Voci e volti della nonviolenza. 308



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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento settimanale del martedi' de "La nonviolenza e' in cammino"
Numero 308 del 3 marzo 2009

In questo numero:
1. Giulio Marcon: Un governo razzista
2. Le persone del clan Antares del gruppo scout Bracciano 1: Una
chiacchierata a Viterbo
3. Rocco Altieri: Una verita' misconosciuta. Presentazione de "Lo stato e la
guerra" di Ekkehart Krippendorff

1. UNA SOLA UMANITA'. GIULIO MARCON: UN GOVERNO RAZZISTA
[Dal mensile "Lo straniero" n. 105, marzo 2009 riprendiamo il seguente
articolo (disponibile anche nel sito www.lostraniero.net)]

I recenti provvedimenti in materia di sicurezza del governo Berlusconi
esprimono quanto di peggio puo' dare una concezione poliziesca e criminogena
dei problemi e dei fenomeni sociali. Non c'e' dietro questi provvedimenti
solamente una visione becera, razzista e antidemocratica delle relazioni
sociali, ma anche una strumentale e spregiudicata operazione di marketing
politico con l'obiettivo del consenso delle parti piu' spaventate e retrive
della societa' italiana. In questo contesto e' da non dimenticare la
rinuncia della politica a esercitare il governo della complessita' e
all'esercizio di un dovere di responsabilita' che storicamente e' il
fondamento di una visione alta della politica. Si tratta di provvedimenti
gravi e barbarici e nello stesso tempo sono degli spot, delle misure "usa e
getta" e - tra l'altro - molte di queste sono inefficaci e inutili.
Mettendo in fila i provvedimenti gia' approvati e quelli in discussione,
l'elenco e' impressionante per quantita' e barbarie: l'aumento della tassa
(una vera gabella) sui permessi di soggiorno, il reato di immigrazione
clandestina, l'istituzione delle ronde, la schedatura dei senza fissa
dimora, la condanna fino a quattro anni per chi non obbedisce alla
disposizione del rimpatrio, la facolta' per i medici di denuncia degli
immigrati irregolari che hanno bisogno di cure, la creazione di un secondo
centro di detenzione (chiamiamolo per quello che e') a Lampedusa, la
cancellazione nella manovra finanziaria dei fondi per l'inclusione sociale
degli immigrati, la proposta delle classi differenziali, la proposta di una
polizia regionale in Lombardia con il compito prioritario di dare la caccia
agli immigrati, eccetera.
Questo complesso di misure disegna un apartheid legalizzato e istituisce una
sorta di  razzismo di stato che viola i diritti umani delle persone. Le
misure del governo Berlusconi sulla sicurezza alimentano maggiore
insicurezza, ma forse gli garantiscono un buon ritorno politico ed
elettorale. E inoltre hanno un'altra grave conseguenza: alimentano un clima
allarmistico e razzista che fa sentire incoraggiati, quasi "autorizzati", i
protagonisti di azioni xenofobe e razziste.
Il controllo poliziesco di un fenomeno sociale si intreccia con una visione
della sicurezza legata alla dimensione repressiva e liberticida. I mezzi che
si mettono in campo sono propagandistici e inutili. Ad esempio l'ipotesi
fatta da Berlusconi (dopo alcune vicende di stupri avvenuti nelle metropoli
nel mese di gennaio) di schierare trentamila soldati nelle citta' (ce n'e'
gia' qualche migliaio) e' puramente demagogica, ma soprattutto e'
irrealistica, oltre che inefficace. Irrealistica perche' quei soldati
materialmente non ci sono. Le forze armate gia' non riescono a garantire il
turn over degli ottomila soldati all'estero, figuriamoci se possono
rispondere positivamente all'appello di Berlusconi di trentamila soldati
nelle citta' italiane. Sarebbe una misura comunque inefficace perche' i
soldati non possono avere - per legge - quelle funzioni di investigazione,
di controllo e di intervento proprie delle forze di Pubblica Sicurezza. Tra
l'altro, non e' che non ne abbiamo: sono oltre trecentocinquantamila tra
poliziotti, carabinieri e finanzieri. Sono piu' che sufficienti. Il problema
e' che sono male utilizzati e dediti a mansioni improprie. Anche in questo
caso e' l'effetto-annuncio ad avere importanza in un'operazione che ha solo
un valore comunicativo e un sapore demagogico. Il rischio e' che questa
folle corsa di provvedimenti securitari non abbia mai fine: le prossime
tappe potrebbero essere - come sta gia' avvenendo - la trasformazione dei
vigili urbani in guardie armate, il sostegno alla proliferazione delle
security private e l'incentivazione alla diffusione del porto d'armi
privato, la moltiplicazione delle carceri (magari privatizzate). Esattamente
come e' successo negli Stati Uniti d'America. Salvo che tutte queste misure
in quel paese non hanno affatto garantito maggiore sicurezza.
In realta' e' la solita vecchia storia. Quando non si vuole affrontare un
problema, o un fenomeno sociale, lo si criminalizza trasformandolo - per
incapacita', calcolo politico o convinzione ideologica - in un problema di
ordine pubblico. Era cosi' per i poveri nel Regno Unito nel Seicento (anche
loro venivano rinchiusi nelle workhouse come ora gli immigrati nei cpt), per
i neri negli Stati Uniti nel Novecento (anche loro senza diritti civili come
oggi gli immigrati) o i lavoratori nella rivoluzione industriale (anche loro
sfruttati in modo disumano come gli immigrati a raccogliere pomodori).
