Voci e volti della nonviolenza. 311



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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento settimanale del martedi' de "La nonviolenza e' in cammino"
Numero 311 del 10 marzo 2009

In questo numero:
1. Alcune cose che occorre fare subito contro il razzismo
2. Enza Panebianco: Del dolore e dell'intelligenza delle donne
3. Claudia Fusani: Finalmente si processano gli stragisti nazisti impuniti
4. Alcuni estratti da "Globalizzazione, neorazzismo e scontri culturali" di
David Del Pistoia
5. Elena Mazzini presenta "Gli anni dello sterminio" di Saul Friedlaender

1. UNA SOLA UMANITA'. ALCUNE COSE CHE OCCORRE FARE SUBITO CONTRO IL RAZZISMO

Proponiamo che non solo le persone di volonta' buona, non solo i movimenti
democratici della societa' civile, ma anche e in primo luogo tutte le
istituzioni fedeli allo stato di diritto, alla legalita' costituzionale,
all'ordinamento giuridico democratico, si impegnino ora, ciascun soggetto
nell'ambito delle sue peculiari competenze cosi' come stabilite dalla legge,
al fine di contrastare l'eversione razzista che sta aggredendo il nostro
paese.
Ed indichiamo alle persone, ai movimenti ed alle istituzioni democratiche
alcune iniziative necessarie ed urgenti.
*
1. Respingere le proposte palesemente razziste, eversive ed incostituzionali
del cosiddetto "pacchetto sicurezza".
*
2. Adottare un programma costruttivo per la difesa e la promozione dei
diritti umani di tutti gli esseri umani:
a) provvidenze di accoglienza a livello locale, costruendo sicurezza per
tutte le persone nell'unico modo in cui sicurezza si costruisce: nella
solidarieta', nella legalita', nella responsabilita', nell'incontro,
nell'assistenza pubblica erogata erga omnes;
b) cooperazione internazionale: poiche' il fenomeno migratorio evidentemente
dipende dalla plurisecolare e tuttora persistente rapina delle risorse dei
paesi e dei popoli del sud del mondo da parte del nord, occorre restituire
il maltolto e cooperare per fare in modo che in nessuna parte del mondo si
muoia di fame e di stenti, che in nessuna parte del mondo vigano regimi
dittatoriali, che in nessuna parte del mondo la guerra devasti l'umanita',
che in nessuna parte del mondo i diritti umani siano flagrantemente,
massivamente, impunemente violati;
c) regolarizzazione di tutti i presenti nel territorio nazionale ed
interventi normativi ed operativi che favoriscano l'accesso legale nel
paese;
d) riconoscimento immediato del diritto di voto (elettorato attivo e
passivo) per tutti i residenti;
e) lotta alla schiavitu' ed ai poteri criminali locali e transnazionali che
la gestiscono e favoreggiano.
*
3. Aprire un secondo fronte di lotta per la legalita' e contro il razzismo,
con due obiettivi specifici:
a) dimissioni del governo golpista e nuove elezioni parlamentari;
b) messa fuorilegge dell'organizzazione razzista denominata Lega Nord.

2. OTTOMARZOTUTTOLANNO. ENZA PANEBIANCO: DEL DOLORE E DELL'INTELLIGENZA
DELLE DONNE
[Ringraziamo Enza Panebianco (per contatti: enzapanebianco at gmail.com) per
questo intervento]

Il mio desiderio per l'otto marzo? Che si possa sempre contare
sull'intelligenza delle donne. Non e' facile parlare da un punto di vista di
genere in questo momento storico nel quale il genere diventa solo un alibi
per vedere strisciare fuori tutte le teste rasate e gli alemanni e i
rondisti di questo mondo. Gli stupri sono brutti assai ma che volete farci,
io continuo a non avere paura.
Pero' verrebbe quasi da appartarsi in un angolo di mondo dove una donna
stuprata non possa mai essere usata da nessuno. Verrebbe quasi di prendere
le mie tragedie di donna e persona e tenermele per me perche' tutte le volte
che pare che qualcuno mi presti attenzione in realta' lo fa solo per se
stesso.
Il dolore e' una cosa difficile da gestire. E' un lutto. Sentirsi scippate
di un lutto non e' bello. Perche' vorremmo vivercelo a modo nostro e non
vederlo frainteso, strappato, abusato sulle pagine dei giornali attraverso
le dichiarazioni di donne e uomini che sembrano usciti/e dal mito delle
caverne di Platone.
Ecco dunque. Il mio desiderio per l'otto marzo e' che le donne, le lesbiche,
le trans possano sentirsi libere di viversi i propri lutti, libere di
condividere il proprio dolore senza che altri/e si lascino mai tentare dalla
voglia di rubarlo e snaturarlo.
Io vorrei vivere senza dolore ma se un dolore ce l'ho mi piacerebbe non
dover soffrire quando avro' scoperto che non mi appartiene piu'. Non c'e'
abuso peggiore del furto di un dolore.
Buon otto marzo a tutte le sorelle del mondo!

3. MEMORIA. CLAUDIA FUSANI: FINALMENTE SI PROCESSANO GLI STRAGISTI NAZISTI
IMPUNITI
[Dal quotidiano "L'Unita'" del 5 marzo 2009 col titolo "Stragi naziste, a
giudizio sessantacinque anni dopo" e il sommario "Armadio della vergogna:
trucidati 356 donne, bambini e anziani dell'appennino tosco-emiliano. Sette
militari tedeschi alla sbarra, tutti facevano parte della divisione
corazzata Goering. Il procuratore De Paolis ha concluso le indagini sugli
eccidi nazisti, vere e proprie 'azioni punitive' verso popolazione inerme.
