Nonviolenza. Femminile plurale. 279



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NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE
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Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino"
Numero 279 del 2 ottobre 2009

In questo numero:
1. Movimento Nonviolento: Oggi, 2 ottobre 2009, Giornata internazionale
della nonviolenza. Iniziativa comune del Movimento Nonviolento in ogni
regione d'Italia
2. Anna Bravo: Storie da scoprire, storie da ripensare (parte seconda e
conclusiva)

1. INIZIATIVE. MOVIMENTO NONVIOLENTO: OGGI, 2 OTTOBRE 2009, GIORNATA
INTERNAZIONALE DELLA NONVIOLENZA. INIZIATIVA COMUNE DEL MOVIMENTO
NONVIOLENTO IN OGNI REGIONE D'ITALIA
[Dal Movimento Nonviolento (per contatti: via Spagna 8, 37123 Verona, tel.
0458009803, fax: 0458009212, e-mail: an at nonviolenti.org , sito:
www.nonviolenti.org) riceviamo e diffondiamo]

L'Assemblea generale dell'Onu ha fissato al 2 ottobre di ogni anno la
Giornata internazionale della nonviolenza. La data e' stata scelta in quanto
anniversario della nascita di Gandhi, ispiratore dei movimenti per la pace,
la giustizia, la liberta' di tutto il mondo. In una risoluzione approvata
dai 192 Stati membri dell'Onu, su proposta del governo indiano, l'Assemblea
invita tutti i paesi, organizzazioni e individui a "commemorare questo
giorno per promuovere una cultura della pace, della tolleranza, della
comprensione e della nonviolenza". E' infatti con Gandhi che nasce la
nonviolenza moderna. Certo, essa e' sempre esistita, e' "antica come le
montagne", ma prima del Mahatma era sempre stata intesa come via personale
alla salvezza, come codice individuale, come precetto valido per
l'individuo. E' solo con la straordinaria esperienza gandhiana, prima in
Sudafrica e poi in India, che la nonviolenza diventa politica, strumento
collettivo di liberazione.
La nonviolenza e' stata la vera, grande, unica, rivoluzione del XX secolo.
Le ideologie del Novecento si sono frantumate alla prova della storia, sono
state sepolte nelle tragedie dei campi di sterminio e nei gulag, sono morte
nei massacri della prima e della seconda guerra mondiale.
Solo la nonviolenza resta ad indicare una nuova via. La nonviolenza e' un
mezzo e un fine, e' uno strumento per risolvere i conflitti che la vita ci
presenta, a livello individuale e sociale (poverta', discriminazioni,
esclusioni,  ecc.); la violenza mira a sconfiggere o eliminare l'avversario;
la nonviolenza vuole far emergere la verita' e offrire una via d'uscita per
tutti; preferisce convincere piuttosto che vincere. Non c'e' un nemico da
criminalizzare, ma un avversario da conquistare.
Oggi la vita stessa del pianeta e' a rischio. Crisi ecologica e crisi
belliche rendono il futuro incerto.
Dobbiamo rovesciare il motto "se vuoi la pace prepara la guerra" nel suo
giusto verso "se vuoi la pace prepara la pace", a partire dal ripudio della
guerra e degli strumenti che la rendono possibile: eserciti e armi. Dobbiamo
invertire la rotta, se siamo ancora in tempo. Dobbiamo disarmare, le nostre
menti innanzitutto, per "svuotare gli arsenali e riempire i granai".
In questa occasione il Movimento Nonviolento (fondato da Aldo Capitini, che
ha introdotto in Italia il pensiero ed il metodo di Gandhi), ha promosso una
iniziativa comune nazionale. Tutti gli iscritti, i simpatizzanti, i singoli
amici della nonviolenza, gruppi e centri del Movimento, hanno organizzato
nella propria citta' o nel proprio paese un'iniziativa pubblica: una
presenza in piazza, un banchetto, l'esposizione della nostra bandiera, una
conferenza, una fiaccolata, la distribuzione di un volantino; un'azione che
oggi, 2 ottobre, colleghera' idealmente tutte le realta' degli amici della
nonviolenza a livello nazionale. Abbiamo voluto coinvolgere soprattutto le
scuole (dalle elementari ai licei) affinche' presidi ed insegnanti
sensibili, insieme agli studenti, ricordino la figura di Gandhi e affrontino
il tema dell'educazione alla pace. E' stata anche realizzata una diffusione
straordinaria del numero speciale della rivista "Azione nonviolenta",
dedicato all'attualita' del pensiero di Gandhi.
*
Per informazioni e contatti: Movimento Nonviolento: tel. 0458009803, cell.