Non c'e' niente di nuovo. Stupisce poi che anche una politica che dovrebbe
avere un alto valore umanitario - come la cooperazione allo sviluppo con i
paesi poveri - segua ormai la stessa logica securitaria: nelle linee guida
per la cooperazione italiana del prossimo triennio si afferma infatti che
l'obiettivo prioritario e' la "sicurezza globale". La cooperazione ha cioe'
come obiettivo non sradicare la poverta', ma controllare i flussi migratori,
evitare che ci siano tensioni violente o il diffondersi del terrorismo. E'
come se - in ambito nazionale - si dicesse che l'obiettivo degli
ammortizzatori sociali (indennita' di disoccupazione, cassa integrazione,
eccetera) non e' quello di alleviare la condizione di poverta' e sofferenza
sociale dei lavoratori, ma quello di evitare il rischio che questi si
trasformino in delinquenti. Piu' in generale, il governo Berlusconi
concentra anche in queste misure (insieme a quelle precedenti) le tre
coordinate della sua filosofia delle politiche sociali: la riduzione di
alcuni problemi sociali a questioni di ordine pubblico, la trasformazione
del welfare dei diritti a welfare compassionevole, la rimercificazione di
importanti beni sociali e collettivi.
Colpisce in questo contesto la subalternita' culturale (e politica)
dell'opposizione di centrosinistra al governo Berlusconi. Pur non
rinunciando a esprimere le proprie critiche nei confronti delle iniziative
del governo di centrodestra il Pd stampa manifesti in cui rimprovera
Berlusconi di essere responsabile del raddoppio degli sbarchi di immigrati.
Lo scavalca a destra! In realta' il centrosinistra nel corso di questi
anni - attraverso la creazione dei cpt (Centri di permanenza temporanea) -
e' stato corresponsabile dello sviluppo di un approccio negativo e puramente
repressivo verso l'immigrazione. E ha la forte responsabilita' nei
complessivi sette anni di governo (tra il 1996 e il 2001 e tra il 2006 e il
2008) di non aver fatto nulla per approvare due fondamentali leggi di
inclusione sociale e di rispetto dei diritti umani: la legge sulla
partecipazione al voto amministrativo degli immigrati e la legge sul diritto
d'asilo. A livello locale, poi, il centrosinistra ha fatto ancora peggio,
come dimostra la gestione di alcuni fenomeni di disagio sociale legati
all'immigrazione (si guardino i casi di Firenze e di Bologna).
E' certamente vero che i provvedimenti del governo Berlusconi vanno
contestualizzati dentro una tendenza generale delle societa' contemporanee
(tutte, anche molte di quelle povere) che progressivamente stanno
accentuando la dimensione identitaria (religiosa, culturale, eccetera) a
scapito di quella - chiamiamola cosi' - pluriversa, fondata sulle
differenze, l'incontro e il meticciato. Il razzismo di stato qui si salda
con il razzismo della societa'. Si alimentano reciprocamente. Sono tendenze
che si fondano sulla paura e sugli effetti nefasti delle peggiori dinamiche
della globalizzazione e di una secolarizzazione senza qualita' (fondata sul
consumismo e l'individualismo) che in nome di una giusta lotta alle
ideologie, ai fondamentalismi, ai fanatismi, eccetera li ha poi - per una
sorta di nemesi - alimentati e incattiviti. Ed e' altresi' vero che la
tendenza criminogena delle relazioni sociali si e' tradotta in provvedimenti
e leggi securitarie in quasi tutti i paesi occidentali, anche in quelli
guidati dai governi di centrosinistra.
Ma la declinazione di queste tendenze in Italia, da parte del governo
Berlusconi, ha degli aspetti incredibilmente rozzi e semplificati,
accompagnati da una miopia nella gestione di questo problema sia
nell'immediato che nel medio e lungo periodo. Un immane tema come quello dei
flussi migratori non si affronta a colpi di spot, di operazioni mediatiche e
annunci demagogici. Lo si vede in queste ore. E i problemi non vengono
risolti; anzi vengono addirittura aggravati in una spirale perversa che la
stessa politica alimenta a sua volta: maggiore emergenza sociale (almeno
quella percepita), piu' paura nella societa', piu' provvedimenti-annuncio
dentro una logica demagogica e di consenso. In realta' - per creare maggiore
sicurezza sociale - bisognerebbe fare esattamente il contrario di quello che
sta facendo il governo Berlusconi: rendere piu' facile l'accesso regolare
degli immigrati, spendere piu' soldi per l'inclusione sociale, favorire il
processo di cittadinanza degli stranieri, farli votare alle elezioni
amministrative, coinvolgerli dentro un processo di integrazione
multiculturale, eccetera.
Ed e' proprio la mancanza di questa visione la conferma del limite -
strutturale e, sembra, irreversibile - della politica odierna. La politica
dell'era dei media e del mercato e' indissolubilmente sintonizzata sul
"ciclo elettorale" (tra l'altro - a causa dell'intensita' delle votazioni -
brevissimo) che richiede una continua e incessante verifica, ormai
praticamente annuale. Il tema dell'immigrazione (come quello della
cooperazione allo sviluppo) vive la schizofrenia della politica del "ciclo
elettorale". Un fenomeno che ha bisogno di un approccio misurato sui tempi
lunghi viene stritolato dalle necessita' elettorali e demagogiche: la
"paura" (sociale) diventa una importante merce elettorale per il consenso.
Si puo' trovare una via d'uscita a questo ordine di cose? E' questo il
compito che un campo di forze democratiche e di sinistra dovrebbe avere in
questo paese. Non e' vero che si tratta di un fenomeno "ingovernabile": lo
si vuole ingovernabile per calcolo politico. Si tratta allora di coniugare
una grande iniziativa politica, ideale ed etica (anche con la disobbedienza
civile delle misure che violano i diritti delle persone) con un buon governo
della complessita' sociale che questo fenomeno implica. E soprattutto - per
il centrosinistra - si tratta di liberarsi dalla subalternita' culturale
dimostrata in questi anni verso la cultura di destra, sia quella politica
che quella che ha affondato in questi anni le radici nella societa'.

