, ma anche la sollevazione della classe lavoratrice, contro di esso; il capitale e' una necessita' storica, ma anche la sua caduta, per opera dell'internazionale proletaria. A ogni passo si incontrarono due necessita' storiche, che sono in contraddizione l'una con l'altra". Commenta Basso: "nessuno studioso di Marx, ma neppure lo stesso Marx, ci aveva descritto prima di allora il processo storico globale come l'arena dove si svolge ogni giorno questo conflitto, e dove percio' ogni aspetto della societa', ogni istituzione, ogni avvenimento risente della presenza contemporanea, nel proprio interno, delle due tendenze opposte che dilacerano la societa', delle due necessita' storiche che si contendono il sopravvento".

Contraddizione e conflitto, e partecipazione dei lavoratori, ci conducono cosi' al capolavoro istituzionale di Basso (assistito dalla fiduciosa sapienza giuridica di Massimo Severo Giannini): all'art. 3 della Costituzione, e soprattutto a quel suo secondo comma sull'eguaglianza sostanziale che innesta sul tronco istituzionale la contraddizione sociale, che forza le istituzioni a misurarsi con il conflitto tra esclusione e partecipazione.

Cosi' Basso non costruisce il momento istituzionale come la sanzione o la legittimazione dell'esistente: per lui il diritto non scende alla sera, non ha per nulla un ruolo notarile. Al contrario. L'assunzione dell'eguaglianza sostanziale tra i principi fondativi della nuova Repubblica ha proprio la funzione di impedire che la Costituzione assuma un puro significato di stabilizzazione, di chiusura d'una fase. Non a caso quel secondo comma dell'art. 3 e' stato definito la "norma di rifiuto" dell'ordine sociale esistente. Sicche' il vero significato di questa grande innovazione istituzionale non puo' essere ricercato solo nell'aver superato una concezione tutta formale dell'eguaglianza, che faceva del soggetto solo un astratto centro di imputazione di situazioni giuridiche, senza riguardo al modo in cui tali situazioni si fanno concrete nella realta' storica. Cio' che viene davvero legittimato e' la necessita' del mutamento egualitario come fondamento della Costituzione: si' che, dira' Basso, "questa norma in un certo senso smentisce la Costituzione, dice che tutto e' una menzogna nella Costituzione fino a che questo capoverso dell'art. 3 non sara' attuato. Non solo non c'e' l'eguaglianza del primo comma, ma non e' vero neanche l'art. 1, non e' vero che l'Italia sia una repubblica democratica, non e' vero che ci sia la sovranita' popolare finche' non e' realizzato il capoverso dell'art. 3 che deve mettere tutti in grado di parteciparvi". Non credo che, prima di allora, si fosse riusciti a trasferire con tanta nettezza la struttura contraddittoria della societa' nella dimensione istituzionale, senza per cio' cristallizzare i rapporti esistenti e introducendo, invece, uno strumento che obbliga (o almeno dovrebbe obbligare) le istituzioni a far propria la logica dinamica del cambiamento (rimuovere gli ostacoli che limitano di fatto la liberta' e l'eguaglianza dei cittadini), e di un cambiamento finalizzato all'unico obiettivo di consentire, come dice la nonna, "il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva (vedete come torna qui il rifiuto delle posizioni soltanto formali) partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del paese".

Ma Basso ha cosi' pure mostrato, anzitempo, come sia possibile sciogliere una contraddizione che, piu' avanti nel tempo, apparira' a talune forze della sinistra come insuperabile. Parlo del contrapporsi tra movimento e istituzioni, viste, queste ultime, come il luogo dove il movimento si spegne o, comunque, e' costretto ad accettare la logica dell'integrazione. Basso mostra che cosi' non e', che c'e' un modo di strutturare le istituzioni che puo' rilanciare l'iniziativa stessa dei movimenti, proprio perche' la logica istituzionale viene sviluppata in forme coerenti con le esigenze espresse dai movimenti, aprendo ad essi nuovi ed inediti spazi d'azione. Certo, non e' facile muoversi in questa direzione, che richiede impianto teorico solido, lucidita' politica, fantasia giuridica. Virtu' rare ma che, Basso lo ha mostrato, possono essere congiunte, permettendo cosi' di superare la prova. Basso tornera' variamente e in tempi successivi su questo terreno. Interrogandosi sulla transizione al socialismo, ridefinisce proprio i rapporti tra le diverse logiche che possono manifestarsi nell'uso. degli strumenti istituzionali per cercare di dare un'ulteriore e piu' convincente sposta alla domanda se e' vero che, almeno nella tradizione marxista, "non esistono altre prospettive che la conquista violenta del potere o un riformismo subalterno".