Ora i parenti di quelle centinaia di bambini, donne e anziani avranno forse
giustizia"]

La Storia non fa sconti e prima o poi presenta il conto. Dopo 65 anni la
Storia bussa alla porta di Gustav Brandt, Helmut Odenwald, Fritz Olberg,
Ferdinand Osterhaus, Hans Georg Winkler, Gunther Heinroth, Wilhelm Stark.
Sono i sette ex gerarchi nazisti, tutti con funzioni di comando, che hanno
organizzato e pianificato l'eccidio, la tortura, la morte di 156 persone nei
paesi dell'Appennino in provincia di Modena e di Reggio Emilia. E poi di
altre duecento persone, un mese dopo, nei paesini aggrappati al Monte
Falterona. Morti, per lo piu' bambini, donne e anziani, per cui figli e
parenti non hanno mai smesso di pretendere giustizia. Vittime delle stragi
naziste. Se lo dice una sentenza e' meglio.
Il procuratore militare Marco De Paolis ha concluso le indagini sugli eccidi
di Monchio, Susano, Costrignano, Civago, Cervarolo, Villa Minozzo (fronte
emiliano dell'Appennino) avvenute tra il 18 e il 20 marzo del 1944. La
Divisione corazzata Hermann Goering, chiamata dai podesta' dei vari paesi
"in soccorso e in difesa dall'assedio dei ribelli" che sarebbero stati i
partigiani, comincio' proprio a Monchio il suo percorso di sangue e torture
lungo la Linea Gotica che attraversa l'Italia da Massa a Forli' dividendola
tra le truppe alleate a sud, tedeschi e Repubblica di Salo' a nord, i
partigiani in mezzo. A fine del '44 il bilancio solo in Toscana e' di 3.622
vittime. Tra Emilia e Romagna ne vengono uccise negli stessi mesi altre
migliaia, 770 solo a Marzabotto.
Tra il 13 e il 18 aprile la Divisione Goering lascia la direzione della
Linea Gotica, si addentra nell'Aretino fino al Monte Falterona dove uccide
altre 200 persone tra gli abitati di Vallucciole, Stia, Pratovecchio,
Moscaio, Castagno d'Andrea, Badia a Prataglia, Caprese Michelangelo, S.
Maria Serelli. Anche per questa strage il procuratore De Paolis ha chiuso le
indagini chiedendo il giudizio per quei sette gerarchi a cui la Storia e'
arrivata oggi a presentare il conto.
L'accusa per tutti, secondo il codice militare di guerra, e' di "concorso in
violenza con omicidio contro privati nemici pluriaggravata e continuata".
Nessuno di loro, il piu' anziano e' del 1914 e il piu' giovane e' del 1925,
durante gli interrogatori ha ammesso qualche responsabilita'. Tutti, come
quasi sempre in queste inchieste, hanno negato ogni partecipazione alla
ricostruzione dei fatti e dei delitti. Con sprezzo, la linea degli indagati
e' sempre la stessa: "Eravamo in guerra, eseguivamo ordini superiori".
La vede in modo opposto il procuratore De Paolis che parla di vere e proprie
"azioni punitive". Nell'avviso di chiusura indagini si parla di "azioni
esecutive di un medesimo disegno criminoso in parte in ossequio alle
direttive del comando di appartenenza ma anche di propria iniziativa sempre
e comunque aderendo al programma criminale, senza necessita' e senza
giustificato motivo, per cause estranee alla guerra e anzi nell'ambito e con
finalita' di ampie operazioni punitive contro i partigiani e la popolazione
civile che a quelli si mostrava solidale". Tutto questo "cagionava la morte
di numerosi privati cittadini italiani che non prendevano parte alle
operazioni militari fra cui donne, anziani e bambini inermi, agendo con
crudelta' e premeditazione". Bisogna dare il giusto valore alle parole.
Aiuta anche la lettura della lista delle circostanze aggravanti contestate
che vanno dal "grado rivestito" ad aver commesso i fatti "per motivi
abietti, con sevizie e crudelta' verso le vittime e con premeditazione".
Anche le stragi di Monchio e del Monte Falterona escono dal sottoscala della
procura militare di Roma e dagli schedari dell'armadio delle vergogna
rimasti sigillati e nascosti dal 1950 al 1994. Ragion di stato, di equilibri
postbellici nell'ambito Nato fu la motivazione. Fogli di carta ingialliti
che rischiavano di sbriciolarsi nel tempo senza verita' e giustizia. Ancora
una volta e' stata la pervicacia dei parenti delle vittime e della procura
militare a toglierli dalla polvere e a farli parlare.
Fin qui la cronaca giudiziaria. Il resto lo raccontano gli archivi
dell'Anpi. A Monchio, per esempio, fu il commissario prefettizio di
Montefiorino Francesco Bocchi a chiedere l'intervento dei nazisti. "La
popolazione " scriveva " e' estremamente ostile alle nuove istituzioni (la
Repubblica di Salo' - ndr) e il clero e' con la popolazione". A Vallucciole
gli archivi dell'Anpi raccontano di "intere famiglie sterminate", case
bruciate con dentro persone vive, tra le vittime 12 bambini "tra i 4 e i 12
anni", un neonato di tre mesi e quattro ragazzini "tra i 14 e i 17 anni". Il
resto lo fanno certe immagini di corpi impiccati agli alberi. Adesso il
processo. Per non dimenticare piu'.

4. LIBRI. ALCUNI ESTRATTI DA "GLOBALIZZAZIONE, NEORAZZISMO E SCONTRI
CULTURALI" DI DAVID DEL PISTOIA
[Dal sito www.tecalibri.it riprendiamo i seguenti estratti dal libro di
David Del Pistoia, Globalizzazione, neorazzismo e scontri culturali. Quando
la cultura divide, Armando, Roma 2007]

Indice del volume
Introduzione; 1. Razzismo: essenza e funzione, sfruttamento e sterminio; 2.