2. INCONTRI. LE PERSONE DEL CLAN ANTARES DEL GRUPPO SCOUT BRACCIANO 1: UNA
CHIACCHIERATA A VITERBO
[Ringrazio dal profondo del cuore le amiche e gli amici del clan Antares del
gruppo scout Bracciano 1 per la chiacchierata (e la mangiata) che facemmo il
30 dicembre scorso, cui si riferiscono queste loro successive riflessioni.
La conversazione comincio' riflettendo sull'espressione "Governare un gran
regno e' come friggere pesciolini" (che si trova nel Tao Te Ching) e si
concluse leggendo e meditando alcuni versi di Primo Levi: nel mezzo, ore di
gioia nel reciproco ascoltarsi, nello stare in cerchio, nel consumare
insieme il pasto insieme preparato. Mi inchino a queste amiche e questi
amici, la cui bellezza e la cui bonta' mi commuovono fino alle lacrime, e
pur arrossendo per le troppo gentili parole che hanno voluto dedicare alla
mia persona, molto mi allieta poter leggere e proporre alla lettura i
seguenti loro pensieri (peppe)]

Lo scorso dicembre a conclusione di un'esperienza di quattro giorni, il clan
Antares del gruppo scout Bracciano 1 ha avuto il piacere di incontrare Peppe
e fare con lui una interessante chiacchierata. A seguito di tale incontro
sono sorte riflessioni e pensieri che abbiamo deciso di mettere per
iscritto.
Queste sono le parole e le testimonianze del confronto di una comunita' in
crescita e in continuo viaggio.
*
Governare un gran regno e' come friggere pesciolini
E' bello fermarsi a riflettere sulla complessita' delle cose, anche quelle
che ci portano a dare un giudizio frettoloso. In questa complessita' e'
racchiusa l'importanza dello stare insieme davvero, non per "divertirsi"
(nel senso "pascaliano" di allontanarsi, distrarsi), ma al contrario per
concentrarsi, per conoscersi e riconoscersi.
L'atto del pensiero che rende unici, diversi e che ci apre agli altri.
Vederci in cerchio, curiosi di ascoltare il pensiero degli altri e' stata
una vera lezione di nonviolenza.
In un periodo in cui e' sempre piu' facile vedere le persone trincerarsi
dietro un pensiero unico, "forte", infrangibile e impenetrabile, e'
sorprendente scoprire il meccanismo della condivisione in un semplice
cerchio di persone.
Ciascuno ha semplicemente espresso il proprio pensiero, accolto ed elaborato
dagli altri. Senza timore ne' ambizione, semplicemente con la fresca
curiosita' di chi si apre alla conoscenza dell'altro.
Ascoltare e riconoscere la verita' o le parti di verita' nelle parole di
ognuno, non averne paura ma lasciarsi impregnare di tutte le idee e tutte le
parole. Ripensandoci non so davvero piu' distinguere la mia interpretazione
dalle altre cosi' come non ricordo l'interpretazione "ufficiale" della
frase.
E' una ricchezza che spero sapremo portarci dietro ancora a lungo.
L'incontro ha portato una quantita' di spunti di riflessione che alla luce
di questo primo scambio si moltiplica all'infinito. Ed e' bello, perche'
sono troppi gli errori che si commettono, quando si pensa, anche solo per un
istante, di essere arrivati. La bellezza sta nel trovare qualcuno in grado
di mostrarti l'errore. Di piu', qualcuno capace di farti vivere quanto
l'errore porti lontano dal poter apprezzare la verita' che vi e' in
ciascuno, e quanto invece impoverisca, inaridendosi, la mente che si astiene
dal confronto o dalla condivisione.
Spunti personali e riflessioni sui "tempi che corrono" si sovrappongono, ma
e' chiaro che ogni concetto che si espone ha tante interpretazioni quante
sono le persone che con esso si confrontano.
Ilaria
*
Cambiamento di prospettiva
Punto fondamentale del percorso scout e' insegnare la criticita', capacita'
di ogni persona di osservare le numerose tessere che compongono l'intricato
mosaico della realta' che ci circonda da piu' punti di vista, di non
accontentarsi di dare per vera la piu' scontata. Credo che il nostro
incontro con Peppe sia un eccellente esempio di come sia possibile cambiare
prospettiva. Innanzitutto, quando si partecipa ad una "chiacchierata" del
genere l'ospite ha quasi sempre una posizione di rilievo, questa volta ho
invece avuto la piacevole sensazione di essere li' perche' era importante
che io contribuissi con il mio personale bagaglio di esperienze, questo
perche' era stato creato da subito un rapporto paritario fra tutti i
presenti.
Quando si parla di criticita' spesso ci si riferisce ai massimi sistemi e
non ci si rende conto che, invece, e' molto importante utilizzarla anche
nell'osservare cio' che ci e' piu' prossimo; un esempio e' il fatto che
tutti - o quasi - constatiamo che la societa' nella quale viviamo e'
maschilista e in questo concordiamo, ma che dire del cinema, della
letteratura e del mondo musicale?
Parlando la nostra chiacchierata e' giunta anche all'antico testamento: chi
di voi, leggendo di non guardare la pagliuzza nell'occhio del vicino quando
non si vede la trave che e' nel proprio non si e' chiesto come fosse
possibile andare in giro con un cosi' grande pezzo di legno nell'occhio
senza accorgersene? Questo e' legato ad un problema di traduzione, in quanto
dovrebbe essere tradotto come non guardare il ramoscello che e' nella
cisterna che raccoglie l'acqua piovana del tuo vicino, quando non vedi il
ramo piu' grande che e nella tua.
