La domenica della nonviolenza. 197



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LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 197 del 4 gennaio 2009

In questo numero:
Alcuni estratti da "L'invenzione dell'etnia" a cura di Jean-Loup Amselle ed
Elikia M'Bokolo

LIBRI. ALCUNI ESTRATTI DA "L'INVENZIONE DELL'ETNIA" A CURA DI JEAN-LOUP
AMSELLE ED ELIKIA M'BOKOLO
[Dal sito www.tecalibri.it riprendiamo i seguenti estratti dal libro di AA.
VV, a cura di Jean-Loup Amselle ed Elikia M'Bokolo (con contributi di M.
Fusaschi, F. Pompeo, J.P. Dozon, J. Bazin, J.P. Chretien, C. Vidal),
L'invenzione dell'etnia, Meltemi, Roma 2008 (ed. originale Au coeur de
l'ethnie. Ethnie, tribalisme et Etat en Afrique, La Decouverte, Paris 1985)]

Indice del volume
Introduzione, di Michela Fusaschi e Francesco Pompeo; Prefazione alla
seconda edizione. Au cúur de l'ethnie rivisitato, di Jean-Loup Amselle ed
Elikia M'Bokolo; Prefazione alla prima edizione, di Jean-Loup Amselle ed
Elikia M'Bokolo; Etnie e spazi: per un'antropologia topologica, di Jean-Loup
Amselle; I bete': una creazione coloniale, di Jean-Pierre Dozon; A ciascuno
il suo bambara, di Jean Bazin; Hutu e tutsi in Ruanda e in Burundi, di
Jean-Pierre Chretien; Situazioni etniche in Ruanda, di Claudine Vidal; Il
"separatismo katanghese" di Elikia M'Bokolo; Bibliografia.
*
Da pagina 7
Introduzione, di Michela Fusaschi e Francesco Pompeo
"Una civilizzazione non nasce da se stessa; piuttosto essa e' un incontro"
(Mercier 1962).
Ragioni generative
Questo importante lavoro curato da Jean-Loup Amselle e Elikia M'Bokolo esce
in Francia nel 1985 come esito di un lungo lavoro collettivo e, all'ennesima
ristampa oltralpe, viene reso disponibile in italiano solo oggi, colmando un
ritardo di almeno due decenni.
Le questioni che riguardano l'identita' culturale, l'etnicita' e la
tradizione trattate in questo volume sono al centro di un'ampia riflessione
gia' dalla fine degli anni Sessanta. La letteratura antropologica
internazionale ha, infatti, rimesso in discussione le categorie descrittive
e interpretative, spostando l'attenzione sulla comprensione delle dinamiche
che sono alla base dei processi identitari.
La traduzione di Au cúur de l'ethnie, a parte l'estrema difficolta' di
rendere un titolo cosi' evocativo, fornisce alle lettrici e ai lettori
italiani l'opportunita' di confrontarsi direttamente con un percorso di
ricerca denso, mettendo forse fine anche ad alcune letture interessate e
riduzioniste che, come apparira' piu' chiaro pagina dopo pagina, non si sono
sempre confrontate con i testi originali pretendendo di confutarli, pur non
entrando nel merito.
I sei studi che compongono il libro, realizzato insieme agli storici, sono
legati da un filo rosso che unisce almeno due punti essenziali, i quali
delineano rispettivamente un forte posizionamento teorico e una critica, se
non una denuncia, altrettanto marcata: da un lato si afferma l'idea che
occorra decostruire gli oggetti dell'etnologia, rifiutando il pensiero
dell'esistenza di essenze culturali e rintracciandone i percorsi generativi
all'interno del modello di conoscenze di quella che, qualche anno dopo,
sara' definita come la "ragione etnologica" (Amselle 1990). Dall'altro si
delinea una netta presa di posizione verso coloro che leggono i conflitti
del continente africano nel segno del tribalismo, ovvero in relazione a
"manifestazioni etniche viste come la sopravvivenza di un passato sempre
vivace e molla del presente" (Moniot 1986, p. 135).
*
Da pagina 35
Prefazione alla prima edizione, di Jean-Loup Amselle ed Elikia M'Bokolo
Abbiamo riunito in questo testo alcune riflessioni teoriche e degli studi di
caso sul concetto di etnia e su altre nozioni (tribu', "razza", nazione,
popolo) che sono ad esso frequentemente associate, ma anche sui fenomeni
correntemente designati nel contesto africano attraverso le espressioni di
tribalismo, etnicita', regionalismo, nazionalismo tribale...
Questi fenomeni non sono certo solo caratteristici dell'Africa: le ideologie
di autoctonia, i movimenti separatisti, la ricerca e l'affermazione di
identita' collettive diverse da quelle legate allo Stato nazione, in breve,
i particolarismi di ispirazione culturale o politica si ritrovano, con
un'intensita' variabile, in un buon numero di regioni e di Stati,
dall'America anglosassone alla Cina e all'Indocina, dalla Russia sovietica
all'America Latina, dal Vicino Oriente all'Europa. E non e' raro che vi
esplodano di tanto in tanto violente rivolte.
In nessun altro luogo questi particolarismi occuparono o sembrarono occupare
il terreno politico e il campo intellettuale in modo cosi' massiccio come in
Africa. Molteplici fattori spiegano questa particolarita'.
Innanzitutto, nel seno stesso dell'africanismo, una lunga tradizione
scientifica, incentrata sull'etnologia o sull'antropologia, si e'
identificata con lo studio delle etnie senza affrontare, in un silenzio
eloquente e compromettente, un'analisi rigorosa del concetto di etnia.