Differenzialismo culturale come neorazzismo; 3. Globalizzazione economica e
conseguenze sociali; 4. Tra globale e locale: la metamorfosi dei confini; 5.
La cultura: luogo chiuso o crocevia?; 6. Il differenzialismo culturale come
arma politica; 7. Differenza "etnica" e sfruttamento economico; 8.
Sull'ostilita' politica; Bibliografia.
*
Da pagina 9
"... mi sono accorto, per la prima volta, che lo stereotipo - di qualsiasi
tipo - puo' essere estremamente comodo, perche' permette all'individuo di
avere una concezione del mondo gia' precostituita, senza essere obbligato a
pensare... Mi sono accorto, soprattutto, della grande mistificazione che e'
alla base dello stereotipo, che racconta l'altro senza umanizzarlo, anzi
dimenticando che l'altro e' un essere umano" ('Ala Al-Aswani)
"Probabilmente, la sfida del prossimo secolo consiste nel potenziare la
civilta' a partire da ognuna delle culture e non ciascuna cultura a scapito
della comune civilta'" (Fernando Savater)
Emmanuel Levinas in un piccolo saggio del 1934 affermava a proposito del
fenomeno nazista: "Il corpo non e' soltanto un accidente felice o infelice
che ci mette in rapporto col mondo implacabile della materia - la sua
aderenza all'Io vale di per se stessa. E' un'aderenza alla quale non si
sfugge e che nessuna metafora potrebbe far confondere con la presenza d'un
oggetto esteriore: e' un'unione il cui tragico sapore di definitivo nulla
potrebbe alterare". Il nostro saggio avra' ad oggetto principale le
metamorfosi del razzismo: dal biologico al culturale. La citazione di
Levinas appare quanto mai appropriata per esprimere il mutamento del
paradigma razzista: e' sufficiente sostituire a "corpo" i termini "cultura",
"etnia", "tradizione" per ritrovare quella perfetta aderenza che inchioda il
soggetto a qualcosa di soverchiante. Ad un destino inalterabile, totale
fatalita'. Invece del corpo e del colore della pelle subentra "la cultura e
l'etnia": gli individui divengono appendici di qualcosa che li definisce
implacabilmente. In questa descrizione, sia chiaro, non vogliamo dire che
non esistano tentativi di rispolverare il concetto di "razza" attraverso le
teorie genetiche e la definizione di diversi quozienti di intelligenza. Cio'
che a noi interessa e' fotografare una situazione in cui il razzismo
contemporaneo, per ora e per lo piu', e' declinato in termini
culturalistici. Del resto storicamente il razzismo ha sempre coniugato e
amalgamato l'aspetto biologico con quello culturale.
Un esempio: se e' vero che il fascismo italiano si e' riferito alla razza in
termini biologici, e' anche da ricordare la componente culturale: "Sanzioni
per i rapporti d'indole coniugale fra i cittadini e sudditi. (R.D.L. 19
aprile 1937 - XV n. 880). Art. unico. Il cittadino italiano che nel
territorio del Regno o delle Colonie tiene relazioni d'indole coniugale con
persona suddita dell'Africa Orientale Italiana o straniera appartenente a
popolazione che abbia tradizioni, costumi e concetti giuridici e sociali
analoghi a quelle dei sudditi dell'Africa Orientale Italiane, e' punito con
la reclusione da uno a cinque anni". Gia' nel 1937 i fascisti volevano
introdurre una legislazione che doveva legittimare una specie d'apartheid
ante litteram e che prevedeva la distinzione tra italiani e persone d'altra
specie sulla base dell'appartenenza culturale. Insomma, vorremmo mostrare
come aspetti biologici e culturali siano, nel fenomeno razzista, intimamente
legati. Ora, a nostro avviso, l'aspetto culturale sta prevalendo. Viene
naturalizzato, etologizzato, considerato immodificabile. Un dato di natura,
appunto. I primi capitoli saranno impostati in maniera tale da evidenziare
la metamorfosi del razzismo, cosi' come sopra delineata: dal biologico al
culturale.
Per indagare l'essenzialismo culturale con le conseguenze inerenti ad esso
non si puo' prescindere da un'analisi contestualizzata. Il nostro contesto
e' la globalizzazione e il fenomeno di ri-localizzazione esasperata
attraverso cui le identita' si declinano in fenomeni di "etnopolitica".
L'attuale globalizzazione da' vita ad una simultanea interazione di
molteplici influssi culturali. Pero' e' bene fugare subito un equivoco: la
mescolanza culturale, la connessione, non sono eccezioni, bensi' regole
storiche. Cio' che muterebbe rispetto al passato non e' quindi questo
fecondo intreccio bensi' "il fatto che esso e' oggetto di riflessione e
riconoscimento nell'arena pubblica mondiale" e soprattutto la velocita'
delle trasformazioni in atto. La globalizzazione dell'economia e della
cultura vengono viste come sfondo di senso alle nuove versioni
dell'essenzialismo sia biologico che culturale. La paura della perdita
dell'identita', della tendenziale omologazione e l'incertezza cronica
dell'essere umano di questo inizio secolo, sembrano spingere verso
un'affermazione identitaria parossistica, insomma verso le nuove comunita'
organiche declinate in termini "etnici". La differenza culturale,
l'appartenenza ad una comunita' e il sentirsi parte di una tradizione
divengono forze che ristrutturano l'azione politica declinandola in forma
"etnica" e di essenzialismo culturale o addirittura di "scontro di
civilta'". E' dunque in tale contesto che si deve inquadrare il neorazzismo
e le nuove parossistiche affermazioni identitarie.