3482863190, fax: 0458009212, e-mail: an at nonviolenti.org , sito:
www.nonviolenti.org

2. MAESTRE. ANNA BRAVO: STORIE DA SCOPRIRE, STORIE DA RIPENSARE (PARTE
SECONDA E CONCLUSIVA)
[Ringraziamo Anna Bravo (per contatti: anna.bravo at iol.it) per averci messo a
disposizione il seguente saggio apparso col titolo "Storie da scoprire,
storie da ripensare" nel fascicolo della rivista "Parolechiave", n. 40,
2009, monografico sulla nonviolenza.
Anna Bravo, storica e docente universitaria, vive e lavora a Torino, dove ha
insegnato Storia sociale. Si occupa di storia delle donne, di deportazione e
genocidio, resistenza armata e resistenza civile, cultura dei gruppi non
omogenei, storia orale; su questi temi ha anche partecipato a convegni
nazionali e internazionali. Ha fatto parte del comitato scientifico che ha
diretto la raccolta delle storie di vita promossa dall'Aned (Associazione
nazionale ex-deportati) del Piemonte; fa parte della Societa' italiana delle
storiche, e dei comitati scientifici dell'Istituto storico della Resistenza
in Piemonte, della Fondazione Alexander Langer e di altre istituzioni
culturali. Luminosa figura della nonviolenza in cammino, della forza della
verita'. Opere di Anna Bravo: (con Daniele Jalla), La vita offesa, Angeli,
Milano 1986; Donne e uomini nelle guerre mondiali, Laterza, Roma-Bari 1991;
(con Daniele Jalla), Una misura onesta. Gli scritti di memoria della
deportazione dall'Italia,  Angeli, Milano 1994; (con Anna Maria Bruzzone),
In guerra senza armi. Storie di donne 1940-1945, Laterza, Roma-Bari 1995,
2000; (con Lucetta Scaraffia), Donne del novecento, Liberal Libri, 1999;
(con Anna Foa e Lucetta Scaraffia), I fili della memoria. Uomini e donne
nella storia, Laterza, Roma-Bari 2000; (con Margherita Pelaja, Alessandra
Pescarolo, Lucetta Scaraffia), Storia sociale delle donne nell'Italia
contemporanea, Laterza, Roma-Bari 2001; Il fotoromanzo, Il Mulino, Bologna
2003; A colpi di cuore, Laterza, Roma-Bari 2008]

Kosovo: poteva non succedere
Passano decenni, idee e comportamenti sembrano in via di trasformazione, ma
a mostrarne la vischiosita' interviene la vicenda del Kosovo, mitica culla
del popolo serbo abitata da secoli da una fortissima maggioranza albanese, e
secondo molti studiosi massimo punto di frizione nella ex Jugoslavia. La
scalata repressiva della Serbia inizia nell'88 con una riduzione drastica
dell'autonomia del Kosovo, prosegue con l'arresto di molti leader del
partito comunista albanese fedeli alla Costituzione di Tito, con lo
scioglimento del parlamento, l'occupazione militare del territorio,
l'espulsione degli albanesi da giornali, universita' e da tutte le cariche
amministrative e politiche, il licenziamento di circa  150.000 lavoratori,
operai, medici, insegnanti, impiegati. A partire dal giugno 1991, il numero
di ragazzi kosovari ammessi alle scuole viene talmente ridotto che gli
studenti serbi diventano la maggioranza. Agli insegnanti di lingua e storia
albanese viene richiesto di insegnare in serbo, poco dopo agli studenti di
ogni ordine e grado viene impedito l'accesso alle aule. E' il tentativo di
cancellare l'identita' della regione e di decapitarla della sua classe
intellettale e del suo futuro ceto medio.
Quel che differenzia il Kossovo dalle altre zone toccate dalla guerra, e' la
risposta sostanzialmente nonviolenta della popolazione, che comincia a
costruire le sue istituzioni alternative di resistenza civile, sostenute
dall'autotassazione popolare e dai contributi degli emigrati - uffici,
sanita', elezioni autorganizzate, scuole, aiuti a chi ha perso il lavoro. La
nonviolenza e' teorizzata e divulgata su impulso di Ibrahim Rugova (22),
massimo dirigente della Lega democratica per il Kosovo, eletto piu' volte
alla presidenza del paese da votazioni quasi plebiscitarie. E' grazie a
questa impostazione - e al fatto che nei primi anni Novanta il grosso delle
forze serbe e' impegnato in Bosnia - che non si arriva subito a un conflitto
aperto a dispetto della spaccatura ormai totale fra le due popolazioni.