D'altronde la maggior parte delle interpretazioni dei fenomeni politici
caratteristici dell'Africa contemporanea hanno integrato l'etnia e tutto
cio' che ne deriva in uno schema semplicistico e rassicurante: qualificati
come "modernisti", i movimenti che hanno condotto alle indipendenze e le
egemonie che li hanno seguiti sono presentati come altrettante aspirazioni a
costruire delle nazioni e a consolidarle. Improvvisamente, le molteplici
opposizioni a questi pretesi "Stati nazionali in costruzione" sono state
ridotte a delle "lotte tribali", essendo lo stesso tribalismo concepito come
l'espressione politica dell'etnia e squalificato piu' spesso come
sopravvivenza e risorgenza di arcaismi precoloniali. Se e' necessaria una
testimonianza recente dell'incredibile resistenza di questi cliche', eccone
qui una, attinta da una buona fonte, ovvero dalla seria rivista "Afrique
contemporaine". Il primo agosto del 1982 ci fu in Kenya un colpo di Stato.
L'articolo che lo riferisce pone una domanda essenziale: "Resta da
comprendere perche' abbia avuto luogo". La risposta e' certamente evidente:
"ben inteso, qui come in Uganda e come in Zimbabwe, i dati etnici servono da
supporto ai combattimenti politici, che non fanno altro che 'modernizzare'
comportamenti antichi che il periodo coloniale in Africa inglese, piu' che
altrove, non e' riuscito ad eliminare. Ed e' cosi' che si scopre che, dietro
agli insorti, si profilano i Kikuyo, tribu' illustre e maggioritaria in
Kenya". Si potrebbero moltiplicare a piacere gli esempi delle variazioni
alle quali la vulgata etnicista continua a dare luogo sul modello del
discorso scientifico o su quello dell'evidenza comune.
Diciamolo sin da subito, c'e' una grande distanza fra queste opinioni e gli
studi qui riuniti che giungono a delle conclusioni molto vicine a quelle
sviluppate da Paul Mercier piu' di venti anni fa, quando, interrogandosi sul
"significato del tribalismo", egli notava che "le opposizioni etniche
attuali esprimono e riflettono ben altre cose che differenze culturali e
ostilita' tradizionali, che si perpetuano sotto altre forme" (1961, p. 70).
Ma quali altre cose? Occorre sottolineare che il dibattito sull'etnia e il
tribalismo non e' puramente teorico; a partire da lord Fredrick Lugard,
teorico del colonialismo britannico, se cosi' si puo' dire, fino al regime
dell'apartheid sudafricano, passando per i poteri dello Stato contemporaneo,
tutti i sistemi di dominazione in Africa hanno allegramente attinto dalle
teorie dell'etnia e abilmente manipolato i sentimenti etnici. Nel 1923, lord
Lugard, ispirandosi all'approccio naturalista degli etnologi dell'epoca,
proponeva di "classificare" la popolazione dell'Africa tropicale in tre
tipi, secondo le strutture sociali, ossia "le tribu' primitive, le comunita'
evolute e gli africani europeizzati". Sappiamo cosa simili argomentazioni
hanno determinato sul piano della politica in paesi come il Ghana, il Kenya,
la Nigeria o l'Uganda: vessazioni e controlli minuziosi nei confronti degli
"africani europeizzati" e delle "comunita' di evoluti" giudicate troppo
dinamiche; privilegi di ogni tipo per le chefferies delle tribu' primitive
ritenute rappresentare l'Africa tradizionale congelate nelle loro strutture
e nella loro vocazione a essere colonizzate.
Erede del pensiero e della politica coloniale britannica della fine del
secolo scorso, il regime dell'apartheid ha perfezionato questa
manipolazione: assimilare le societa' africane a tribu' non comporta
solamente proclamare la loro "differenza" irriducibile allo sguardo della
societa' bianca - societa' di classe e Stato nazionale -, ma significa anche
abbassarle al rango piu' basso nella gerarchia delle societa' umane; allo
stesso modo erigerle a societa' tribali significa anche affermare che queste
sono in permanente conflitto tra loro e legittimare una sistematica politica
di divisione.
Abbassare, escludere e dividere rappresentano davvero l'essenza della
politica dei "bantustan". Quanto ai poteri dello Stato dell'Africa
indipendente, questi hanno fatto propri e interiorizzato la visione, i
cliche' e gli stereotipi dell'etnologia coloniale: la "diversita' tribale"
degli Stati africani serve loro come argomento per rifiutare il pluralismo
politico, dietro il pretesto che esso non sarebbe che un'espressione di
questa diversita' e di conseguenza un ostacolo alla costruzione nazionale.
Il culto dello Stato nazione serve naturalmente a legittimare poteri
personali e dittature oligarchiche; sicche' i rumorosi discorsi sull'unita'
nazionale sono ovunque accompagnati da una politica abilmente
spettacolarizzata, dai "dosaggi etnici e regionalistici", che permettono al
potere di dissimulare la sua natura nel perpetuare gli stereotipi etnicisti.
Abbiamo cercato in questo libro di rimettere un po' le cose al loro posto.