A proposito dell'uomo nell'attuale epoca, Ulrich Beck sottolinea: stiamo
assistendo "all'irruzione della precarieta', della discontinuita', della
flessibilita', dell'informalita' all'interno dei bastioni... della societa'
della piena occupazione". Il fatto di appartenere ad una "cultura", ad una
comunita' ben precisa, chiaramente identificabile, rassicura gli uomini che
si trovano immersi in un divenire sempre piu' caotico. Orienta l'azione, da'
senso e significato agli individui e alle collettivita'. Ma non si puo'
dimenticare, sarebbe un errore imperdonabile, uno dei leitmotiv della
discriminazione razziale ovverosia lo sfruttamento economico. In definitiva
il nostro scritto percorre questo sentiero: le affermazioni identitarie
debbono essere viste all'interno di una ricerca di ordine e stabilita'
politica e, inoltre, risultano indissociabili dalle esigenze dell'economia.
Non attribuiremo pero' piu' importanza ad un aspetto che all'altro: il
razzismo e' un fatto sociale totale che coinvolge piu' aspetti
dell'esistenza individuale e collettiva. La modernita' (nella forma della
globalizzazione) liquida le precedenti strutture: in tale contesto gli
uomini annaspano e cercano punti solidi. Zygmunt Bauman afferma che "la
principale forza motrice dietro a questo processo sia stata sin dal
principio la sempre piu' rapida 'liquefazione' delle strutture e delle
istituzioni sociali" e attualmente "stiamo passando dalla fase 'solida' alla
fase 'fluida' della modernita'": i "fluidi" hanno la caratteristica di
assumere una pluralita' di forme. Ma quando gli individui si accorgono
dell'assenza dei punti di riferimento il loro comportamento puo' assumere la
tentazione esasperata di recuperare degli assoluti, la tentazione di
colorare il contingente di assoluto.
Alain Supiot ha evidenziato che le forme di solidarieta' nazionale vengono
messe in crisi dalla globalizzazione da una parte, e dalla rilocalizzazione
dall'altra: questi due aspetti "sono i due volti inscindibili di strategie
economiche globali che si fondano sulla valorizzazione di vantaggi
competitivi locali". Se la nazione non e' piu' il punto di riferimento
principale, l'identita' viene ricercata parossisticamente in un mondo sempre
piu' competitivo, nelle identita' religiose, "etniche" e culturali. Ma
soprattutto, e sara' del resto uno dei fili conduttori del nostro lavoro, i
cosiddetti conflitti o scontri culturali rischiano di occultare e rimuovere
l'enorme e intollerabile (non solo da un punto di vista politico, ma anche
etico) disuguaglianza planetaria: una abnorme divaricazione economica
mondiale che si e' andata allargando tra poveri e ricchi, anche negli stessi
paesi "sviluppati" dell'Occidente. Ed e' partendo da tale analisi che
riteniamo doveroso un intervento delle istituzioni per una governance
globale. Inoltre, a nostro avviso, lo Stato puo' recuperare un ruolo
importante soprattutto facendo da cerniera tra globale e locale. Molti
problemi con cui l'umanita' si dovra' confrontare non possono che essere
affrontati da una prospettiva globale. Inoltre dobbiamo considerare che se
la mondializzazione accelera "i flussi economici e socio-culturali" e crea
nuove opportunita' per molti, non e' da dimenticare che gran parte della
popolazione mondiale e' inchiodata alla miseria. Negli stessi paesi ricchi
si accrescono nuove poverta', insicurezze, e il futuro sembra sempre meno
afferrabile con lo sguardo. Queste tematiche verranno approfondite nei
capitoli terzo e quarto.
In questo nostro mondo solcato, attraversato e dilaniato da spaventose
disuguaglianze e miserie di ogni tipo, emerge con forza, in funzione di
occultamento e diversivo, la teoria del clash of civilization. A proposito
dello scontro tra civilta' vedremo come la ripartizione in compartimenti
stagni dei processi di civilizzazione sia una specie di metafisica che
oblitera i continui rapporti e connessioni tra i popoli. La cultura non e'
un monolite, ne' e' strutturata omogeneamente. Vive, nel suo delinearsi, sui
confini. Come ha sottolineato acutamente Mondher Kilani "le culture non
riflettono un'unita' reale ma esprimono uno stile di vita, un insieme di
simboli condivisi" cui gli individui non danno "il medesimo contenuto e
neppure la stessa interpretazione". Jacques Derrida, in un recente
intervento, ha affermato: "La molteplicita' dei retaggi mediterranei (quello
fenicio, bizantino, italiano, greco, arabo, spagnolo, normanno, pagano,
ebraico, cristiano, musulmano) e' questa profusione cosmopolita della
memoria che respiravo gia' in Algeri e che sono cosi' felice di riconoscere
qui, come a casa mia grazie a voi. Le affinita' della natura o del paesaggio
contribuiscono a questa grazia di parentele simboliche". In tale scritto e'
posta chiaramente in discussione la dicotomica, esclusiva contrapposizione
"noi-loro". L'estraneita' viene mediata da una "cosmopolita memoria" e da
"parentele simboliche". La diversita' non e' vissuta come scissione bensi'
come intreccio fecondo, come affinita'. Le connessioni sono feconde e le
culture sempre in profonda e perenne trasformazione. Questo sara' il nostro
leitmotiv di tutto il presente lavoro (in particolare del quinto capitolo).