Dulcis in fundo una bella chiacchierata sul tema vita/morte durante la
preparazione del pranzo, ascoltare la posizione di Peppe mi ha fatto capire
come io abbia dei forti pregiudizi, i quali - ovviamente - pregiudicano la
mia obiettivita': credevo che in Italia fossero esclusivamente i cattolici
ferventi ad essere contrari all'eutanasia, cosi' per scagliarmi contro il
loro essere bigotti avevo perso di vista il vero problema e non avevo
pensato che l'amore per la vita non appartiene a nessun sistema
ideologico...
Sara
*
La crescita, il ricordo
Una pazza disse che gli esseri umani che dimenticano la loro esperienza sono
obbligati a ripercorrere la stessa strada con gli stessi errori per poterne
cogliere le "lezioni di vita". Forse e' la ragione per la quale ci
ritroviamo in un mondo, direi piu' in una realta' in fase di "crescita
illusoria". Cosi' e' bello riscoprire come in un pomeriggio passato seduti
ad ascoltare, a parlare e a sentirsi ascoltati (essenziale per il nostro
vivere) si riesca a viaggiare nel mondo della crescita. Quando ci ritroviamo
sui banchi di scuola a studiare (o fare finta) storia, scienza, matematica o
qualsiasi altra materia, apprendiamo sogni ed esperienze di esseri umani che
hanno vissuto prima di noi e che ci hanno lasciato un messaggio ben chiaro:
la loro vita. Il progresso e la crescita quindi si basano sul ricordo.
Immaginiamo un oceano enorme, quasi infinito. Immaginiamo una pazza e un
pazzo che decidono di costruire un ponte per raggiungere l'ignoto, per
scoprire cio' che si cela oltre l'orizzonte. Essendo esseri umani il loro
arco vitale sara' molto breve rispetto al tempo impiegato per la costruzione
del loro sogno. Di conseguenza scriveranno sui libri, lasceranno
testimonianze di come disporre una trave a nord piuttosto che a sud o come
comportarsi in caso di uragano. La struttura potrebbe crollare se gli
"architetti successivi" dimenticassero le direttive e i consigli lasciati,
cosi' come potrebbe andare avanti, non senza problemi, se si tenesse conto
del passato. Siamo creature che per natura hanno bisogno di sentirsi parte
di una comunita'. Per questo motivo costruendo un ponte non dobbiamo
calpestare i ricordi passati ma tuffarci in essi e carpirne i lati migliori.
Solo in questo modo possiamo sperare di uscire dal ciclo in cui l'uomo e'
immerso e dal quale non trova via di fuga ripetendo puntualmente gli stessi
errori seppure in realta' diverse con mezzi diversi. Un incontro con Peppe
dal quale siamo usciti "cresciuti", nel quale abbiamo ricordato, in cui ci
siamo confrontati da strade diverse in una strada comune chiamata comunita'.
Uno dei messaggi di quell'incontro e' stato chiaro: non dimenticare chi
siamo, cioe' il risultato del vivere dei nostri predecessori, delle loro
testimonianze, dei loro errori, senza perdere di vista il futuro di chi ci
sostituira' nel grande ciclo chiamato vita.
Simone
*
Qualcosa di prezioso
Prezioso. E' l'aggettivo che mi viene in mente ripensando al tempo che
abbiamo condiviso quella mattina. E vorrei ricordarlo il piu' a lungo
possibile.
Vorrei ricordarlo, quando qualcuno mi passa davanti, mentre sto facendo la
fila per il caffe'; quando un uomo insulta un altro uomo per strada, per una
sciocchezza; quando sulla metro una ragazza chiede l'elemosina e tutti la
guardano con diffidenza o peggio, disprezzo; quando un senzatetto viene
fatto scendere dall'autobus in malo modo perche' emana cattivo odore; quando
leggo il giornale alla disperata ricerca di una buona notizia e... niente.
Quando mi sembra che tutto sia costruito solo sulla violenza, grande o
piccola, palese o occulta, vorrei ricordare quella mattinata.
Per sentire ad un tratto piu' forte la mia voglia di cambiare le cose. Cosi'
forte da sovrastare il rumore della violenza. Ecco perche' e' prezioso il
ricordo delle nostre parole, i nostri gesti, le espressioni sui nostri
volti, la meraviglia, l'emozione, le idee condivise, i pensieri che si
incontrano e si mescolano, i brividi a scoprirci cosi' profondamente
coinvolti l'uno con l'altro.
Georgia
*
Una chiacchierata fra compagni
Forse avrei potuto dire fra amici, ma penso che quando uno si ricordi
l'etimologia della parola "compagno" (cum pane, cioe' le persone che
condividono tra loro il pane) non possa non usarla per descrivere quella
giornata e tutte le altre giornate in cui ci siamo ritrovati in cerchio a
parlare.
Forse il modo migliore di "condividere il pane" e trascorrere del tempo con
altre persone e' condividere se stessi...
Ma di sicuro penso che, se tentassi di immaginarmi una comunita', non potrei
auspicare nulla di diverso.
Il condividere insieme le proprie opinioni per dare corpo a un poliedro di
interpretazioni della stessa frase, questo e' stato il nostro modo di
iniziare quella giornata.
Da un inizio cosi', non ci si poteva non aspettare una sospensione degna,
si', preferisco chiamarla sospensione piuttosto che conclusione, poiche'
ogni volta e' un continuare a rielaborare, e Primo Levi e' stato un ottimo
modo di salutarci.
Ed e' questo quello che e' stato fatto quel giorno da Peppe, Simone, Sara,
Andrea, Ilaria, Andrea, Daniele, Amaniele e Georgia.
Nulla di piu' di questo, ma soprattutto nulla di meno, e' stata una
discussione nata da tutti quanti come risposta ad uno stimolo.
Con questo non voglio sminuire ne' esaltare quel che si e' detto, ma penso
che, come e' stato detto, sia molto importante; penso che questo sia lo
"stimolo" cui abbiamo risposto, ovvero, rimanendo in tema di comunicazione
verbale, e' stata la cassa armonica che ne ha amplificato l'intensita'.