Per fare cio' occorre innanzitutto operare le necessarie riclassificazioni
concettuali interrogandosi sistematicamente sulla nozione di etnia. Jean
Bazin a proposito dei bambara e Jean-Pierre Dozon per i bete' dimostrano che
in fatto di etnie siamo in presenza di realta' in movimento: qui come
altrove, nessuno e' esclusivamente membro di un'etnia, e gli individui, come
i gruppi sociali, sono o cessano di essere secondo il luogo e il momento
membri di una o di talaltra etnia. In definitiva sono l'etnologia e il
colonialismo che, misconoscendo la storia o negandola, ansiosi di
classificare e di nominare, hanno cosi' fissato le etichette etniche. Si
deve procedere, come dimostra in effetti Jean-Loup Amselle, a "decostruire
l'oggetto etnico": una volta riabilitate la storia e un'antropologia
dinamica, appare chiaro che i gruppi etnici sono stati integrati in insiemi
piu' ampi, degli "spazi" strutturati attraverso fattori economici, politici
e/o culturali che hanno determinato i "gruppi etnici", fornendo loro anche
un contenuto specifico.
I "tribalismi" contemporanei non possono pertanto esprimere altro che
l'etnia. Le analisi di questi fenomeni a Shaba proposte da Elikia M'Bokolo,
in Ruanda e Burundi da Jean-Pierre Chretien e Claudine Vidal dimostrano
quanto essi siano legati a determinate fasi storiche nel corso delle quali
gli attori politici, le categorie e le classi sociali si trovano ridotti a
esprimere le loro ambizioni, la loro collera o il loro fallimento nel
linguaggio tribale, etnico o regionalista. Cosi', nella maggior parte dei
casi, e' la lotta per il potere dello Stato che si riflette in queste
pratiche.
Tutti questi punti rappresentano le principali tappe di un lungo percorso
tanto collettivo quanto individuale. Scommettiamo che queste saranno
ripercorse da altri e che in questo modo saranno svelate le vere spinte
delle societa' africane.
*
Da pagina 39
Etnie e spazi: per un'antropologia topologica, di Jean-Loup Amselle
E' ovvio affermare che la questione dell'"etnia" e' al centro della
riflessione antropologica ed e' altrettanto ovvio che essa costituisca il
fondamento del suo approccio scientifico. Tuttavia e' facile constatare che,
fino a tempi recenti, questo tema di ricerca non ha suscitato un grande
entusiasmo da parte della maggioranza degli antropologi. Scorrendo la
letteratura, si ha in effetti la sensazione che il trattamento del problema
dell'etnia sia considerato dai ricercatori sul campo come una corvee di cui
occorre sbarazzarsi al piu' presto per affrontare i "veri" campi: la
parentela, l'economia e il simbolismo, ad esempio. Benche' la definizione
dell'etnia studiata dovrebbe costituire l'interrogazione epistemologica
fondamentale di ogni studio monografico e, in un certo senso, tutti gli
altri aspetti ne dovrebbero conseguire, si percepisce invece che, spesso,
esiste uno iato tra un capitolo preliminare che, per poco che vi ci si
attardi, mostra la fluidita' relativa dell'oggetto, e il resto del lavoro.
in cui al contrario le considerazioni sull'organizzazione parentale e la
struttura religiosa fanno prova della piu' grande sicurezza.
Questa relativa "dimenticanza" o questo "disinteresse" da parte degli
antropologi ha senza dubbio a che fare con la storia della disciplina e
anche con le differenti tendenze che l'hanno animata. E' sempre piu'
evidente che l'antropologia si e' formata sulla base del rigetto della
storia e che questo rifiuto si e' di fatto mantenuto da allora. Senza
pretendere di lasciarci andare a un inventario classico, che consiste nel
passare in rassegna ogni scuola antropologica e nell'esaminare il modo in
cui essa avrebbe trattato il problema dell'"etnia", e' in questa sede
sufficiente ricordare che le correnti che hanno segnato maggiormente il
pensiero antropologico - l'evoluzionismo, il funzionalismo, il culturalismo
e lo strutturalismo - sono delle dottrine essenzialmente astoriche.
Se si considera, seguendo il pensiero di Marc Auge' (1979), lo spazio dentro
il quale si sviluppa il pensiero antropologico contemporaneo, si capisce
chiaramente come mai l'analisi sull'etnia non possa essere posta al centro
della riflessione degli etnologi. Secondo Auge', questo spazio antropologico
e' diviso fra due grandi correnti: l'una che si interessa al senso e al
simbolo e l'altra che tratta essenzialmente della funzione. La prima
corrente comprende la scuola di Griaule e gli strutturalisti, la seconda i
funzionalisti e i marxisti, che Auge' mette, a ragione, sotto la medesima
categoria.
E' ben evidente, dunque, se si considera la prima tendenza, che ne' i
discepoli di Griaule, che accordano la priorita' a cio' che le societa'
stesse dicono, ne' tantomeno gli strutturalisti, che hanno invece bisogno di
piu' societa' o almeno di piu' sistemi di parentela o di miti per pensare le
possibilita' differenziali dello spirito umano e stabilirne la
trasformazione nel senso matematico del termine, non potevano di fatto porre
il tema dell'etnia al centro del loro discorso.
Per quanto riguarda la seconda tendenza, quella che comprende i
funzionalisti e i marxisti, la questione e' piu' complessa. Si sa che il
padre fondatore della scuola funzionalista, Malinowski, rifiuta la storia,
da lui assimilata all'evoluzionismo. Dal momento che non esiste la sequenza
tipo "selvaggio, barbaro, civilizzato" si tratta di considerare ogni
societa' nella sua specificita' ma senza che sia presa nello stesso tempo in
considerazione la possibilita' di stabilire la sua micro-storia. E' cosi'
che seguendo Lucy Mair, Malinowski (1945) postula l'esistenza di un grado
zero del cambiamento corrispondente all'ambiente rurale e prosegue lo studio
del "contatto culturale" a partire dallo stato originario delle societa'
contadine africane. Si puo' allo stesso modo notare, in senso inverso, come
Nadel, il quale si situa in continuita' con Malinowski, come vedremo, sia
tra coloro i quali hanno fornito una delle migliori definizioni di cosa sia
l'etnia.