Il differenzialismo culturale viene sfruttato non solo per ragioni
identitarie ma anche per finalita' politiche, economiche e sociali. Insomma
le differenze vissute come immodificabili e ineluttabili divengono un
potente strumento per l'azione politica, la coesione sociale e per
determinare discriminazioni giuridiche ed economiche in un'epoca in cui
molti orizzonti sembrano sfumare alla nostra vista. Alla presa visiva. In
tale contesto lo scontro delle civilta' sembra restituire un disegno che
permetta di fuoriuscire dal caos. Di ritrovare un ordine. A nostro avviso
questa posizione e' semplicemente catastrofica, oltre che scientificamente
infondata dato che le culture sono complesse, i mutamenti continui,
l'omogenita' solo immaginata e le connessioni e le intelaiature assai
strutturate. Con cio' non vogliamo significare che non esistono differenze
culturali. Vogliamo solo evidenziare che queste debbono essere viste
all'interno di una complessita'. Di movimenti tellurici continui, magari
impercettibili, ma sempre presenti. Inoltre vorremmo fare riferimento al
fatto che le differenze non possono occultare le somiglianze, le parentele,
le continuita' e le affinita' tra gli uomini. Se viste all'interno di questo
sfondo significativo tali differenze appaiono meno minacciose. Ci sono
momenti anche di riconoscimento: nulla di cio' che e' umano ci e' estraneo.
Particolare attenzione dedicheremo al fenomeno Islam. Cercheremo di
delinerare elementi accomunanti, pregiudizi da sfatare, semplificazioni
emergenti. Con cio' non vogliamo affermare che non esistano differenze
culturali e che esse non siano rilevanti: chi potrebbe negarlo? Vogliamo
soltanto evidenziare come lo statuto ontologico di esse non debba essere
considerato immodificabile, soverchiante e dunque ipostatizzato. La realta'
e' in perenne mutamento e con essa anche le differenze. L'essere umano e' un
animale incompiuto, aperto. Si dovrebbe sottolineare l'uso strumentale a
fini politici, economici e sociali che oggi viene fatto dei termini di
"cultura", "etnia", "tradizione", etc. Vorremmo decostruire quell'archivio
di intolleranza e inimicizia che si sta strutturando sulla figura del
musulmano. L'islamofobia sembra in questo momento il razzismo contemporaneo
che filtra nelle nostre societa'. La figura del migrante non puo' essere
vista come una specie di ipostasi religiosa. I migranti soprattutto quelli
che provengono da paesi a tradizione musulmana vengono inchiodati al dato
religioso. Ammassati tutti in un genus, religiosamente strutturato, sono
vittime di discriminazioni. Enormi.
Tutto il nostro testo sara' strutturato in maniera tale da evidenziare che
il rapporto con l'altro uomo, che sia musulmano o cattolico, ateo, agnostico
o credente, appartenente ad un ceto o ad un altro, istruito o no, etc., non
puo' essere mediato da generalizzazioni, stereotipi e rappresentazioni, ma
deve nascere dall'incontro singolare. Il volto dell'altro uomo mi appare e
non posso, se voglio rispettare la sua dignita', etichettarlo e definirlo
prima che mi parli. Non posso annichilire la sua complessita' e umanita' in
una mia interessata rappresentazione. Purtroppo l'ostilita' politica e la
rappresentazione dello straniero come nemico sembrano dominare. E'
necessario decostruire tale immaginario e tale pratica di ostilita'
innanzitutto prendendo coscienza delle nostre rappresentazioni condizionate
da interessi: "Un'immagine del nemico - che per l'Occidente e' stato
dapprima il comunismo, e oggi e' l'islam - e' utile sotto molti aspetti.
Svolge diverse funzioni di psicologia individuale e politico-sociale...
l'immagine del nemico discolpa: non siamo "noi" (americani, europei...),
bensi' il nemico, l'islam, ad avere tutte le responsabilita'. Le immagini
del nemico rendono possibile pensare per capri espiatori. L'immagine del
nemico stabilizza: anche se sotto molti aspetti "noi in Occidente" ci
troviamo in disaccordo. Polarizza: riducendo le alternative disponibili.
L'immagine del nemico attiva: informazioni e istruzioni piu' precise non
sono necessarie".
E' necessario, dunque, decostruire tale immagine, depotenziare il presunto
scontro delle civilta', evitando che divenga una profezia che si autoavvera,
e incominciare a vedere l'altro non come nostra rappresentazione
interessata, dunque come strumento, ma come fine. Uscire dalle nostre
rappresentazioni totalitarie e incontrare gli altri. In uno sfondo
significativo: quello del riconoscimento della comune umanita' che ci
apparenta. Solo cosi' la differenza e le diversita' non divengono
oppressive. Solo cosi' e' possibile mettere in crisi il razzismo che
pretende di spezzare l'umanita' in gruppi tra loro irrelati. Assolute
monadi. Solo cosi' la relazione con altri individui si apre alla ricchezza
di un incontro che dischiude nuovi spazi di senso e significato. Solo cosi'
l'etica prevale sull'ontologia, direbbe Levinas. Inoltre in questo modo
l'altro non viene condannato ad essere l'epifenomeno di una nostra
rappresentazione, il piu' delle volte inesatta perche' contaminata, lo
ripetiamo ancora una volta, da nostri interessi e vantaggi.