"La contraddizione che lacera la societa' capitalistica - osserva - e' necessariamente presente anche nell'ordinamento giuridico, il quale, lungi dall'essere un corpus compatto di norme internamente finalizzato al bruto dominio della volonta' capitalistica, e', in ultima analisi, il risultato di uno scontro di forze e del compromesso che ne consegue, continuamente mutevole a seconda dell'andamento della lotta". A sostegno di questo punto di vista (in cui si ritrova una non irrilevante reinterpretazione della categoria del "compromesso", tanto discussa nella teoria politica e giuridica) richiama Marx: la sua mutata opinione sul Code Napoleon, "costretto a subire tutti i giorni ogni sorta di attenuazione in conseguenza della forza creatrice del proletariato", e la convinzione netta, sempre di Marx, che fosse possibile far approvare leggi espressive appunto della logica antagonistica di cui la classe operaia si fa portatrice. La citazione da una lettera a Kugelmann dell'ottobre del 1876 e' rivelatrice: la' Marx sottolinea con forza che "la legge delle dieci ore non fu soltanto un successo pratico; fu la vittoria di un principio. Per la prima volta, alla chiara luce del sole, l'economia politica della borghesia soggiaceva all'economia politica della classe operaia".

Si precisano cosi' le modalita' dell'intreccio tra lotta politica e strumenti istituzionali, e il ruolo di questi strumenti nel processo rivoluzionario. Un processo le cui caratteristiche diventano piu' chiare nel momento in cui il riferimento alla legalita' non allude ad un "dopo", ad una legalita' rivoluzionaria che si pone come momento terminale, successivo ad una presa del potere realizzata per vie diverse, ma diventa una delle componenti essenziali di una lotta politica e sociale, qualificando cosi' modalita' e caratteri di quel processo.

Tutto questo incide profondamente sullo stesso farsi dell'ordine politico-istituzionale, sui modi di formazione del diritto, che Basso di nuovo affronta da un punto di vista che scavalca il puro momento formale: si va alle radici del conflitto, alle ragioni fondanti della regola. Pone questo problema generale quando affronta il punto della legittimita' del Tribunale Russell. Andando oltre l'originaria impostazione, della quale s'era fatto portavoce Jean-Paul Sartre, di una legittimazione a posteriori di un tribunale non costituito secondo le regole vigenti, Basso individua la fonte vera della legittimazione nella coscienza dei popoli, la stessa, in definitiva, che fonda l'ordinamento delle Nazioni Unite. Richiamando la dichiarazione costitutiva del secondo Tribunale Russell, ne sottolinea il passo dove e' detto che "una societa' cosi' poco organizzata come quella internazionale e' retta da un potere diffuso non certo nelle persone giuridiche, gli Stati, ne' nei loro governi responsabili davanti al popolo, ma in questi popoli medesimi". E conclude: "le esigenze della pubblica coscienza diventano fonti di diritto".

E la coscienza dei popoli come fonte di diritto si dilata e trova il suo compimento nella Carta d'Algeri, in quel testo che si chiama appunto Dichiarazione universale dei diritti dei popoli. Qui l'uscita da una concezione tutta individualistica dei diritti, sulla quale tante volte Basso ha insistito fin dai tempi dell'Assemblea costituente, e l'internazionalismo, che sempre piu' nettamente era andato segnando il suo pensiero e la sua azione politica, trovano una manifestazione particolarmente matura. Proiettata in un piu' largo orizzonte, l'ispirazione fondamentale rimane quella dell'art. 3 della nostra. Costituzione: rimozione degli ostacoli di fatto, opposti questa volta ai popoli e non ai singoli, e partecipazione come unica via per l'eguaglianza e la costituzione stessa del soggetto "popolo" sulla scena del mondo. E come nella Costituzione italiana si rifiutava un assetto sociale dato, cosi' nella Carta di Algeri si rifiutano regole e prassi costitutive della comunita' internazionale. La logica della non accettazione dell'esistente, la necessita' della trasformazione, l'uso degli strumenti istituzionali come via per far esplodere le contraddizioni e consentire il prevalere di una logica alternativa trovano una nuova nettezza. La stessa dimensione dei diritti individuali ne risulta precisata e arricchita: la loro effettivita' si collega strettamente alla condizione reale dei soggetti che ne sono formalmente titolari. Ed e' bene sottolineare - cosa che raramente avviene - come il nostro art. 3 non parli della rimozione degli ostacoli di fatto solo nella direzione dell'eguaglianza: lo fa pure per la liberta', cosi' modificando radicalmente la logica secondo la quale dev'essere letto lo stesso catalogo dei diritti tradizionali. Affiora cosi' una versione dell'eguaglianza che si tinge inequivocabilmente di colori libertari, e che e' particolarmente visibile nella lunga battaglia anticoncordataria, nella opposizione intransigente ad ogni limitazione dei diritti di liberta'. "Il piu' appassionato sostenitore dell'abrogazione delle norme concordatarie, l'uomo che per vent'anni ha richiamato nelle aule parlamentari l'esigenza di rivedere radicalmente e se necessario di stracciare i Patti lateranensi", lo ha definito Giovanni Spadolini.