Se ora ci si avvicina alla sponda marxista la situazione si presenta ancora
piu' ambigua. Certamente ci si potrebbe aspettare che gli antropologi che si
richiamano a Marx abbiano focalizzato il loro approccio in particolare
sull'etnia, avendo tenuto la storia come riferimento costante. Ma non e'
questo il caso: a eccezione dello studio di Maurice Godelier (1973, pp.
93-131) sulla nozione al primo sguardo vicina, ma in realta' distinta, di
"tribu'", su questo punto i marxisti non hanno particolarmente brillato per
la loro riflessione teorica. Non e' difficile comprenderne il perche':
assimilando talvolta la storia alla sola evoluzione delle forze produttive e
preoccupati di individuare uno o piu' modi di produzione, per come si
combinano all'interno di una formazione sociale, essi hanno trascurato
l'analisi della "produzione di forme" (Amselle 1979) e si sono accontentati
della comprensione empirista dell'etnia tale e quale gli era stata trasmessa
dai loro predecessori - molto spesso degli amministratori coloniali o
missionari (Chretien 1981a) - e che gli forniva un quadro comodo all'interno
del quale essi potevano situare questi concetti (Copans 1982). Da questo
punto di vista occorre notare l'esistenza di una distanza considerevole fra
l'assenza di una riflessione marxista di ordine generale sull'etnia e la
qualita' della speculazione della realta' dei gruppi etnici cosi' come essa
appariva nelle monografie di questi autori (Meillassoux 1964; Terray 1969).
In tal senso ci si puo' domandare se questi antropologi non siano rimasti
prigionieri di una problematica indubbiamente assai influenzata da una
lettura neo-positivista del marxismo (Althusser) e dalla condanna che quella
implicava di ogni storicismo e se, per altri aspetti, non abbia gravato su
di loro il peso dell'istituzione antropologica che spinge ogni ricercatore a
identificare il proprio nome con un'etnia particolare (Meillassoux 1979).
Questa corrente marxista non di meno e' soggetta da qualche tempo a
un'evoluzione sensibile: alcuni dei suoi rappresentanti stanno rimettendo in
questione quello che era il loro approccio monoetnico (1978) mentre si
stanno avvicinando alla terza corrente che sara' adesso chiamata in causa,
quella che Paul Mercier (1966) ha definito "dinamista". A questa prospettiva
si collegano i nomi di Max Gluckman, Georges Balandier, Paul Mercier,
Jacques Lombard, Guy Nicolas e Jean Copans. Questi autori sono abbastanza
vicini al marxismo nel senso che insistono sulla necessita' di procedere
attraverso un approccio storico a ogni societa' o piu' precisamente al
quadro scelto come luogo di inchiesta: villaggio, chefferie, regno, e cosi'
via. Questo primato accordato alla storia interviene nella maniera seguente:
conviene scegliere l'insieme delle determinazioni che pesano su uno spazio
sociale determinato e mettere l'accento sulla rete di forze, tanto "esterne"
quanto "interne", che lo strutturano; in poche parole si tratta di
analizzare "l'efficacia di un sistema su di un luogo" (Amselle 1974, p.
103). Questo approccio conduce a mettere in rilievo nel senso piu' ampio il
quadro "politico" di questo spazio e a inserirlo in un insieme che lo
oltrepassa. Questa riflessione dovra' arrivare, se non a una definizione
operativa dell'etnia (ce n'e' bisogno?), almeno alla decostruzione
dell'oggetto etnico che rappresenta sempre un freno per il progresso della
disciplina. Ma prima di vedere a che cosa potra' portare il superamento
della problematica etnica e' opportuno esaminare le differenti definizioni
dell'etnia proposte dagli antropologi.
*
Definizioni
Il termine "etnia" (dal greco ethnos: popolo, nazione) e' apparso
recentemente nella lingua francese (1896); nel XVI e nel XVII secolo, come
sottolinea Mercier (1961, p. 62), il termine "nazione" equivaleva a quello
di "tribu'". L'apparizione e la definizione tardive dei termini "tribu'" ed
"etnia" conducono sin da subito a porre un problema sul quale ritorneremo,
quello della congruenza tra un periodo storico (colonialismo e
neocolonialismo) e l'utilizzazione di una determinata nozione.
Se questi termini hanno acquisito un'utilizzazione massiccia, a detrimento
di altre parole, come il termine "nazione", e' senza dubbio perche' si
trattava di classificare a parte talune societa', negando loro una qualita'
specifica. Conveniva infatti definire le societa' amerindiane, africane e
asiatiche come altre e differenti dalle nostre, togliendo loro quegli
elementi attraverso cui esse potevano partecipare di una comune umanita'.
Questa qualita' che le rendeva dissimili e inferiori alle nostre societa' e'
evidentemente la storicita', e in questo senso le nozioni di "etnia" e di
"tribu'" sono legate ad altre distinzioni attraverso le quali si opera la
grande divisione tra antropologia e sociologia: societa' senza
storia/societa' storiche, societa' preindustriali/societa' industriali,
comunita'/societa'.