*
Da pagina 17
In questo lavoro dunque cerchiamo di evidenziare gli elementi che
strutturano l'immaginario razzista nell'epoca odierna. Quando ci
addentreremo in alcune situazioni di discriminazione non ci soffermeremo
sull'antisemitismo. Non perche' pensiamo che sia giunto al termine, ma
soltanto per il fatto che le immagini dell'islamico e dell'Islam sono
divenute, soprattutto dopo l'11 settembre, sempre piu' minacciose. Sembra
che il razzismo in Europa si direzioni verso la discriminazione dei
musulmani e dei migranti provenienti dai paesi a tradizione prevalente
islamica. Ciononostante teniamo conto di quanto affermato in un'intervista
da Saul Friedlander in riferimento allo sviluppo di un antisemitismo sempre
piu' violento in paesi come l'Iran o l'Egitto: "Non dimentichi - risponde
alla giornalista - che poco tempo fa, ad esempio, la tv egiziana ha mandato
in onda uno sceneggiato sui Protocolli dei Saggi di Sion" in cui si va
sostenendo che il mondo musulmano starebbe meglio se non ci fossero gli
ebrei. Insomma sembra che il ventre che ha partorito l'antisemitismo sia
sempre fecondo: in Europa come in altre parti del mondo. Ciononostante
accenneremo soprattutto all'islamofobia tenuto conto pero' che il razzismo
ha innumerevoli bersagli. In questo momento ci sembra che l'Islam, lo
ripetiamo, sia il prevelente bersaglio delle estreme destre europee e che
molta parte delle nostre societa' si attardi su una visione stereotipata
della religione musulmana e dei migranti che provengono da paesi in cui essa
e' diffusa. A noi pare che oggi, i migranti che provengono dal Maghreb, per
esempio, siano gli ultimi tra gli ultimissimi. Cio' non ci impedisce di
considerare l'antisemitismo un pericolo attuale. Del resto, pero', la teoria
di Huntington sullo scontro delle civilta' ha come bersaglio il mondo
islamico e ci sembra opportuno depotenziare l'immaginario che la sostiene.
Immaginario che sta creando un archivio in cui se si immette nel motore di
ricerca l'aggettivo fanatico, bellicoso o altro, si finisce per trovare un
terrorista che spesso viene identificato con un musulmano. Le immagini che
eterodefiniscono un mondo complesso, contraddittorio, plurimo come quello
che va dal Marocco all'Indonesia ci sembrano caricature pericolose.
Ovviamente non pensiamo che quel "mondo" sia il migliore dei mondi
possibili. Ci sembra opportuno pero' problematicizzare la nostra visione.
Evitare stereotipi e semplificazioni. Inoltre si deve dire che il progresso
civile non e' "unilaterale" cioe' riguardante solo l'altro, bensi'
multilaterale (ci riguarda tutti). Nessuno e' esente da colpe, da barbarie.
Questo e' un modo saggio di affrontare le questioni evitando inutili
etnocentrismi. Questo sara' il tema dell'ultimo capitolo.
Vogliamo sottolineare, per evitare fraintendimenti, che in tutto il nostro
scritto la polemica sara' indirizzata contro tutte quelle concezioni che
assolutizzano e ipostatizzano la "cultura". Con cio' lungi da noi voler
negare l'esistenza di differenze culturali. Riteniamo pero' che queste
debbano essere problematicizzate. Oggetto prevalente della nostra critica
sara' la semplificante visione, dicotomica ed escludente, "Noi/Loro". Le
differenze trapassano e informano tutti i livelli: anche all'interno del
"Noi". Esse si costituiscono, mutano e si dileguano, in certi casi,
nell'orizzonte ampio dell'interazione culturale. Le connessioni fra gli
esseri umani sono la regola da quando hanno iniziato a respirare. Inoltre,
ultima sottolineatura, quando ci riferiamo all'individuo (usando questo
termine) non lo consideriamo come una "monade" ma come "persona", come
relazione, interazione, in continua connessione con altri soggetti.
Individuo-cultura: il rapporto e' complementare, dialettico, contraddittorio
e aperto. Insomma nessun riduzionismo.
Josef K e' un impiegato di una banca che all'improvviso viene dichiarato in
arresto da due persone. Inizialmente, sicuro di se', non prende sul serio
l'accusa (di cui non sa alcunche') ma piano piano gli eventi,
l'arbitrarieta', l'incertezza della situazione si insinueranno
ossessivamente nelle sue occupazioni fino a stravolgerle. Alla fine altri
due uomini vestiti di nero, lo preleveranno e ai margini della citta' sara'
giustiziato. Senza che il capo di imputazione sia nemmeno conosciuto. La
forza di due uomini, appunto, sara' determinante. Il razzismo, nelle sue
varianti, si presenta come un capo di imputazione prima, come una condanna
poi, senza che l'imputato possa difendersi. Il differenzialismo culturale si
presenta come una sorta di inchiodamento dell'altro ad una nostra
rappresentazione che ci torna utile. Dissoluzione dell'individuo in un
genere (cultura, tradizione, etnia) preteso come immutabile e annichilimento
della trascendenza e della dignita' di ogni singolo uomo. Soprattutto, per
ultimo, vorremmo sottolineare che l'etica, in un'epoca di globalizzazione,
di riflessione del rapporto dialettico tra parte e tutto, si deve
rimodellare oltre la declinazione della prossimita'. Un'etica della
distanza, dunque. La vita di un indonesiano o di un filippino non sono
estranee, ma collegate alle nostre. Le nostre azioni, infatti, hanno delle
conseguenze nel sistema-mondo. Non si puo' far finta di niente. Il cuore
dell'umanita' batte dappertutto. L'interrogativo di Caino "Sono forse io il
custode di mio fratello?" dovrebbe essere l'esemplificazione negativa di
come gli uomini non si dovrebbero comportare. Si narra che davanti a Victor
Hugo sfilassero vari ambasciatori: "Entro' l'ambasciatore tedesco e Victor
Hugo lo saluto' con solennita': 'Germania! Ah, Goethe!', arrivo' poi lo
spagnolo... 'Spagna! Ah, Cervantes!'... Alla fine si presento' per
felicitarlo l'ambasciatore, diciamo, della Lapponia e Victor Hugo, senza
batter ciglio: 'Lapponia! Ah, l'umanita'!". Ebbene con tale consapevolezza,
per cosi' dire cosmopolita, invece di rispondere come Caino si potrebbe
affermare "Si', eccomi, io al posto di tutti!" - "Io responsabile per
tutti!". Solo cosi' lo sguardo puo' soffermarsi sui lineamenti di un nuovo
mondo.