Con il tempo, pero', la fiducia nella strategia nonviolenta si logora. Il
governo serbo continua impunemente nella sua poltica di apartheid, la
comunita' internazionale non capisce ne' i kosovari ne' il loro presidente,
e non da' alcun appoggio sostanziale alla resistenza. Rugova e' una guida
rispettata e amata, un intellettuale gandhiano che vuole negoziare, non
vincere e tantomeno stravincere, che ha in mente uno stato senza esercito e
senza frontiere, interetnico, aperto a tutti; ma gli incompetenti occhi
occidentali vedono uno strano leader, troppo mite (un po' effeminato, con i
suoi piccoli foulard al collo? certo piuttosto goffo, con i suoi completi da
magazzini Gum). Un utopista, che ha misteriosamene "ammorbidito" un popolo
battagliero, e che in anni e anni non e' riuscito a ottenere niente dalla
Serbia. Vedono saggezza e la scambiano per moderazione, vedono apertura e la
scambiano per ambiguita'.
Fra il '96 e il '97 si affaccia l'Uck, un Esercito di liberazione del
Kosovo, che sempre piu' spesso risponde con la violenza alla violenza delle
milizie serbe. Quando a maggio del '98 parte una ulteriore scalata di
aggressioni, l'Uck guadagna ascolto a livello internazionale - le armi, un
esercito, ecco qualcosa di familiare, da prendere sul serio. Alle due
Conferenza di Rambouillet, ultimo tentativo di soluzione pacifica, Rugova
viene emarginato.
Il 24 marzo 1999 la Nato da' il via ai bombardamenti su Serbia e Kosovo,
l'Uck scende in conflitto aperto, Milosevic ne approfitta per scatenare le
milizie e lo stesso esercito in una "pulizia etnica" giudicata da molti
osservatori ancora peggiore di quella praticata in Bosnia. Dopo tre mesi, la
Serbia accetta di ritirare le sue truppe dal Kosovo, e si arriva
all'armistizio in una situazione confusissima, fra ipotesi contrastanti per
il dopoguerra. Con il rientro dei profughi deportati al confine su ordine di
Milosevic, scatta la resa dei conti, gran parte della popolazione serba
fugge e la forza Onu dispiegata per la fase di transizione stenta ad
assicurare un minimo di ordine. Sebbene Rugova vinca ancora una volta le
elezioni, la nonviolenza ha perso. Poteva andare diversamente.
L'intera vicenda sembra una dimostrazione in vitro della pochezza allarmante
dei leader mondiali. Piu' di eventuali interessi strategici ed economici, ha
probabilmente pesato anche su di loro il dilemma fra "mai piu' guerre" e
"mai piu' Auschwitz". Ha pesato il ricordo di Srebrenica. Ma la mentalita'
e' cambiata poco: la lotta senza armi non basta a sollecitare prese di
posizione rapide e ferme, un esercito di liberazione si', malgrado i molti
lati oscuri dell'Uck. Si aspetta senza sfruttare a fondo gli strumenti di
pressione economici e diplomatici. Finche' la situazione diventa esplosiva,
internet, stampa e tv la denunciano, l'opinione pubblica segue in diretta la
catastrofe umanitaria. A questo punto si agisce con le armi, come se la
vergogna per aver tollerato il massacro di Srebrenica si potesse lavare solo
con un intervento militare. L'aspetto piu' scandaloso e' che, salvo il
maggiore spazio mediatico concesso al Dalai Lama, una linea simile si sta
riproducendo in Tibet: la nonviolenza mostra segni di stanchezza, il mondo
non esercita neppure le forme di dissuasione previste dall'ordinamento
internazionale.
Per il Kosovo, si puo' davvero parlare di un intreccio fra incompetenza e
oblio: nel decennale del primo bombardamento, sulla resistenza nonviolenta
del paese non si e' spesa una parola.
*
Movimenti dalla vista corta
Quali effetti possano avere oblio e e distorsioni, si puo' misurare sulle
aporie del movimenti degli anni Sessanta e Settanta. Agli inizi, le lotte
sono quasi ovunque pacifiche, ma non programmaticamente, e solo piccole
minoranze riconoscono nella nonviolenza un caposaldo politico e un valore.
Eppure sarebbe bastato guardarsi intorno con mente libera per incontrare
teorie e pratiche altre da quelle del marxismo ortodosso o critico. Sarebbe
bastato confrontarsi con tutti gli aspetti dei movimenti americani, in primo
luogo di quello per i diritti civili dei neri. Anche se e' meno rigorosa
della Southern Christian Leadership Conference di Martin Luther King,
l'Sncc, forse la piu' grande e attiva organizzazione di giovani, porta la
nonviolenza iscritta nel suo nome - Sncc  vuol dire Student Non-violent
Coordinating Committee.