Gli antropologi si sono dunque trovati prigionieri di alcune categorie
all'interno delle quali si sono dovuti situare per studiare societa' di loro
competenza, nel momento stesso in cui queste venivano "fissate" dalla
colonizzazione (Piault 1970, p. 23). Questo forse puo' spiegare come mai
accanto a brillanti studi su parentela e religione si siano avute davvero
poche analisi sulla categoria dell'"etnia".
*
Da pagina 165
Hutu e tutsi in Ruanda e in Burundi, di Jean-Pierre Chretien
L'esistenza delle etnie hutu e tutsi in Ruanda e Burundi rileva uno strano
insieme di evidenze. Ecco delle "etnie" che non si distinguono ne' per
lingua, ne' per cultura, ne' per la storia e tantomeno per lo spazio
geografico occupato. Certo l'evoluzione sociale e politica contemporanea dei
popoli ruandesi e burundesi ha proposto questa separazione come una realta'
sovente tragica. Ma, molto prima degli avvenimenti del 1959-1963 in Ruanda e
di quelli del 1972-1973 in Burundi, l'evidenza dell'opposizione definita
etnica si e' imposta agli osservatori sotto un doppio registro: quello delle
formule stereotipate, riprese in maniera ossessiva nei reportages o nei
cataloghi turistici come nei rapporti degli esperti e nelle recensioni
accademiche; e quello di un immaginario falsamente ingenuo, come in quel
"saggio fotografico" del 1957 dove tutti i bahutu del Ruanda erano ripresi
in "profondita'" su un fondo di erbe o di terra battuta e vestiti in maniera
succinta, mentre i batutsi si staccavano in "contro-profondita'", su uno
sfondo azzurro cielo, con i profili "etiopici" calcolati, insieme alle
silhouette delle vacche dalle corna lunghe. "Signori tutsi" e "servitori
hutu" vengono messi in scena con le posture e l'abbigliamento che conviene
agli uni e agli altri come in certi film etnografici dell'epoca dove il
mondo "tradizionale" veniva presentato attraverso sequenze di un vero
romanzo fotografico (Maquet 1957). Le miniere del re Salomone, un film
girato in Ruanda e uscito nel 1950, contribuira' a riattualizzare in un
vasto pubblico europeo la fantasmagoria egiziana elaborata da piu' di un
secolo. Roland Barthes, a proposito di un film dello stesso stile, pote'
scrivere: "Di fronte allo straniero, l'Ordine non conosce che due condotte
entrambe come mutilazioni: o riconoscerlo come marionetta o neutralizzarlo
come puro effetto dell'Occidente" (Barthes 1957, p. 184).
In Ruanda, alla vigilia dell'indipendenza, anche gli amministratori piu'
convinti, i coloni piu' limitati o i missionari meno sottili potevano
concedersi l'illusione di comprendere questo esotismo ragionevole in modo da
poter agire su una societa' "feudale" da manuale scolastico.
In ogni caso, lo sguardo gettato su questo paese lo situava fuori dal tempo,
gli negava la sua storia e anche gli effetti dell'imperialismo coloniale. Le
etnie, in questo ambito ideologico, sono dei fatti di "natura" e l'azione
moderna degli Stati e' rigettata sotto i discorsi teorici della
"civilizzazione". Solo un'analisi storica rigorosa permette di mettere in
luce il processo che ha condotto a cristallizzare le coscienze etniche nei
paesi senza etnie degne di questo nome.
*
Da pagina 166
Un'eredita' della razziologia del XIX secolo: camiti e bantu
I due paesi furono attraversati per la prima volta dagli europei nel 1892
(Oscar Baumann in Burundi) e nel 1894 (il conte von Goetzen in Ruanda).
Ancor prima che vi mettessero piede, la teoria che tracciava i ritratti
contrastanti del negro dell'"Africa delle tenebre" e del misterioso
Orientale venuto ad avventurarsi fino a li' gia' era stata forgiata a
partire dai contatti con le altre regioni dell'Africa e dalle riflessioni
antropologiche dell'epoca.
E' attorno alla Bibbia e al Vicino Oriente che il dibattito si era
intrecciato a partire dalla prima meta' del XIX secolo: la linguistica,
l'archeologia e l'esegesi razionalista giunsero a mettere in discussione la
negritudine attribuita fino a quel momento a Cham e a rimpiazzare la
discendenza di quest'ultimo nella "razza caucasica" bianca. Il poligenismo
aveva condotto gli intellettuali a vedere nei "Neri in quanto tali" i
rappresentanti di un'altra "specie" umana. I viaggiatori che si
avventurarono verso il Niger, lo Zambesi o l'Alto Nilo scoprirono che gli
africani non corrispondevano affatto al modello del negro caricaturale che
si vedeva all'epoca sulle insegne dei tabaccai e che lo raffigurava
volentieri come l'antitesi della statua greca antica, tipo ideale dell'uomo
bianco. Le impressioni estetiche giocarono sin dall'inizio un grande ruolo
nel gettare le fondamenta dei saperi antropologici. Le etnie furono molto
presto classificate, non senza contraddizioni fra gli osservatori, secondo
il loro grado di "bellezza", di "intelligenza", di "fierezza" o di
"organizzazione politica"; "i tratti culturali, morali e fisici dovevano
concorrere in maniera coerente alla gerarchizzazione delle popolazioni"
(Chretien 1977a).