Perche' la comunicazione verbale e non, e' il nostro mezzo prediletto, e non
ci si deve dimenticare che il mezzo e' importante quanto il fine, o come
diceva Capitini: "Si dice: i mezzi in fin dei conti sono mezzi. Io dico: i
mezzi in fin dei conti sono tutto".
Amaniele
*
Esperimenti di coraggio
Quando sono solo, perso nei miei pensieri, la sera, magari davanti ad un
bicchiere di te', rifletto. Rifletto sul fatto che io questo mondo ho
veramente l'intenzione di cambiarlo, di lasciarlo un po' migliore di come
l'ho trovato.
Ma quando vivo la mia vita, leggo i giornali, vedo i volti e ascolto le
parole dei miei amici e assisto all'indifferenza delle persone, il coraggio
di cambiare questo mondo, a volte, mi manca.
Ma quando discuto con le persone, o partecipo ad incontri belli e profondi
come quello che abbiamo fatto insieme, io il coraggio lo ritrovo, ritrovo
gli occhi critici per giudicare quello che vedo e ritrovo il piacere
nell'informarmi e la passione nel cambiare nel mettere sempre in discussione
le mie convinzioni. Incontri cosi' mi aiutano a riflettere moltissimo, ma in
queste chiacchierate io ritrovo il mio coraggio.
Andrea U.
*
Una mattinata troppo breve...
L'unica cosa di cui mi rammarico, quando penso al momento di confronto
passato con Peppe, e' solo che e' finito troppo presto! E'í stata una
"chiacchierata" meravigliosa, riguardante una miriade di argomenti. Cio' che
mi ha fatto vivere con entusiasmo quei momenti, e' la straordinaria
capacita' di Peppe di porsi in una posizione parallela nei confronti
dell'interlocutore, facendolo sentire a proprio agio e quindi parte
integrante della discussione, mostrando interesse nel pensiero altrui, e
soprattutto, essendo sempre pronto a mettere in discussione le proprie idee.
Quella mattinata passata assieme a Peppe per me non si e' dimostrata un
semplice momento di riflessione, ma un ricchissimo punto di confronto tra
idee diverse che mi ha regalato numerosissimi spunti di riflessione e di
crescita personale.
Andrea P.

3. LIBRI. ROCCO ALTIERI: UNA VERITA' MISCONOSCIUTA. PRESENTAZIONE DE "LO
STATO E LA GUERRA" DI EKKEHART KRIPPENDORFF
[Attraverso Francesco Pistolato (per contatti: fpistolato at yahoo.it)
riceviamo e diffondiamo la presentazione di Rocco Altieri che apre il libro
di E. Krippedorff,  Lo Stato  e la guerra, Centro Gandhi Edizioni, pp. 392,
euro 30]

"Perche' mi uccidete? - E che! Non abitate forse sull'altra sponda del
fiume? Amico, se abitaste da questa parte, io sarei un assassino, e sarebbe
ingiusto uccidervi in questo modo; ma poiche' abitate dall'altra parte, io
sono un valoroso e quel che faccio e' giusto"
(Blaise Pascal) (1)
*
Ekkehart Krippendorff e' da annoverare tra i grandi precursori a livello
mondiale di quelle "scienze per la pace" che solo di recente hanno trovato
accoglienza, pur tra tante incertezze e molte resistenze, nel mondo
accademico italiano. Non e' casuale che il Centro Irene dell'Universita' di
Udine, una di queste nuove promettenti realta', lo abbia voluto fin dagli
inizi tra i membri piu' autorevoli del suo consiglio scientifico.
Tra le opere di Krippendorff il libro qui pubblicato e', per sua stessa
ammissione, il piu' importante. Benche' altri suoi saggi siano da tempo
accessibili in italiano, si e' dovuto attendere piu' un quarto di secolo per
realizzare l'attuale traduzione. Evidentemente il tema del libro e lo
spirito "sovversivo e dissacratorio" con cui vengono trattati gli idola fori
hanno spaventato e ritardato un'operazione editoriale che era quanto mai
urgente e necessaria.
Si e', percio', infinitamente grati al Centro Irene per il coraggio
dimostrato nel sostenere questa difficile impresa e a Francesco Pistolato
per aver realizzato con tenacia e grande maestria la traduzione italiana di
Staat und Krieg.
Concepito negli anni della massima escalation della guerra fredda in Europa,
con il riarmo atomico delle superpotenze che rischiava di trasformare la
Germania nello scenario catastrofico di una possibile guerra nucleare, il
libro ha rappresentato il piu' efficace contributo culturale e scientifico
da parte del movimento per la pace nel favorire quelle nuove politiche di
disgelo, che hanno poi portato all'abbattimento del muro di Berlino.
La validita' scientifica del libro non e', comunque, tramontata col passare
di quell'epica stagione, in quanto gli avvenimenti internazionali di questi
ultimi venti anni ne hanno confermato pienamente le analisi e le teorie,
trasformandolo in un vero e proprio classico del pensiero pacifista, da cui
non si puo' piu' prescindere.
Il compito del traduttore non e' stato agevole, perche' il testo tedesco
presenta una complessa costruzione narrativa, con un susseguirsi incessante
e vorticoso di incisi e di richiami bibliografici, che non e' stato facile
rendere intelligibili nel periodare della lingua italiana. La lunga
esperienza professionale, la perfetta conoscenza delle lingue, la
familiarita' con i temi della pace e della guerra, hanno permesso al
professor Pistolato di conseguire un risultato finale davvero ottimo, che
per tanti aspetti ha addirittura migliorato l'originale in lingua tedesca.