Il movimento lavora, oltre che per la registrazione degli afroamericani agli
uffici elettorali, nell'insegnamento alle freedom schools, per il
potenziamento delle reti di auto-aiuto, per la creazione di scuole, case
della liberta', biblioteche. Per anni - anni in cui le polizie locali e i
razzisti infieriscono sui militanti incarcerando, ferendo, uccidendo - i
metodi di lotta piu' diffusi sono i sit-in, le marce pacifiche, la
noncollaborazione, il boicottaggio. E' la specificita' piu' gloriosa di un
movimento che nasce da una rivolta etica contro il razzismo, la poverta', lo
scarto fra gli ideali del paese e i comportamenti delle istituzioni (23);
che è fortemente radicato nella fede religiosa e nella tradizione americana
di disobbedienza civile; che ha un leader come Martin Luther King - e la
capacita', simile a quella danese, di usare in modo accorto il principio del
"come se": come se le leggi fossero davvero uguali per tutti, come se il
primo pensiero del governo federale fosse farle rispettare.
Beninteso, quello per i diritti civili non e' il movimento perfetto: l'Sncc
e' imbevuto di maschilismo, durante le registrazioni per il voto c'e' chi
affronta la polizia con uno spirito da pistola piu' veloce del west (24),
nella seconda meta' degli anni Sessanta fermentano idee di violenza che
troveranno uno sbocco in effimeri gruppetti armati. Ma il successo sul piano
legale nasce da un insieme irripetuto di iniziative giudiziali e di lotte
nonviolente.
Peccato che fra i tanti contenuti passati attraverso l'Atlantico, questi
siano fra i meno seguiti. Di nonviolenza praticamente non si parla. E
inizialmente neppure di violenza. A proposito del '68 a Torino, Guido Viale
scrive: "il movimento studentesco non l'ha inventata (la violenza), ne'
scoperta. La riceve" (25).
Vero. Ma se la accoglie e' perche' ha gia' in se' le genealogie della
violenza, che camminano in relativa autonomia. La Weatherman Temptation
(26), la sindrome dell'impazienza, non nasce solo dalla giovinezza, viene da
lontano. Gridare slogan inneggianti a Stalin o a Pol Pot e' una barbarie
sorretta da un lascito potente. Non e' la sola, e non c'e' bisogno di
conoscere quei modelli per esserne influenzati. Se si dicesse al militante
di un servizio d'ordine che fra i suoi antenati si contano Junger e
D'Annunzio, ne sarebbe offeso. Ma e' cosi'. Negli Stati Uniti, sono le donne
dell'Sncc a denunciare lo spirito da pistola piu' veloce del west dei
militanti, e ad associarlo al mito della frontiera. In Italia, nel giro di
pochi mesi si passa dall'ironia affettuosa verso la retorica partigiana alla
resistenza leggendaria, tradita, di classe, secondo il topos nazionale della
rivoluzione tradita gia' applicato al Risorgimento. Ha ragione Viale quando
scrive che "il movimento non si interroghera' mai a fondo sulle sue ragioni
e sui suoi principi" (27). Isabelle Sommier ha notato anzi che nel fiume di
documenti prodotti negli anni Settanta non ne esistono di esplicitamente
dedicati ai modi di legittimazione della violenza, come se non se ne
sentisse il bisogno (28). In tempi relativamente brevi, con dissensi rari e
isolati, la violenza guadagna simpatie anche fra quelli che non la
praticano. Mentre nei primi anni Sessanta era l'eccezione, ora l'eccezione
e' la nonviolenza (29).
Anche le percezione distorte camminano in autonomia. In tutta Europa, quando
ci si comincia a richiamare all'eredita' della resistenza antinazista, al
suo interno si trova quel che si cerca, l'immagine di una violenza giusta e
necessaria. Non si trova quello che non si cerca e che nei decenni
precedenti ben pochi hanno cercato: le lotte delle donne, le molte pratiche
di resistenza civile che offrirebbero un modello diverso di conflittualita',
i reticoli di opposizione nei Lager, il rifiuto da parte di 700.000 militari
italiani internati in Germania di arruolarsi nell'esercito di Salo', che al
piu' viene definito resistenza passiva. Passivo un no opposto ai nazisti
dall'interno di un campo di prigionia?