La soluzione di queste contraddizioni fu trovata verso la meta' del XIX
secolo da alcuni linguisti sotto forma di un vero gioco di parole: il
rovesciamento del senso della parola chamita, sempre piu' utilizzata, sotto
l'influenza dei filologi tedeschi, in hamita, per designare degli africani
"superiori", in qualche modo dei neri sbiancati, quelli che gia' altrove
abbiamo definito come "falsi negri". La mania della classificazione e
dell'etichettamento, eredita' delle scienze naturali del XVIII secolo, trova
in questo modo la sua soddisfazione. Ma il grande dibattito sull'unicita'
della specie umana, sulle "razze" e sulla sorte da riservare alla Tavola
delle Nazioni della Genesi fu certamente determinante per il successo di
questa nuova terminologia.
La tesi delle grandi migrazioni nord-sud, le piu' recenti delle quali
dovevano essere le piu' evolute, e lo schema socio-biologico dei
meticciamenti presentati come fonti delle culture intermedie tra la barbarie
e la civilizzazione ispirarono l'essenza dell'etnologia africanista della
fine del XIX secolo e della prima meta' del XX. Lefevre, un esponente della
scuola di antropologia di Parigi, nel 1892 fornira' la sua ricetta:
"Seguendo a ritroso il cammino degli invasori e la distribuzione geografica
dei vincitori e dei vinti, soprattutto il grado di meticciamento, che misura
la durata dei rapporti forzati fra gli autoctoni e gli ultimi arrivati si
finisce per supplire ai dati storici assenti" (Lefevre 1892, p. 69).
Quella che spesso si e' chiamata "storia" nelle monografie o nei manuali
dell'epoca coloniale si riduce in effetti a una serie di ipotesi
dell'etnologia "diffusionista". La teoria delle "aeree culturali",
sviluppata all'inizio del XX secolo da autori tedeschi come Ankermann (1905,
pp. 54-84) e quasi ufficializzata dalle riedizioni incessanti del manuale di
Baumann e Westemann su I popoli e le civilizzazioni dell'Africa, e' di fatto
una teoria degli "strati culturali". Le variazioni sono lette in termini
biologici di meticciati differenziati: le espressioni "hamito-nilotico",
"negroide", "bantu hamitizzato" spesso eserciteranno il ruolo di spiegazione
dell'Africa orientale.
La maggior parte della civilizzazione viene quindi attribuita a un'influenza
straniera, in particolare asiatica conformemente al miraggio orientale che
si ritrovava in quest'epoca nello sviluppo del mito ariano. Il naturalista
Franz Stuhlman, uno degli esperti piu' ascoltati in seno all'amministrazione
tedesca prima del 1914, in una monografia del 1910, in relazione
all'artigianato in Africa dell'Est, scrisse: "A proposito di ogni tratto di
civilizzazione in Africa, bisognera' sempre domandarsi se questo non venga
dall'esterno e cioe' dall'Asia" (Stuhlmann 1910, p. 77).
E' proprio in virtu' di questa visione, considerata scientifica, che gli
autori proporranno di vedere nei galla i discendenti di una scorreria dei
Galli, nei fang un'ondata tedesca, nei peul dei giudeo-siriani
dell'antichita', nelle rovine dello Zimbabwe una costruzione fenicia o negli
zulu dei discendenti di Sumer. Chi puo' giurare che queste elucubrazioni
siano oggi del tutte sparite? Nel maggio del 1970 l'autore di un "racconto
etnologico" sul Ruanda "tradizionale" affermava che il suo soggiorno in
questo paese gli aveva permesso di "essere contemporaneo dei grandi
intellettuali di Sumer" e di scoprire una regalita' meravigliosa le cui
capitali "ricordano i campi mongoli del Medioevo" (Del Perugia 1970)! Sono
quindi del tutto evidenti le implicazioni razziste dell'immaginario
letterario e scientifico riguardo ai popoli dell'Africa nera. L'opposizione
del "negro in quanto tale" e dell'"hamita" divenne il motivo ricorrente dei
manuali specializzati tra gli anni Trenta e i Cinquanta. Quello di Charles
Seligaman - ripubblicato molte volte e tradotto in francese dal 1935 -, ne
e' l'esemplificazione piu' nota: "le civilizzazioni dell'Africa sono le
civilizzazioni degli hamiti (...) i conquistatori camiti erano dei
caucasoidi pastori arrivati a ondate successive, meglio armati e dallo
spirito piu' vivo di quello degli agricoltori negri dalla pelle piu' scura"
(Seligman 1930).
Nel 1948 un medico belga pubblico' un piccolo libro redatto al ritorno da un
soggiorno effettuato in "Ruanda-Urundi" sotto la tutela belga (Sasserath
1948), nel quale si puo' trovare un siffatto ritratto dei batutsi: "Li si
chiama batutsi. In realta' sono degli hamiti, probabilmente di origine
semitica o, seguendo talune ipotesi, hamiti o meglio adamiti. Rappresentano
circa un decimo della popolazione e formano nella realta' una razza di
signori" (pp. 27-28). "Gli hamiti sono alti 1,90 metri. Sono slanciati.
Possiedono un naso diritto, la fronte alta e le labbra sottili. Si intravede
in loro una sorta di furbizia, celata da una certa raffinatezza. Le donne
giovani sono davvero molto belle e di una tinta talvolta leggermente piu'
chiara di quella degli uomini".
Si trattava, secondo Sasserath, di discendenti di una misteriosa "razza
rossa", quella di Adamo in persona e delle prime civilizzazioni (!), secondo
un libro esoterico del 1906 sugli "adamiti": la formazione medica non
vaccina sempre contro la fantasia sul terreno delle scienze umane...