Seguendo un'ottica puramente accademica e' difficile catalogare il libro in
un ambito disciplinare ben definito. Per il suo approccio multidimensionale,
infatti, non si puo' considerare ne' alla stregua di un manuale di storia,
ne' di teoria politica e di diritto internazionale, ne' di sociologia degli
stati e delle relazioni tra stati. Benche' non classificabile come un usuale
libro di storia, esso consente al lettore di guardare alla storia con occhi
diversi, liberi dai residui retorici del realismo politico e della politica
di potenza.
Il punto focale della ricerca e' il ruolo dello stato in rapporto allo
scatenarsi della guerra e, a questo scopo, Krippendorff attraversa la storia
della civilta' occidentale, similmente a un sasso che balza nell'acqua
rapidamente, da un punto all'altro senza mai fermarsi, offrendo cosi' uno
sguardo d'insieme, dall'antichita' fino ad oggi, funzionale a uno studio
comparato delle dinamiche belliche, con uno stile narrativo pari a quello di
un Weber, di un Toynbee, di un Sorokin, pregno di echi filosofici, giuridici
e letterari, che spaziano tra Machiavelli e Shakespeare, da Tolstoj a Musil,
e che approdano alla costruzione di una chiara ermeneutica dell'insensatezza
della guerra nella storia.
Inoltre, l'abbondanza delle fonti storiche e giuridiche, cui il libro
attinge copiosamente, avvicina lo studioso italiano alla conoscenza di
un'ampia letteratura per lo piu' ignota anche in ambito accademico.
Gli episodi e i personaggi evocati nel procedere del racconto mettono in
scena davanti agli occhi del lettore una vera e propria drammaturgia sulla
"detronizzazione" del Leviatano, la mitica figura biblica, meta' uomo e
meta' cetaceo, con in una mano lo scettro e nell'altra la spada, immagine
utilizzata da Hobbes per rappresentare lo stato sovrano.
Krippendorff lacera il velo del tempio e accumula prove su prove utili ad
abbattere definitivamente il Leviatano dal suo piedistallo. Hobbes non viene
mai citato espressamente, ma il libro e' una totale e argomentata
confutazione della sua esaltazione dello stato come imperium rationis, cosi'
rappresentato nel De Cive: "Nello stato e' il dominio della ragione, la
pace, la sicurezza, la ricchezza, la decenza, la socievolezza, la
raffinatezza, la scienza, la benevolenza" (2).
Gia' numerosi studiosi (3) si sono soffermati sull'intima connessione tra la
guerra e i processi di formazione degli stati moderni, con i relativi
fenomeni di centralizzazione e di estensione del prelievo fiscale allo scopo
di sostenere la corsa agli armamenti e gli eserciti, fino alla nascita del
moderno complesso industriale-militare (4). I dati storici e le analisi
sociologiche convergono nel sostenere inconfutabilmente che lo sviluppo
degli stati e della guerra sono andati di pari passo, alimentandosi
reciprocamente.
Cio' che emerge di originale nel saggio di Krippendorff e' la dimostrazione
di quella che potremmo chiamare, parafrasando la Arendt, la "banalita'"
della guerra.
Quella che e' indubbiamente la manifestazione del male, nella sua forma
collettiva piu' eclatante e tragica, viene vissuta da coloro che la
preparano e la mettono in atto come una normalita' "data per scontata",
taken for granted come la chiama A. Schuetz con un'espressione divenuta
famosa.
Se anche la guerra e i suoi mostruosi apparati bellici, gli eserciti e
l'industria bellica, sono dati per scontati, taken for granted, "al di la'
di ogni questione cio' implica il presupposto fortemente radicato che fino a
prova contraria il mondo andra' avanti sostanzialmente nella stessa maniera
con cui e' andato finora" (5). L'idea dell'ineluttabilita' della guerra
toglie ogni speranza di cambiamento e induce i popoli alla rassegnazione e
alla passivita'.
La fenomenologia sociale di A. Schuetz converge qui con quell'idea di
habitus elaborata da Bourdieu per il quale: "Di tutte le forme di
persuasione occulta la piu' implacabile e' quella esercitata semplicemente
dall'ordine delle cose" (6).
In alto vediamo sovrani e politici di professione che danno prova di
inettitudine e inadeguatezza rispetto alla drammaticita' degli avvenimenti
bellici che incombono. Si legga in modo paradigmatico quanto l'autore scrive
in questo libro a proposito dell'approssimarsi della prima guerra mondiale.
In basso la massa si dimostra inerte, accettando la fatalita' della guerra,
lasciandosi suggestionare e manipolare dai miti della politica di potenza,
secondo tutte quelle dinamiche gia' intuite da G. Le Bon nel suo saggio
sulla psicologia delle folle(7).
In cio' risiede il piu' grande merito del lavoro di Krippendorff, contributo
straordinario di verita' e di onesta' scientifica: svelare la verita'
rimossa dalla coscienza collettiva, smascherare il delitto di sangue che e'
agli inizi della civilta', strage infinita su cui si fonda e si perpetua
ogni struttura di dominio. In un pensiero tra i piu' penetranti di Pascal
troviamo racchiuso il senso piu' profondo che ha ispirato l'indagine del
nostro autore: "Il furto, l'incesto, l'uccisione dei figli e dei padri,
tutto ha trovato il proprio posto tra le azioni virtuose. Si puo' dare cosa
piu' ridicola di questa: che un uomo abbia diritto di uccidermi perche'
abita sull'altra riva del fiume e il suo sovrano e' in lite con il mio,
benche' io non lo sia con lui? [...] La consuetudine fonda tutta l'equita'
per la sola ragione che e' seguita: questo e' il fondamento mistico della
sua autorita'. Chi tenta di ricondurla alla sua origine, l'annulla [...] Chi
volesse esaminarne il fondamento, lo troverebbe cosi' debole e cosi' leggero
ed evanescente che, se non e' abituato a considerare i prodigi
dell'immaginazione umana, si stupirebbe che il tempo gli abbia procurato
solennita' e rispetto [...] L'arte di fare la fronda, di sovvertire gli
stati, consiste nello scuotere le consuetudini vigenti, frugando fino alla
loro origine, per rivelare che mancano di autorita' e giustizia [...]