La scarsa immedesimazione nella primavera di Praga si deve, oltre che al suo
"riformismo", all'incapacita' di apprezzare i suoi metodi nonviolenti, i
soli praticabili in una realta' per cui valgono, fatte le debite differenze,
le osservazioni di Tom Holt sulla lotta per i diritti civili: la scelta non
era fra violenza e nonviolenza, era fra azione nonviolenta e nessuna azione
(30). Un fraintendimento simile colpisce il sano aspetto di ritualizzazione
che opera negli scontri di piazza. "A un certo punto, era diventato un gioco
che si riproduceva, un gioco militare. Mi ricordo che a Milano facevamo un
corteo alla settimana". "Se c'era una forte componente di violenza [negli
scontri con la polizia], spesso c'era anche un elemento direi ludico. Nel
'77 la cosa comincia a essere differente, perche' non fa piu' parte del
gioco" (31). Gioco pericoloso, infantile, esibitivo, per soli uomini; ma
patteggiare con la propria forza fisica, con la rabbia, con la voglia di
visibilita' (e con la paura), gli regala un tocco di saggezza e di senso del
limite. Forse uno spirito non troppo diverso presiedeva alle tregue
stipulate durante la Resistenza per dare un po' di respiro all'economia di
una zona, per contenere il danno sociale - tutt'altra cosa da quelle decise
per isolare i comunisti. Persino durante il maggio, c'e' stata
un'autolimitazione, in caso contrario una battaglia fra giovani maschi
variamente armati sarebbe finita in un massacro. Ma pochi autori hanno messo
a fuoco il tema; nessuno, che io sappia, ha considerato questa riduzione
preventiva del danno come un vanto da rivendicare. Incompetenza percettiva,
oblio? Direi la prima, se e' vero che su "La Stampa" del 20 marzo 2009,
Miguel Gotor ironizza sugli studenti di destra e di sinistra, che il giorno
prima all'Universita' di Torino si erano fronteggiati a lungo scandendo
slogan e insultandosi a sangue, senza mai passare all'atto (32). Certo, era
una "recita". Ma sarebbe stato piu' serio spaccarsi reciprocamente la testa?
Nasce anche da questo intreccio di visioni monche e di scoperte tardive, il
rischio per gli ex militanti di sbandare fra due vicoli ciechi: un eccesso
di severita' verso se stessi anche per reazione a chi si autoassolve, e un
eccesso di indulgenza, come quando si rivendica la propra estraneita',
dimenticando di essere stati fianco a fianco con i lanciatori di bottiglie
molotov, con i portatori di manici di piccone e di chiavi inglesi (33).
*
Segni di cambiamento?
Da decenni, la nonviolenza fatica a costruire una sua mitografia. Si sono
scritti milioni di libri per raccontare eventi che hanno fatto milioni di
morti, infinitamento meno su quelli che li hanno evitati. Si sono girati
migliaia di film su tutte le guerre, infinitamente meno sui loro oppositori.
Neppure chi crede nella nonviolenza e' libero dagli automatismi. In un
manuale di storia, mi sono trovata a dedicare moltissimo spazio alla grande
guerra, ma pochissimo alle crisi marocchine e alle guerre balcaniche, mentre
sarebbe stato altrettanto importante descrivere come avviene che un
conflitto non deflagri, o che resti circoscritto. Se lo storico assomiglia
all'orco che fiuta l'odore della carne umana, evidentemente preferisce
quella sanguinolenta.
Non che niente sia cambiato. Pensatori colpevolmente dimenticati come Nicola
Charomonte sono stati scoperti/riscoperti (34). Dentro e fuori
dall'universita', piu' spesso fuori, si incontrano analisi capaci di fare da
stimolo e da spartiacque. Solo che spesso i testi escono con piccole case
editrici a circolazione limitata, di rado vengono recensiti sui grandi
quotidiani e sulle riviste disciplinari, la ricerca ha finanziamenti
microscopici rispetto ad altri filoni culturali. Tranne alcune eccezioni, i
nonviolenti non stanno in parlamento e negli organigrammi dei partiti, hanno
uno scarso accesso ai media - e, ironia, periodicamente li si accusa di non
esistere. In compenso e' cresciuto l'interesse per la soluzione pacifica
delle crisi locali e internazionali; in molti paesi, i termini con la radice
"bellum" hanno ormai lo stigma della scorrettezza politica, in Italia la
nonviolenza e' diventata un ingrediente per attestare la democraticita' di
un movimento o di un partito. Sui giornali e' cresciuto lo spazio per
vicende di salvataggio e di pacificazione, in rete si incontrano bollettini,
riviste, blog. Sono segnali importantissimi. Eppure l'impressione e' di
assistere a flussi e riflussi legati alla cronaca e alla temperie politica.
In quel banco di prova che sono le commemorazioni nazionali, si sono
introdotti elementi non guerreschi, ma a mettere al centro le vittorie e le
sfilate militari non si rinuncia.