5. LIBRI. ELENA MAZZINI PRESENTA "GLI ANNI DELLO STERMINIO" DI SAUL
FRIEDLAENDER
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 5 marzo 2009 col titolo "La fabbrica delo
sterminio. L'invenzione ideologica di una nazione da purificare" e il
sommario "Dai primi campi alla soluzione finale, dal mito della purezza
razziale all'uso dell'antiebraismo cattolico per legittimare i lager. Un
percorso di lettura sulla shoah a partire dal volume di Saul Friedlaender
pubblicato da Garzanti e capitolo conclusivo di una ambiziosa ricostruzione
storica della Germania nazista"]

"Il numero crescente dei lavori, l'accumulazione di conoscenze sempre piu'
dettagliate, la molteplicita' dei tentativi di interpretazione, lasciano
nondimeno sussistere una questione: le acquisizioni della storiografia
permettono ormai di inserire gli avvenimenti nel quadro di una
interpreazione storica globale e coerente o si resta di fronte a delle
visioni frammentarie che sfuggono ad ogni sintesi che non sia puramente
descrittiva e sfidano una vera comprensione?". Se lo chiedeva Saul
Friedlaender nel 1983 sulla rivista "Storia Contemporanea", nell'articolo
intitolato Il dibattito storiografico sull'antisemitismo nazista e lo
sterminio degli ebrei d'Europa. La risposta al quesito va ora cercata nel
suo libro appena stampato Gli anni dello sterminio. La Germania nazista e
gli ebrei (1939-1945) (Garzanti, pp. 878 euro 43), ultimo capitolo del
percorso iniziato ne La Germania nazista e gli ebrei. Gli anni della
persecuzione (1933-1939), uscito sempre per Garzanti nel 1998.
*
Sul sentiero della razza
La narrazione storica e l'interpretazione storiografica, offerte a ogni
pagina di questo volume, prendono corpo a partire da tre soggetti differenti
fra loro interrelati: gli artefici della soluzione finale del popolo
ebraico, le societa' civili europee, le vittime. Triangolazione di
prospettive che permette alla riflessione elaborata sugli anni dello
stermino di affiancare l'esame minuzioso delle politiche sterminazioniste
pianificate dalle elite naziste allo studio di quell'apparato ideologico
antiebraico, attivamente esibito o passivamente accettato, che le societa'
civili europee hanno mostrato davanti al compiersi della Shoah.
Ma radiografare e capire quella macchina tentacolare, capillarmente estesa,
puntualmente realizzata che ha permesso la Shoah, a Friedlaender non basta.
Cosi' facendo si finirebbe per riconfermare quell'idea inveterata e per
molti versi pericolosa che fa degli "ebrei" una categoria astratta e
metastorica di cui parlare sulla base di coloro che il genocidio lo
pianificarono e lo attuarono. Sulla base di chi ha, in definitiva, prodotto
il potere e di chi ha agito in nome di questo.
E gia' l'incipit del volume chiarisce l'idea che senza le testimonianze di
coloro che subirono le persecuzioni, di Shoah non si puo' parlare: la
fotografia di David Moffie, ultimo laureato ebreo in un'Amsterdam gia'
nazificata, rende visibile, con la stella ebraica Jood cucita sulla giacca,
con i professori alle sue spalle accademicamente sorridenti e soddisfatti, i
segni distintivi atti a definire chi era considerato degno di vivere e chi
di morire. L'uno a fianco all'altro come la foto esprime. Decomprimendo e
decomponendo il macro-termine "Shoah", lo storico segue i sentieri che hanno
portato l'Europa civile e cristiana alla persecuzione della popolazione
ebraica col fine di realizzare quell'Judenrein perseguito con devozione e
acquiescenza non solo dall'apparato nazista ma anche da larghi, anzi
larghissimi strati della popolazione europea.
La contestualizzazione della Shoah entro le vicende e gli eventi che
scandirono la seconda guerra mondiale e' operazione che ad ogni pagina si
riafferma: all'interno della periodizzazione esplicitata fin dal
sottotitolo, Friedlaender inserisce in ciascuna delle tre macrosezioni che
costituiscono il volume - "Terrore" (autunno 1939/estate 1941), "Omicidio di
massa" (estate 1941/estate 1942), "Shoah" (estate 1942/primavera 1945) -
microperiodizzazioni che danno nome ai capitoli componenti le tre parti.
*
Oltre la memorialistica
A partire dall'invasione della Polonia (settembre 1939) l'autore intreccia,
sullo sfondo delle vicende belliche e del progressivo allargamento
geografico del loro scenario, tre diversi livelli: l'alternanza fra la
guerra (e i suoi esiti), il genocidio sistematico di persone considerate
"razzialmente inferiori", e le reazioni degli ebrei europei davanti allo
sterminio stesso, che consente di tenere insieme la grande storia con la
testimonianza individuale. Qui e' la forza del libro, che sfugge tanto alla
macronarrazione che tutto spiega quanto alla mitizzazione della
memorialistica.
Friedlaender non trascura di riflettere sulle categorie storiografiche che
permettono di far interagire e comprendere gli eventi narrati. Cosi',
riprendendo la categoria dell'"antisemitismo redentivo", gia' discussa nel
volume precedente, lo storico individua in quel sintagma un'ideologia e una
tradizione, non certo peculiari del solo Hitler, dirette a scorgere
nell'"ebreo" il male assoluto della storia, un male contro cui ingaggiare
una lotta appunto "redentiva" alla fine della quale vi sarebbe stata una
vittoria altrettanto purificante, rigenerativa. Da qui la centralita' che
nei discorsi cosi' come in tutto l'apparato propagandistico nazista assume
il Volkstumskampf (lotta etnico-razziale) definito dallo storico non come
"mera vittoria militare e politica bensi' recisione dei tendini vitali della
comunita' nazional-razziale nemica: in altre parole implicava l'omicidio di
massa".