Bisogna che il popolo si avveda della verita' dell'usurpazione: e' stata
compiuta in passato senza ragione, poi e' diventata ragionevole. Bisogna
farla credere autentica, eterna, e nasconderne l'origine se si vuole che non
abbia una rapida fine" (8).
Benjamin (9) ricorda come gewalt in tedesco indichi sia la violenza che
l'autorita' costituita.
Gli stati hanno bisogno di costruire dei miti delle origini per far
dimenticare la violenza originaria e presentarsi come l'unica forza
riconosciuta come legittima. Lo stato etico di Hegel, si presenta con un
linguaggio dalle forti connotazioni religiose come l'incarnazione
dell'ideale, il raggiungimento del bene, la manifestazione piu' pura della
razionalita'. Esso e' la marcia di Dio sulla terra. L'uomo e' uno sbandato e
solo se si da' allo stato come tutto riesce a trovare il suo posto.
Si consuma in questo modo quella che Galtung (10) chiama violenza culturale
o simbolica che giustifica e legittima la guerra.
Sorel (11) e Pareto (12) hanno scritto ampiamente sulla funzione dei miti
nella formazione della coscienza collettiva, elementi decisivi per il
condizionamento e la mobilitazione delle masse.
Sulla loro scia A. Ponsonby (13) nel 1928 ha scritto che, per ottenere il
consenso in tempi di guerra, e' necessario creare uno stato di ipnosi
condiviso. Di fronte all'affermarsi del nazismo E. Cassirer ha osservato
che: "I miti politici hanno agito nello stesso modo di un serpente che cerca
di paralizzare la propria vittima prima di attaccarla. Gli uomini sono
caduti nelle loro mani senza nessuna resistenza. Sono stati vinti e
soggiogati prima di aver compreso cio' che realmente era accaduto" (14).
I tiranni sono ben consapevoli che i popoli sono mossi molto piu' facilmente
dalla forza dell'immaginazione che dalla paura della coercizione. La
retorica demagogica diventa, allora, parte essenziale della tecnica di
governo, promettendo di continuo l'avvento di una nuova eta' dell'oro.
L'uomo politico moderno agisce nello stesso tempo come homo faber e come
homo magus(15), indovino e stregone, costruttore di nuove idolatrie capaci
di plasmare per intero la forma della vita sociale. Guardando indietro alla
Germania del 1933, Cassirer osserva come il riarmo fosse iniziato molto
tempo prima, anche se era rimasto quasi inosservato. Infatti: "Il vero
riarmo comincio' con l'inizio e con lo sviluppo dei miti politici. Il riarmo
militare successivo non fu che un accessorio dopo questo fatto. E questo
fatto era gia' un fatto compiuto da molto tempo: il riarmo militare non fu
che la conseguenza inevitabile del riarmo mentale, determinato dai miti
politici" (16).
Le parole come simboli non hanno solo la funzione di descrivere uno stato di
cose o di affermare un fatto, ma anche quello di generare un'azione. Le
parole possono agire come enunciati performativi, come li chiama J. Austin
(17), strutture strutturanti che hanno il potere, in quanto strumenti di
conoscenza e di comunicazione, di rendere possibile il consenso sul senso
del mondo sociale e contribuire fondamentalmente alla perpetuazione
dell'ordine.
Corpi di specialisti per la produzione culturale di legittimita' e di
consenso sono in azione. V. Klemperer con la sua intelligenza di filologo ci
ha lasciato nei suoi taccuini (18), scritti mentre assiste all'affermarsi
del totalitarismo nazista, un testo esemplare sulla formazione della nuova
lingua del Terzo Reich. Parole che prima venivano usate in senso
descrittivo, logico o semantico, acquistano un significato nuovo, tale da
indurre effetti trasformativi e mutare il corso della politica, enfatizzando
i programmi con una mistica soteriologica del capo come messia che troneggia
al di sopra di tutto.
MacIver opportunamente rivela che ogni societa', anche quella democratica,
e' fondata su un sistema di miti (19). I miti, infatti, alimentano e
rafforzano un dato ordinamento sociale secondo le forme del pensiero
dominante. Foucault (20) ha indagato acutamente la genealogia del sapere,
riconoscendone la funzione di disciplina e di controllo sociale. Non si
tratta solo di creare disinformazione e propaganda. Il dominio, infatti, e'
insito nei rapporti sociali di comunicazione, affermando l'egemonia
culturale del dominanti sui dominati nelle forme della moda e degli stili di
vita, utilizzando la ragion di stato per mascherare e giustificare ogni
crimine, giustificando infine il male minore in nome del realismo politico,
fino a che anche la guerra, come scrive Arundhati Roy, viene chiamata pace
(21).
Il libro di Krippendorff si offre come eccellente strumento in ambito
formativo, efficace antidoto ad ogni mistificazione, respingendo con
chiarezza la retorica storica che ruota intorno alle idee di difesa della
patria, vocazione di grande potenza, scontro di civilta', tutte espressioni
che possono acquistare un'aurea magica, tale da suscitare emozioni che
oscurano la ragione e contagiare le menti anche di grandi intellettuali,
come e' accaduto in passato a M. Weber (22) e G. Simmel (23) posti di fronte
al destino della Germania nella grande guerra.