Fanno storia a se' gli Stati Uniti, dove fra le celebrazioni spiccano quelle
per la conquista dei diritti civili e per Martin Luther King. Ma si tratta
di una cultura in cui la disobbedienza nonviolenta e' un valore caro a
molti, in cui il passaggio alle armi di una piccola parte dei giovani
attivisti non ha dissolto la grande narrazione che va da Thoreau a Rosa
Parks ai sit-in. Si tratta, anche, di un paese che sapeva e sa di avere
molto da farsi perdonare dai sui cittadini neri, che e' cambiato e tiene a
mostrarlo. Paradosso: lo stato che dal 1945 ha combattuto piu' guerre e' lo
stesso che rende onore alla nonviolenza come parte eminente
dell'autoimmagine collettiva.
*
Una mitografia complicata
Raccontare puo' essere difficile. Guerra e violenza sono da millenni oggetti
storici legittimati, si possono indagare sia apprezzandole sia detestandole,
non esigono cambiamenti soggettivi. La nonviolenza e' tema riconosciuto da
pochi decenni, chiede una certa dose di empatia e un riassestamento
interiore, diversamente neppure si arriverebbe a coglierne le
manifestazioni. Perche' non contempla gli ingredienti classici che hanno
sorretto, e in parte ancora sorreggono, la narrazione dei conflitti secondo
il linguaggio del padre: il Potere, la Forza, gli Eroi, il male assoluto
contro il bene assoluto, il tempo fuori del tempo, il sangue e la morte. Il
loro gusto (35). E il loro glamour, che ancora oggi induce qualche
sprovveduto, qualche cuore frivolo o rozzo, a vedere negli ex brigatisti i
paladini sfortunati della giusta causa, i "veri uomini".
A uno sguardo incompetente, le pratiche della nonviolenza sembrano invece
storie di routine, un poco suggestivo lavoro da formica spesso fuso nella
quotidianita'; e il nonviolento si augura che continui cosi', perche'
precipitazione e sangue sarebbero il segno del fallimento. Penso ai
comportamenti di pace in tempo di guerra, ai tentativi di creare situazioni
in cui nessuno dei soggetti sia danneggiato, umiliato, battuto. Situazioni
"win-win", in cui esistono solo vincitori, come insegna la teoria dei
giochi. E' il passaggio dal sensato rifiuto di stravincere del politico
intelligente al rifiuto di vincere, perche' in guerra non c'e' vittoria
(36) - la resistenza civile kosovara, o almeno una sua parte, lavorava
proprio in questa prospettiva.
Penso alla scommessa piu'  ambiziosa, la possibilita' di "contagiare" il
nemico con l'esempio -il che mette un punto interrogativo poderoso sulla
stessa idea di nemico. Quando Gandhi ammonisce i britannici: "Vi sfiniremo
con la nostra capacita' di soffrire", punta sia a colpire l'opinione
pubblica internazionale, sia a costringere il governo inglese a vergognarsi
della propria violenza. In Danimarca, dopo le pressioni di Hitler per far
introdurre leggi razziste, molti e molte smettono repentinamente di parlare
e di capire la lingua tedesca, il rifiuto dell'antiebraismo e' cosi' diffuso
e palese che fra i gerarchi del III Reich si creano divergenze su come
gestire la situazione (37). Il contrasto presente in molti racconti di
guerra fra il topos del tedesco buono e i tedeschi come cieca forza del
male, si affievolisce se si considera l'attitudine specialmente femminile a
far leva sui punti deboli del nemico: spesso, quando si parla del "tedesco
buono" si intende il tedesco rabbonito.
E' tutto un campo di spostamenti progressivi, di azioni simboliche, di sfide
avvolte da un'aura di simulata naturalezza, di gesti volti a cambiare le
carte in tavola, di cambiamenti molecolari. Gli exploit possono esserci o
mancare, non puo' mancare questa trama che li sorregge e che non si lascia
intravedere se non ci si mette alla sua ricerca. Ne' storia delle strutture,
dunque, ne' storia degli eventi, piuttosto un vaglio fine in profondita' e
in superficie.
Penso anche alla difficolta' di raccontare gli oppressi senza rinchiuderli
nella categoria delle vittime, come si tende a fare da quando il modo
principale per avere voce e' dichiararsi tali, in una gara a chi lo e' di
piu'. Dietro la potenza simbolica assegnata oggi alla figura della vittima -
lo ha notato Tamar Pitch (38) - e' tacitamente all'opera una
rappresentazione del sociale in termini di offensore-offeso, paralleli a
quelli amico-nemico. Persino il grande tema narrativo della "strage degli
innocenti" puo' implicare un doppio equivoco: nasconde le pratiche di
resistenza, sacralizza la passivita' - quanto si insiste sul fatto che gli
uccisi nei massacri nazisti "non avevano fatto niente"! e il senso e':
niente per ostacolare gli occupanti.