Ma Basso lo ha fatto in un modo che si allontanava assai dal vecchio anticlericalismo, indicando ai cattolici quasi l'immoralita' di un privilegio ormai incompatibile con la nuova e dilatata dimensione della liberta'. Non a caso la sua sara' una posizione con la quale cattolici e studiosi dei rapporti tra Stato e Chiesa si confronteranno, in un dialogo sempre piu' intenso. E fu proprio sul tema della revisione del Concordato che Basso, qui in Senato, tenne l'ultimo suo discorso parlamentare, tenacemente riproponendo quella lungimirante "utopia abrogazionista" alla quale alcuni tra noi sono rimasti fedeli, e che ancora puo' guidarci come "scopo finale" via via che "obiettivi parziali" si pongono dinnanzi a noi.

Sempre in Senato, Basso - uno tra quelli che, con sciocca ironia vennero detti "i quattro cavalieri dell'Apocalisse", con Franco Antonicelli, Giuseppe Branca e Carlo Galante Garrone - condusse la piu' coerente delle opposizioni contro la legge Reale, nella quale lucidamente vedeva l'avvio di una perversione dell'ordinamento giuridico. E questa difesa estrema dei diritti di liberta' venne perseguita coerentemente con la chiara presa di posizione a favore del referendum per l'abrogazione di quella legge, con il rifiuto altrettanto netto delle prassi dell'"emergenza". Puo' sorprendere, a questo punto, che l'attenzione grandissima per l'eguaglianza di fatto, dunque per il concreto modo d'essere della struttura socio-economica, non si sia manifestato, al tempo dell'Assemblea costituente, con pari intensita' sul terreno della disciplina dell'economia, dove pure (e questa e' verita' nota non soltanto ai marxisti) si costituiscono le condizioni per l'effettivita' dei diritti.

Della necessita' di principi anche in questa materia Basso era ben consapevole, come dimostra la Carta d'Algeri, con una sezione interamente dedicata ai "diritti economici dei popoli". Ed era pure consapevole che di principi direttivi, non di norme di dettaglio, ci fosse bisogno, cosi' mostrando di appartenere ad una stirpe antica di legislatori, quella che credeva - per dirla con le parole del Portalis del Discours preliminaire al Code Napoleon - ai "principes feconds en consequences utiles".

che', allora, l'azione di Basso non produce, in materia economica, all'Assemblea costituente, risultati paragonabili a quelli che ottiene per la disciplina dell'eguaglianza o, come vedremo, per quella dei partiti politici? Si possono proporre spiegazioni diverse: una tutta legata a fattori oggettivi, sottolineando le resistenze politiche che si manifestano sul terreno scottante dei rapporti economici, mentre quello dei principi appare sostanzialmente programmatico, dunque destinato ad una incisivita' minore o meno immediata; ed una spiegazione soggettiva, legata alla sua vicenda personale che, una volta assunta la segreteria del PSI, lo allontano' dall'impegno quotidiano ed appassionato che aveva portato a tutta la prima fase dei lavori dell'Assemblea costituente.