I miti e gli stereotipi che soggiacciono a tutta la paranoica visione
nazionalsocialista del nemico e dell'ebreo in particolare e' il punto da cui
prende le mosse Friedlaender per esaminare il fenomeno dell'antisemitismo
nelle sue varianti religiose, culturali, politiche, sociali. E non e' un
caso che particolare attenzione e' posta, lungo tutto il volume, sul ruolo
ricoperto dalla Chiesa cattolica non solo in quanto istituzione politica ma
anche in quanto luogo simbolico da cui la lotta antiebraica si e' originata.
Il piano teorico dell'antiebraismo cristiano e' correlato all'evolversi
delle pratiche antisemite emerse in Europa a partire dal XIX secolo: l'ebreo
diviene "mito mobilitante" sia nei programmi strettamente politici di
partiti di destra, anche cristiani, sia nelle dinamiche di compattamento
interno di strati sociali disgregati o autopercepitisi tali. Forme del
pensiero collettivo, sedimentazioni di codici mentali, diretti a espellere
l'ebreo dal corpus "sano" della Razza e della Nazione, sono richiamati di
volta in volta da Friedlaender per dipanare i fili intricati di una storia
che ha brutalmente mostrato come la Modernita' non coincida necessariamente
col Progresso.
*
Il silenzio del Vaticano
A Pio XII, uomo "distaccato, autocratico, permeato dal senso della propria
superiorita' intellettuale e spirituale", l'autore dedica acute riflessioni
in merito sia alla sua personale abilita' diplomatica nel trattare con la
Germania nazista sia ai silenzi che accompagnarono il suo pontificato
durante il compiersi della Shoah ("sin dall'inizio del 1942 notizie sullo
sterminio degli ebrei stavano giungendo al Vaticano dalle fonti piu'
disparate").
Ma a Friedlaender, autore di uno dei primi libri pubblicati sul magistero
pacelliano, Pie XII et le III Reich (1964), il dilemma sui silenzi non
sfugge e cosi' lo pone alla fine del volume: ovvero se la Chiesa cattolica
e' da considerare "semplicemente un'istituzione politica che deve calcolare
l'esito delle proprie decisioni (...) la scelta di Pio XII potrebbe essere
giudicata ragionevole alla luce dei rischi che comportava. Se tuttavia la
Chiesa cattolica rappresenta anche una presa di posizione morale (...) e
deve pertanto spostarsi, in simili occasioni, dal livello degli interessi
istituzionali a quello della testimonianza morale, la scelta del papa
dovrebbe essere valutata in modo diverso".
Davanti a varie documentazioni, lettere, relazioni diplomatiche inviate al
pontefice durante lo sterminio degli ebrei, l'alternanza sopra detta - la
Chiesa come soggetto politico o come soggetto anche morale - assume le forme
di una questione a tutt'oggi ancora aperta. Tuttavia le modalita'
interpretative impiegate dallo storico nel valutare quei silenzi risentono
di una certa tendenza, soprattutto di matrice anglosassone, che sceglie la
seconda opzione e su questa formula giudizi storici a volte moralistici, a
volte schematici. Di fatto, la storiografia citata da Friedlaender e' per lo
piu' quella di lingua inglese, mentre altre opere pur fondamentali
sull'operato di Pio XII vengono poco considerate (l'esempio piu' lampante e'
il volume di Giovanni Miccoli, I silenzi e i dilemmi di Pio XII, citato,
nella versione francese, solo di sfuggita).
*
Nel campo dell'interpretazione
Ma Saul Friedlaender non e' solo uno storico. E' anche un testimone di
storia. Di quella storia. Nato da una famiglia ebraica di lingua tedesca a
Praga nel 1932, trasferitosi in Francia nel 1939 per fuggire dalla
persecuzione antisemita del Terzo Reich, si e' salvato dalla deportazione
nascondendosi e battezzandosi, dopo l'invasione della Francia nel 1940, in
un convento cattolico francese. Diversa la sorte toccata ai suoi genitori
morti nei campi di sterminio nazisti. Ritornato alla religione ebraica nel
1948, anno in cui si trasferisce in Israele, ha parlato di questo suo
doloroso vissuto nel libro autobiografico Quand vient le souvenir (1978).
Autore di numerosi libri fra cui Hitler et les Etats-Unis (1964), Kurt
Gerstein, l'ambiguite' du bien (1967), Reflexions sur l'avenir d'Israel
(1969), professore nelle universita' di Gerusalemme, Tel Aviv, Ginevra, Los
Angeles, Friedlaender possiede una dote non frequente negli studiosi di
storia: la capacita' di offrire una narrazione limpida e mai scontata dei
fatti in oggetto che non concede niente ne' alla pura storia evenemenziale
ne' al fare storia senza portare dentro a quello studio le proprie tensioni
conoscitive. Contro il mito dell'oggettivita', questo libro, pur poderoso,
si snoda in quei rivoli che mettono in contatto gli individui con i "grandi"
eventi (le voci dei diaristi del ghetto di Varsavia, mentre avviene la
liquidazione dello stesso nell'aprile del 1943, sono forse fra le pagine
piu' toccanti del volume), aderendo a quella forte idea che la storia non e'
mera elencazione di dati e notizie; piuttosto un campo aperto in cui le
interpretazioni confliggono, si confrontano e dialogano in una tensione
continua e vitale di sguardi che produce senso e significato sul passato e
su chi oggi lo interroga.

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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
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Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 311 del 10 marzo 2009

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