La letteratura religiosa cristiana, da parte sua, ha continuato a giocare un
ruolo essenziale in questo dibattito antropologico, non solo a causa della
presenza sul posto dei missionari, ma anche perche' i detentori del racconto
biblico sulla dispersione dei popoli si sentivano obbligati a rispondere
alle sfide della "scienza". Questo sforzo apparira' per esempio nei diversi
manuali pubblicati dopo il 1880 dal sulpiziano Vigouroux fino al suo
Dizionario della Bibbia del 1926.
L'episodio della Torre di Babele ha preso il posto di quello della
maledizione di Cam come episodio saliente. E' allora che i chamiti, puniti
per questo atto di orgoglio, saranno respinti verso le terre piu' lontane e
le piu' bruciate dal sole. L'opposizione fra "hamiti" e "negri" viene in
questo quadro spiegata in due maniere: i primi sarebbero i sopravvissuti
dell'ondata piu' recente di questi esiliati; o i frutti del meticciato tra i
figli di Cam e di Sem, vale a dire "hamiti semitizzati". E' questa la teoria
sostenuta per i bahima e i batutsi della regione dei Grandi Laghi da due
Padri Bianchi, l'olandese Van Der Burgt nel 1903 e il francese Gorju nel
1920, riconosciuti come due autentiche autorita' in materia.
In questo modo il monogenismo biblico venne salvaguardato e la diversita'
delle "razze" riconosciuta. Altrove la lezione morale della "maledizione di
Cam" fu invece recuperata in maniera edificante per le societa'
industrializzate e urbane contemporanee: creatori dei primi imperi, delle
prime citta' e delle prime civilizzazioni, i "camiti" sarebbero stati
pervertiti dagli eccessi del progresso. Questi neri portatori delle tracce
della loro origine orientale divennero come i simboli del degrado piuttosto
che della primitivita'. Nel suo Dizionario del 1926 padre Vigouroux
sosteneva che "e' soprattutto la forza al servizio di una civilizzazione
tutta materiale, in seno alla quale regna il piu' grande disordine morale".
Una visione penitenziale della storia, caratteristica del cattolicesimo del
XIX secolo, che si connetteva senz'altro al pessimismo gobineiano nella sua
teoria delle "razze".
Si dira' che risaliamo sino al Diluvio; ma l'applicazione di questa griglia
di lettura dell'Africa orientale puo' essere seguita di autore in autore a
partire dal 1863 e fino ai nostri giorni: sono le bibliografie di questi
ultimi che di fatto ci hanno condotto a questo metodo regressivo. E'
impossibile riassumere in questa sede il gioco di filiazione intellettuale
che ha portato allo schema etnico evocato all'inizio di quest'intervento.
Non c'e' dubbio che gli assi essenziali della costruzione ideologica alla
base della situazione propria del Ruanda e del Burundi dovevano essere
sottolineati.
L'ideologia hamitica si tradusse in questa regione attraverso l'ipotesi di
una migrazione galla del XVII secolo. Nel 1863 l'esploratore Speke avanzo'
questa idea, ripresa poi incessantemente sino agli anni Cinquanta. Ritornato
dall'India in Africa per scoprire le "sorgenti del Nilo", questo inglese
apprezzo' molto l'ospitalita' dei sovrani che lo accolsero nella zona dei
Grandi Laghi (a Karagwe e a Buganda), l'organizzazione dei loro regni, la
bellezza delle persone della corte, che gli ricordano addirittura i somali
incontrati in una precedente spedizione. Stupefatto di questa raffinatezza
nel cuore del "continente oscuro", diede vita a una "teoria personale" e
cioe' quella di un'ascendenza etiope (galla) dei pastori bahima incontrati
in queste corti regali. Attraverso una tale ipotesi vennero create le
"aristocrazie pastorali" di questi paesi (anche a Buganda, dove non
esistevano in quanto tali) come popoli a parte, quasi asiatici, che
riscossero un successo amplificato nell'immaginario che evoca le sorgenti
del Nilo e le "montagne della luna" dopo Tolomeo di Alessandria (Speke
1864).
I viaggiatori europei successivi a Speke, lettori dei suoi diari e
affascinati dallo stesso romantico immaginario, ripresero il suo schema per
spiegare le realta' socioculturali che li sorpresero in queste regioni. A
questo riguardo sono rivelatori i commentari di Oscar Baumann e del conte
von Goetzen che accompagnarono le prime descrizioni del Burundi o del
Ruanda. Il primo descrive i batutsi come dei "cavalieri briganti" di un
impero scomparso i quali si distinguevano per i "tratti abissini" e "una
pelle piu' chiara di quella degli altri abitanti". Il secondo deduce la
"natura nomade" dei batutsi dalla corte del re guerriero Kigeri Rwabugiri
evocando la teoria di Speke come se si trattasse della tradizione propria
del Ruanda: dei "pastori hamiti" venuti dai paesi "galla" assoggettarono una
"tribu' di negri bantu" e cioe' gli "agricoltori sedentari wahutu" (von
Goetzen 1895). Questa separazione etnico-razziale non era comunque ancora
stata assunta a dogma al punto da oscurare totalmente l'osservazione tant'e'
che von Goetzen dira' che "nel Ruanda propriamente detto capi e assoggettati
si sono gia' pressoche' completamente assimilati nei loro usi e costumi. Non
e' infatti possibile, il piu' delle volte, distinguere il Mhuma (1895) dagli
agricoltori ne' dall'armamentario tanto meno dall'abbigliamento".