Agostino di Tagaste nel De Civitate Dei ha scritto pagine rivelatrici sulla
verita' che sta a fondamento della citta' terrena: Caino uccide Abele,
Romolo uccide suo fratello. Le parole usate da Agostino possono essere poste
come un'illuminante epigrafe finale alle tesi sviluppate da Krippendorff in
tutto il libro: "Bandita la giustizia, che altro sono i regni se non grandi
associazioni di delinquenti? Le bande di delinquenti non sono forse dei
piccoli regni? Non sono forse un'associazione di uomini comandati da un
capo, legati da un patto sociale, e che si dividono il bottino secondo una
legge accettata da tutti? Se questa compagnia recluta nuovi malfattori, se
occupa un paese, stabilisce proprie sedi, se si impadronisce di citta' e
soggioga popoli, prende il nome di regno; titolo che le viene conferito non
perche' sia diminuita la sua cupidigia, ma perche' a questa si aggiunge
l'impunita'. Cosi' disse un pirata, fatto prigioniero, con arguzia e verita'
ad Alessandro Magno. Interrogato da questo sovrano con quale diritto
infestasse il mare, egli con audace franchezza rispose: 'Per lo stesso
diritto con cui tu infesti tutta la terra. Perche' non ho che una piccola
nave, sono chiamato corsaro, e perche' tu hai una grande flotta sei chiamato
imperatore!'" (24).
Se Bourdieu (25) ha visto, nel misconoscimento della violenza originaria, la
condizione per la legittimazione dello stato e della guerra permanente,
Krippendorff fa capire che senza abbattere gli idola fori, senza il
riconoscimento del carattere arbitrario del realismo politico, non sara'
possibile costruire un'autentica cultura di pace.
Non e' possibile sottrarsi al dominio della violenza sostituendo un ordine
statuale con un altro. Il pensiero ardito del libro si unisce a quello di
Tolstoj (26) che invita a decostruire l'immaginario dominante, a fuoriuscire
con l'obiezione di coscienza dalla logica degli stati e degli eserciti.
Come ha riconosciuto R.M. MacIver, scrivendo alla fine della seconda guerra
mondiale, cio' che e' stato finora dato per scontato puo' essere messo in
discussione nelle situazioni di crisi. La situazione della guerra moderna
invalida gli schemi interpretativi e i sistemi politici di riferimento. Nel
corso di spaventosi conflitti, i motivi che li hanno scatenati, quali che
siano, diventano irrilevanti. La guerra cessa di essere uno strumento utile
alla politica (27). Infatti: "Le conseguenze di una guerra sono cosi' vaste,
cosi' gigantesche e cosi' imprevedibili, che non c'e' piu' alcuna relazione
con gli obiettivi che uno stato puo' cercare di raggiungere con la guerra
stessa. Molto prima della fine del conflitto gli obiettivi iniziali
diverrebbero insignificanti e perduti nell'immensita' e nel terrore della
lotta [...] I sentimenti della maggioranza degli uomini sono favorevoli a
quelle proposte che, con sempre maggiore insistenza, tendono ad eliminare la
guerra come istituzione" (28).
*
Note
1. B. Pascal, Pensieri, a cura di A. Bausola, Milano, Bompiani, 2006, p.
143.
2. T. Hobbes, De Cive, X, 1, trad. it. Elementi filosofici sul cittadino, a
cura di N. Bobbio, in Opere politiche, Torino, Utet, 1971, p. 211.
3. Tra la bibliografia cresciuta a dismisura su questo tema ricordiamo
l'opera di C. Tilly, L'oro e la spada, Firenze, Ponte alle Grazie, 1991.
4. Cfr. C. Wright Mills, La elite al potere, Milano, Feltrinelli, 1959.
5. Cfr. A. Schuetz, Collected Papers, vol. II, The Hague, Martinus Nijhoff,
1976, p. 231.
6. P. Bourdieu, Risposte, Torino, Bollati Boringhieri, 1992, p. 130.
7. G. Le Bon, Psicologia delle folle, Milano, Tea, 2004.
8. B. Pascal, Pensieri, cit., p. 143.
9. W. Benjamin, Per la critica della violenza, in Angelus Novus, Torino,
Einaudi, 1962, pp. 5-30.
10. J. Galtung, Pace con mezzi pacifici, Milano, Esperia, 2000, p. 357.
11. G. Sorel, Riflessioni sulla violenza, in Scritti politici, Torino, Utet,
1963, p. 304.
12. V. Pareto, Trattato di sociologia generale, Milano, Comunita', 1981.
13. A. Ponsonby, Falsehood in Wartime, London, George Allen & Unwin, 1978.
14. E. Cassirer, Il Mito dello Stato, Milano, Longanesi, 1996, p. 484.
15. Ibid., p. 476.
16. Ibid., p. 477.
17. J.H. Austin, Come fare cose con le parole, Genova, Marietti, 1987.
18. V. Klemperer, LTI. La lingua del Terzo Reich, Firenze, Giuntina, 1998.
19. R.M. MacIver, The Web of Governement, New York, MacMillan, 1947, trad.
it di L. Berti, Governo e Societa', Bologna, il Mulino, 1962, p. 8.
20. Cfr. M. Foucault, Le parole e le cose, Milano, Rizzoli, 1998.
21. A. Roy, Guerra e' pace, Parma, Guanda, 2002.
22. M. Weber, Scritti politici, Roma, Seam, 1998.
23. Cfr. G. Simmel, Sulla guerra, Roma, Armando, 2003.
24. S. Agostino, De civitate Dei, libro IV, cap. 4.
25. P. Bourdieu, Langage e pouvoir symbolique, Paris, Seuil, 2001, pp.
201-211.
26. Cfr. L. Tolstoj, Perche' la gente si droga? e altri saggi su societa',
politica, religione, Milano, Mondadori, 1988.
27. R.M. MacIver, The Web of Governement, cit., p. 395.
28. Ibid., pp. 383-384.

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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
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Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
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Numero 308 del 3 marzo 2009

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