Ma la ragione essenziale mi sembra un'altra. Basso non fu per nulla assente dalla discussione sui rapporti economici. Aveva, anzi, presentato due proposte molto precise. Con la prima si affermava che "il diritto di proprieta' non puo' essere esercitato in modo contrario all'utilita' sociale o in modo da arrecare pregiudizio alla liberta' e ai diritti altrui"; con la seconda si prevedeva che "spetta ai pubblici poteri stabilire piani economici nazionali e locali per regolare e coordinare le attivita' attinenti agli investimenti, alla produzione, allo scambio ed alla distribuzione dei beni e dei servizi". Entrambe le proposte vengono respinte per l'ostilita' dei democristiani che, per bocca di Dossetti, affermano che la prima e' superflua, in quanto gia' sono state approvate norme ben piu' forti nella stessa materia (e, pur dichiarando di votare a favore della proposta di Basso, anche Togliatti condivide questa motivazione), e la seconda e' ripetitiva di altri principi. In quest'episodio, apparentemente minore, c'e' quasi una rappresentazione emblematica del difficile rapporto tra pensiero socialista e testi costituzionali, in una lunga parabola che puo' andare dalla fine del Settecento ai giorni nostri. Nel primo degli articoli proposti da Basso, infatti, compaiono caratteri che si ritrovano nella definizione della proprieta' proposta da Robespierre durante la discussione della Costituzione montagnarda del 1793: c'e' l'"obligation de respecter le droit d'autrui" e il divieto di arrecare pregiudizio ("prejudicier") alla sicurezza, alla liberta', all'esistenza, alla proprieta' altrui. Come la proposta di Robespierre, anche quella di Basso viene respinta: e cade pure la richiesta di inserire nella Costituzione una previsione analitica sulla pianificazione.

Ci si puo', anzi, stupire della poca combattivita' con la quale Basso difese in particolare la seconda proposta: dopo tutto, se c'era un tema al quale la cultura socialista del tempo s'era dedicata cori impegno, questo era il tema del piano. Ma la possibilita' di arrivare a modifiche significative dell'assetto proprietario era gia' stata cancellata dai fatti ben prima che l'Assemblea costituente cominciasse a discutere della disciplina dei rapporti economici. Ed era impensabile, contro una "normalizzazione proprietaria" ormai compiuta, una rivincita tutta giocata sul terreno delle formulazioni legislative. Basso, probabilmente, si avvede di tutto questo e gioca senza illusioni la carta delle proposte ricordate, almeno per far risultare dagli atti una posizione di principio che, altrimenti, sarebbe rimasta senza voce nei lavori della I commissione. La sua esperienza di costituente, tra l'altro, gli aveva insegnato che gli accordi fondamentali tra Togliatti e i democristiani venivano stretti in riunioni private e non era possibile poi ribaltarli in commissione: e da cio' aveva tratto probabilmente la convinzione della vanita' di contrastare frontalmente l'intesa gia' raggiunta tra Dossetti e Togliatti.

Questa spiegazione mi sembra ragionevole alla luce dell'interpretazione che Basso ha poi dato del lavoro dell'Assemblea costituente e dei suoi limiti, ricondotti ad un ritardo rivelatosi poi politicamente incolmabile. "Secondo me - disse piu' tardi - non e' tanto in seno alla Costituente, dove ormai in gran parte i giochi erano fatti, ma nel periodo precedente, che si doveva fare qualcosa, nel periodo della Resistenza e nell'immediato post-Resistenza". Sappiamo, tuttavia, che mai questo atteggiamento si muto' in disimpegno. E non era un gioco di convenienze. Era convinzione profonda, che lo ha sempre portato a guardare alle istituzioni come ad una via essenziale per la legittimazione politica del movimento operaio. E, a questo proposito, credo che valga la pena di ricordare un episodio - non so se gia' noto - narratomi dallo stesso Lelio. All'indomani della scissione di Palazzo Barberini, appariva inevitabile il passaggio della presidenza dell'Assemblea costituente al PCI, per il patto stretto tra i tre maggiori partiti che voleva la Presidenza del consiglio assegnata al primo tra essi, la Presidenza della Costituente al secondo (che, per effetto della scissione, diventava appunto il PCI).

Nella sua veste di segretario del PSI, Basso si reca da Togliatti, chiedendogli di rinunciare all'applicazione del patto e di mantenere la presidenza al PSI, che cosi' sarebbe stato legittimato di fronte all'opinione pubblica come il "vero" partito socialista. Il rifiuto di Togliatti e' motivato anch'esso con l'argomento della legittimazione, quella che il PCI acquisiva proprio attraverso il ruolo presidenziale in Assemblea. Questo non e' un fatto occasionale: e' un tratto caratteristico della nostra storia repubblicana, nella quale la piena legittimazione e' stata ricercata dai partiti della sinistra con una forte accentuazione del momento istituzionale, che ha cosi' acquistato uno spessore caratteristico, che distingue il nostro sistema dagli altri e spiega molte polemiche, anche recenti.