*
Da pagina 200
In conclusione, si osservera' che l'analisi storica mette in discussione le
belle certezze abitualmente ripetute. Abbiamo rimarcato la diversita' delle
argomentazioni messe al servizio dell'etnicita' vissuta in questi due paesi:
teorie razziali, politiche che giocavano sia con un certo elitarismo, sia
con la democrazia, legittimazione dei fratricidi per una lotta di classe. A
questo proposito, gia' in altre occasioni abbiamo descritto questi fenomeni
di "safari ideologici". L'elemento permanente si trova nella struttura dello
sguardo posato sulla societa', nella cristallizzazione del viso dell'"altro"
in termini di marginalita', inferiorita' o esclusione. Cio' che di fatto ha
permesso che scoppiassero degli scontri recentemente, piu' che la
difficolta' della coabitazione, e' stato il primato di una pratica politica
in cerca di un capro espiatorio o di un tipo ideale, dalla colonizzazione
alle indipendenze. La trappola di un razzismo interno si e' cosi'
consolidata su tutta la popolazione. In questo caso, laddove i gruppi hutu e
tutsi non sono affatto delle etnie in quanto tali, caratterizzate
geograficamente, linguisticamente e storicamente, lo sviluppo delle
coscienze etniche non poteva che significare la messa in discussione
radicale dell'altro: politica del disprezzo o politiche dell'esclusione,
logiche dell'apartheid fondate esclusivamente su stereotipi razziali. Il
tribalismo in Ruanda e in Burundi ha ispirato, in generale e in maniera
rivelatrice, la descrizione a colori di una sorta di fumetto: "piccoli"
contro "grandi", occupanti alternativamente in ogni campo la posizione dei
buoni o dei cattivi. In questa immagine di Epinal, il buon mututsi sara' di
preferenza un esiliato, dalle tradizioni affascinanti ma condannato dalla
storia, mentre il buon muhutu sara' visto come un lavoratore docile (abbiamo
avuto modo di ricordare altrove l'episodio dell'espulsione di uno studente
muhutu da un collegio protestante del Burundi per il fatto che non aveva
svolto il compito che gli era stato assegnato (Chretien 1976)). Lo specchio
offerto a questi paesi dai media dei paesi industrializzati non e'
indifferente.
Un altro avatar ideologico piu' volte menzionato consiste nel ridurre le
violenze degli anni Sessanta e Settanta in Ruanda e in Burundi nei termini
di un conflitto di classe o meglio di "razzismo di classe". Sfortunatamente
la storia del XX secolo ci dimostra che la deriva razzista non e' ne' un
accessorio ne' una circostanza. Il nazismo rivela delle contraddizioni e dei
fantasmi piu' profondi in seno alla societa' tedesca di una crisi
congiunturale del capitalismo (Aycoberry 1979, p. 317). Quando Alphomse
Toussenel (1886, p. 134) scriveva, nel XIX secolo, che la "feudalita'
industriale si personifica nell'ebreo cosmopolita", la sua teoria si perdeva
nell'antisemitismo. La confusione fra critiche di ordine socioeconomico e la
denuncia delle categorie socioculturali ereditate sta molto di piu' nella
teoria delle "razze storiche" sviluppata da Augustin Thierry nell'Ottocento
che nelle righe di Marx. L'etnografia interlacustre ha piuttosto seguito
proprio Thierry.
La cristallizzazione dei due etnismi antagonisti a partire dalle categorie
antiche di un'altra natura non e' dunque ne' la semplice superstruttura dei
conflitti sociali moderni, ne' la superurgenza di oscurantismi esotici. Dopo
un quarto di secolo le migliaia di vittime degli scontri vissuti in Ruanda e
in Burundi non possono essere ne' classificate come conseguenze di barbarie
passate, ne' come vittime sacrificali per il futuro. Questo si tradurrebbe,
di fatto, nel non voler vedere che in Africa, come in Europa, i valori del
sangue, della terra e della "razza" possono prendere corpo in una luce molto
moderna e nel cuore delle politiche. L'etnicita' si riferisce quantomeno in
questi casi a delle tradizioni locali e non a dei fantasmi applicati
dall'etnografia occidentale sul mondo cosiddetto tradizionale. L'anomia
delle prime generazioni scolarizzate, allontanate dai valori del proprio
passato senza mai essere veramente integrate in quelli delle culture
occidentali (visti anche i limiti dell'insegnamento primario e
post-primario), ha suscitato delle vere e proprie fughe all'indietro,
insieme interessate (le ambizioni aiutano) e alterate impiegando tutti i
mezzi a disposizione e tutte le giustificazioni. Non pensiamo che la
situazione messa in scena da Bertolt Brecht in Teste rotonde e teste aguzze
sia fuori luogo in questa sede e lasciamo quindi il lettore su questa
citazione (1936): "il nostro Iberin sa che il popolo, non molto esperto di
astrazioni, reso impaziente dal bisogno, cerca un reo di tutti i mali che
abbia aspetto familiare: un essere che sia con occhi, naso, bocca e su due
gambe, uno che si possa incontrare per strada. (...) ecco cosa ha scoperto:
qui a Jahoo, convivono due razze che divergono in tutto, anche nell'aspetto,
gli uni hanno la testa tonda, gli altri a punta; e con la testa cambia anche
lo spirito, piattamente onesti e fedeli i testapiatta, puntuti i
testa-a-punta, scaltri, ambigui calcolatori, proclivi all'inganno. La prima
razza, quella a testa tonda Iberin la chiama Ciuk, e afferma che e' indigena
di Jahoo sin dal principio e di buon sangue. L'altra, segnata dalla testa a
punta, e' straniera, calata qui fra noi, non ha una patria ed e' chiamata
Cik".

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LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA
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Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 197 del 4 gennaio 2009

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