Penso alla difficolta' di raccontare i tempi medi e lunghi. Malgrado gli
attuali inni alla lentezza, la buona guerra resta la guerra-lampo, il blitz,
parola tuttofare usata a proposito e a sproposito. Eppure chi puo' ignorare
che i cambiamenti profondi hanno ritmi propri? Mandela e' stato in carcere
per 27 anni, ma l'apartheid e' finito senza guerra civile. In Gran Bretagna
il primo gruppo contro la tratta degli schiavi si forma nel 1787, e
l'abolizionismo vince nel 1838, pacificamente. A portare le donne nere fuori
dalle cucine dei bianchi, diceva qualche attivista negli anni Cinquanta, era
stato Hitler;  ma per farle sedere nella parte "bianca" di un autobus ci era
voluto Martin Luther King.
Di queste difficolta', la prova regina e' il linguaggio: nei discorsi
politici e quotidiani non si contano le parole a connotazione guerresca,
tattica, strategia, schieramenti, discesa in campo, e si fatica a trovarne
altre. Con la consueta perfetta semplicita', Lidia Menapace ha osservato:
«"se tu dici a un politico tradizionale di parlare senza simboli militari
non arriva alla fine della prima frase" (39).
Che oggi si tenda a usare l'espressione "avversario" invece di nemico e' un
risultato significativo, ma non necessariamente acquisito. Senza nemici non
ci sono eroi, e memoria e  storia hanno bisogno di simboli. Anche la storia
e memoria della nonviolenza, che pero' deve inventarne di diversi - temi e
figure capaci di opporsi alle accuse di utopismo e alle profezie di
fallimento, di riaffermare la giustezza dei metodi e la loro possibilita' di
successo. Per le guerre, si direbbe, bastano capi mediocri o pessimi, per la
nonviolenza occorrono guide eccezionali, Gandhi, King, il Dalai Lama,
Mandela, Tutu, Aung San Suu Kyi, Rugova, in Italia Capitini, Dolci, padre
Balducci. E altre e altri semidimenticati: come molti intellettuali del
dissenso nonviolento all'est, decisivi per il crollo delle dittature almeno
quanto la crisi economica e sociale; come i sindacalisti e le leader
popolari della fabbrica di orologi Lip di Besancon, dove nel 1973 si lotta
per mesi contro la chiusira dello stabilimento, scegliendo modalita'
ampiamente pacifiche, in controtendenza con lo spirito dell'epoca (40). Di
chissa' quante altri e altre non conosciamo l'esistenza.
*
Un'icona semivera
Il bisogno di simboli e di figure simbolo e' cosi' vitale che almeno in un
caso documentato se ne costruisce una, non partendo da zero, ovviamente,
piuttosto mischiando verita' e verosimiglianza. Riguarda il re di Danimarca
Cristiano X. Durante e dopo la guerra, corre voce che si sia fatto cucire
una stella gialla sulla manica. Che un soldato tedesco, vedendolo cavalcare
da solo in mezzo alla folla, abbia chiesto a un ragazzo come mai fosse senza
guardia del corpo, e che il ragazzo abbia risposto: "La sua scorta siamo
tutti noi". Si sa che ha ordinato di rimuovere la bandiera nazista esposta
sulla sede del Parlamento, e si aggiunge che ha costretto un generale
tedesco a toglierla lui stesso. Si tiene a dire che nel '42 Hitler gli ha
mandato un lungo e caloroso telegramma per il suo settantaduesimo
compleanno, e che Cristiano ha risposto con quattro parole: "Molte grazie.
Re Cristiano" - un gelo che porta al richiamo in patria dell'ambasciatore
tedesco a Copenaghen e di quello danese a Berlino.
Gli ultimi due fatti sono a grandi linee veri, come e' vero che il re avalla
le campagne delle autorita' e dei cittadini a favore degli ebrei deportati.
Il secondo e' dubbio, il primo impossibile - in Danimarca non si arrivera'
mai a imporre agli ebrei la stella gialla. Eppure ancora negli anni
Settanta, poteva succedere che un rotocalco raccontasse la storia del
sovrano senza paura che attraversava Copenaghen con quel simbolo cucito
sulla manica. Da un personaggio autoritario e poco amato era nata un'icona.