Ma non venivano solo dall'esterno le difficolta' per Basso segretario del PSI. Egli ricorda che, dopo la scissione, la maggioranza dei parlamentari era rimasta nel PSI: "pero' di quella maggioranza una buona meta' erano in realta' dei socialdemocratici, quindi io dirigevo una pattuglia che veniva al mio seguito molto malvolentieri". In questo modo di riferirsi polemicamente alla socialdemocrazia Enzo Collotti ha ritrovato accenti tipici della Seconda Internazionale, che contrastano proprio con il suo rifiuto di accettare la "grossolana distinzione" tra rivoluzionari e riformisti. Una aporia del suo pensiero? Forse. Certamente un segno della sua irriducibilita' ad una qualsiasi delle caselle della canonica ortodossia marxista. La sua ostilita' ai modelli, peraltro, si rivela in pieno nella materia dei partiti politici, altro punto centrale della sua azione e riflessione, testimoniata dalla paternita' di un'altra importantissima norma costituzionale, quell'articolo 49 che per la prima volta fa entrare in una costituzione il soggetto "partito politico". "La mia prima tessera socialista - ricorda - e' del novembre 1921, quando il Partito comunista d'Italia, che, sotto alcuni aspetti, soddisfaceva meglio il mio temperamento, era gia' nato da dieci mesi. Ma non accettati dal Partito comunista l'idea di una rivoluzione in Occidente fatta sul modello sovietico, cosi' come mi parvero inaccettabili le 21 condizioni uniformemente poste a tutti i partiti e, piu' tardi, la "bolscevizzazione dei partiti".

Il partito politico - che egli immagina, propone e descrive - ha diversa natura e senso. In un tempo di degenerazioni gravi del sistema dei partiti, si potrebbe esser tentati di mettere a confronto questa realta' con l'immagine che Basso disegnava del partito politico. Ma sarebbe gioco sciocco. Il ruolo del partito, da lui teorizzato, era lontanissimo da quello che, poi, ha finito con l'assumere nella storia repubblicana. Un partito forte, motore vero della vita politica e sociale, ma rigorosamente limitato nell'ambito della sua azione, lontanissimo da una gestione economica e sociale che, conformemente alle sue premesse, vedeva affidata alla piu' larga partecipazione dei cittadini. Un partito, dunque, che non doveva occupare ne' la societa', ne' lo Stato; che, lungo la via delle istituzioni, doveva essere fattore costituente della societa' politica, senza mortificare in nulla la societa' civile. E in queste indicazioni c'e', evidente, una linea che porta in direzione ben diversa dalle degenerazioni che conosciamo. Il destino ha voluto che Lelio Basso, uomo di partito e dell'idea del partito, dovesse concludere la sua vita fuori dai partiti. "In questo momento non milito - dice nel 1975 - ma l'ho fatto per cinquant'anni". C'e' amarezza in questo suo rivolgersi a passato? I suoi "anni perduti" non sarebbero solo i venti di cui ebbe a parlare, ma addirittura cinquanta?

Non mi pare, e non lo credo. Certo e', pero', che con grande insistenza Basso ha parlato della sua solitudine. Di un segretario del PSI "troppo solo" per realizzare i suoi "ambiziosi programmi"; di un presidente del PSIUP come "un leader isolato, senza strumenti per realizzare una qualsiasi politica"; di "mezzo secolo di vita partitica, che e' stata per me quasi sempre una vita di minoritario o addirittura di solitario".

Isolato, solitario, solo addirittura. Dobbiamo dire che non fu cosi', che la sua fu una ricchissima e affollata solitudine, se fino all'ultimo giorno si rammaricava che la salute non gli consentisse di andare ovunque lo invitassero?

Diciamo, invece, che non fu uomo di unanimismi, e che proprio la sua vocazione critica gli consenti' di non fare del suo marxismo una gabbia, ma davvero l'occasione di un "umanesimo integrale" dando alla sua ricerca una capacita' sempre piu' larga di parlare a molti, moltissimi. E pote' cosi' restare uomo di entusiasmi, quello che lo porto' ad annunciare ad Algeri "la primavera dei popoli". Cosi', per tanti tra noi ha potuto essere un compagno e un amico, dunque assai piu' che un maestro.

 

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SENZA ODIO, SENZA VIOLENZA, SENZA PAURA

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Al referendum votiamo No alla riforma costituzionale golpista

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Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino" (anno XVII)

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Numero 25 del 12 ottobre 2016