Si puo' sperare che gli equivoci si dissipino, che la stessa nonviolenza
lavori su se stessa per rispondere a realta' nuove - chi la vede come una
dottrina conchiusa le rende un cattivo servizio. Non si puo' sperarare che
le si perdoni il doppio peccato originale che fonda il rifiuto della forza:
la volonta' di guardare all'altro come a un essere umano di pari dignita',
non come a un rivale o a una minaccia; il richiamo alla pazienza, al senso
del limite, alla sobrieta', all'umilta', alla cura delle cose piccole e
gracili, che il prometeismo maschile-militar-tecnonologico del Novecento si
e' diligentemente impegnato a distruggere (41).
*
Note
22. Sul suo pensiero cfr. I. Rugova, La question du Kosovo, Fayard, Paris
1994 (mai tradotto in Italia). Sullo sviluppo della vicendae A. L'Abate,
Prevenire la guerra nel Kossovo, Quaderni della Difesa Popolare Nonviolenta,
La Meridiana, Molfetta 1997.
23. J. Newfield, Prophetic Minority, New American Library, New York 1966, p.
15.
24. Un'analisi critica e solidale in S. Evans, Personal Politics. The roots
of Women's Liberation in the Civil Rights Movement and the New Left, Vintage
Books Edition, New York 1980.
25. G. Viale, Il Sessantotto: tra rivoluzione e restaurazione, Mazzotta,
Milano 1978, p. 42.
26. J. Wienert, the Weatherman Temptation, in "Dissent", primavera 2007.
27. Viale, Il Sessantotto cit., p. 42.
28. I. Sommier, La violence politique et son deuil. L'apres 68 en France et
en Italie, Presses Universitaires de Rennes, Rennes 1998.
29. Per una analisi sull'Italia che mette in luce la complessita' del
periodo, repressione compresa, cfr. G. Crainz, Il paese mancato. Dal
miracolo economico agli anni Ottanta, Donzelli, Roma 1996.
30. T. Holt, Generation(s) de resistance. Le mouvement des droits civiques,
in M. Zancarini-Fournel, Le moment 68. Un ehistoire contestee, Seuil, Paris
2008, pp. 196-197.
31. Le citazioni sono di Luigi, di Lotta continua, e di Pino, di Autonomia
operaia, in Sommier, La violence politique et son deuil cit., p. 80.
32. M. Gotor, La recita antifascista, "La Stampa", 20 marzo 2009.
33. Per una maggior esplicitazione di questi punti di vista, mi permetto di
rimandare ad A. Bravo, A colpi di cuore. Storie del Sessantotto, Laterza,
Roma-Bari 2008, ai capitoli Amore e Violenza.
34. Segnalo il nuovo interesse del gruppo riunito intorno alla rivista "Una
citta'", alla cui cura si deve la recente edizione degli scritti di
Chiaromonte sui giovani, La rivolta conformista, Ed. Una citta' societa'
cooperativa, Forli' 2009.
35. Per  Joanna Bourke (La seduzione della guerra. Miti e storie di soldati
in battaglia, Carocci, Roma 2003) il soldato sperimenterebbe il piacere
dell'uccidere. Ma sono ormai molti i testi che insistono sulla sofferenza e
lo spossessamento vissuti dai combattenti. Un omaggio grato va a Enzo
Forcella e Alberto Monticone per il loro pionieristico Plotone d'esecuzione.
I processi della prima guerra mondiale, Laterza, Roma-Bari 1968.
36. E. Peyretti, Dov'e' la vittoria?, Il Segno dei Gabrielli, Negarine (Vr)
2005.
37. Hannah Arendt fa notare che di fronte a una resistenza aperta (l'unica)
sullo statuto e il destino degli ebrei, i tedeschi che si trovano coinvolti
cambiano mentalita'. Non vedono piu' lo sterminio di un intero popolo come
una cosa ovvia. Urtando in una resistenza basata su saldi principi, la loro
"durezza" si scioglie come ghiaccio al sole, permettendo il riaffiorare di
un po' di coraggio. Cfr. H. Arendt, La banalita' del male cit., pp. 177-182.
38. T. Pitch, L'embrione e il corpo femminile, al sito
www.costituzionalismo.it
39. Un dialogo fra generazioni diverse, di Giovanna Providenti e Lidia
Menapace, in G. Providenti, La nonviolenza delle donne cit., p. 16.
40. Una sintesi della lotta in J-P Le Goff, Mai 68. L'heritage impossible,
La Decouverte, Paris 2002, pp. 239-247.
41. Su questi temi, specie sul fordismo, vedi l'irrinunciabile e molto
dibattuto M. Revelli, Olte il Novecento. La politica, le ideologie e le
insidie del lavoro, Einaudi, Torino 2001.

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NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE
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Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 279 del 2 ottobre 2009

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