La domenica della nonviolenza. 194



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LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 194 del 14 dicembre 2008

In questo numero:
1. Claudio Magris presenta "Liberta'" di Dario Antiseri e Giulio Giorello e
"Verita' relativismo relativita'" di Tito Perlini
2. Rossana Rossanda presenta "Giustizia bendata" di Adriano Prosperi
3. Ralf Dahrendorf presenta "E adesso pover'uomo?" di Hans Fallada
4. Alessandro Portelli presenta "Sangue d'Italia" di Sergio Luzzatto

1. LIBRI. CLAUDIO MAGRIS PRESENTA "LIBERTA'" DI DARIO ANTISERI E GIULIO
GIORELLO E "VERITA' RELATIVISMO RELATIVITA'" DI TITO PERLINI
[Dal "Corriere della sera" del 12 dicembre 2008 col titolo "Relativismo, una
maschera del nulla" e il sommario "Un libro del credente Antiseri e
dell'ateo Giorello. Filosofia e religione non possono rinunciare alla
ricerca della verita': ma in democrazia nessuno puo' vantarsi di possederla.
Oggi l''incultura dell'optional' mette tutto sullo stesso piano, dalla
pornografia alla fede. Verita' relativismo relativita' (Quodlibet, pp. 224,
euro 18) e' il titolo dell'ultimo fascicolo, curato da Tito Perlini,
dell'"Ospite ingrato", rivista del Centro studi Franco Fortini. Il libro di
Dario Antiseri e Giulio Giorello, Liberta'. Un manifesto per credenti e non
credenti (pp. 180, euro 17) e' edito da Bompiani"]

In una delle sue ultime interviste, Horkheimer - fondatore, con Adorno, di
quella Scuola di Francoforte che, col suo marxismo critico e autocritico, e'
tuttora fondamentale per capire la nostra realta' - dice che il mondo finito
e contingente in cui viviamo e' l'unico di cui possiamo parlare, ma non e'
necessariamente l'unico esistente e comunque non basta. Esso e' l'unico
oggetto di una onesta conoscenza razionale, ma la sua finitezza evoca
quell'inattingibile altrove, quell'irriducibile Altro che danno senso al
nostro confronto con esso, con le sue mancanze che chiedono di essere
colmate, con le sue ferite che domandano di essere sanate, con le sue
esigenze di giustizia e di felicita' sempre deluse eppur mai cancellate. Per
la tradizione ebraica, che nutre il pensiero di Horkheimer, il Messia non e'
ancora venuto, ma anche chi ritiene che non verra' non puo' comprendere
veramente la realta' umana senza fare i conti con il senso e con l'esigenza
di quell'attesa, di quella promessa di redenzione. Ogni filosofia che
rinuncia a essere ricerca della verita' e del significato si riduce a un
mero protocollo di un bilancio societario; d'altronde un pensiero che
pretenda di essersi impossessato della verita' come ci si impossessa di un
oggetto o della formula di un esperimento e' una retorica menzognera. Di
Dio, dicono tutti i grandi mistici, non si puo' dire nulla, perche' lo si
degraderebbe a misura umana, bestemmiando la sua assolutezza; si puo' solo
sentirsi avvolti dalla sua oscurita', mentre ci si occupa onestamente delle
singole cose che si possono vedere.
Quelle parole di Horkheimer, alieno da qualsiasi fede positiva, indicano
come la fede, contrariamente a cio' che spesso si dice, non sia un ombrello
che ripara da dubbi e incertezze, bensi' un violento squarcio del consueto
sipario quotidiano che ci protegge con tutte le convinzioni e le convenzioni
passivamente acquisite, uno squarcio che ci espone a venti ignoti. Gesu' o
Buddha non sono venuti a fondare una religione, perche' gia' allora ce
n'erano troppe, bensi' a cambiare la vita, con tutto il rischio e lo
smarrimento che cio' comporta e che Gesu' ha provato nel Getsemani; secondo
le sue parole, solo chi e' disposto a perdere la propria vita la salvera' e
perdere la vita - ossia tutto il suo corredo di convinzioni, abitudini,
valori, legami, buoni sentimenti e comportamenti assennati - significa non
sapere a cosa si va incontro.
Nel suo dialogo con Giulio Giorello - Liberta'. Un manifesto per credenti e
non credenti - Dario Antiseri ha sottolineato come la fede, proprio perche'
afferma di credere in una verita' e non di sapere cosa sia la verita', si
offre al dialogo senza la pretesa di possedere la chiave dell'assoluto.
Inoltre la fede, a differenza di tante ideologie, impedisce di innalzare
falsamente ad assoluto qualsiasi realta' umana, storica, sociale, politica,
morale, religiosa, ecclesiastica; essa e' una difesa contro ogni idolatria e
dunque contro ogni totalitarismo, che si presenta sempre come un (falso)
assoluto, un idolo che esige cieca obbedienza e magari sacrifici di sangue.
Come Giorello, ammiro piu' la preghiera a schiena diritta che quella in
ginocchio, ma inginocchiarsi solo dinanzi all'assolutamente Altro aiuta a
non inginocchiarsi davanti a ogni potere che pretende di essere Dio o il suo
unico autorizzato rappresentante e di parlare a suo nome. I fondamentalismi
di ogni genere - anche e soprattutto quelli religiosi, di ogni religione e
di ogni Chiesa, nessuna esclusa - sono spesso i primi a commettere questo
peccato di blasfema e violenta idolatria.
Il dialogo fra Giorello e Antiseri e' nato anche dalle ripetute condanne del
relativismo pronunciate da Benedetto XVI e dalle polemiche da esse
provocate. Un intenso approfondimento di questa tematica, inteso a sfatare
da posizioni laiche la fallace identificazione del relativismo col
pluralismo e con la liberta', e'' costituito dal volume Verita' relativismo
relativita' (ed. Quodlibet), curato da Tito Perlini, autore
dell'affascinante saggio che lo apre. Interprete e seguace del marxismo
critico della Scuola di Francoforte, sulla quale ha scritto pagine
fondamentali, figura intellettuale di rilievo nella sinistra minoritaria
italiana e aperto a quell'"assolutamente Altro" di cui parlava Horkheimer,
Perlini e' una delle intelligenze che hanno capito piu' a fondo le
trasformazioni epocali degli ultimi decenni. Pago di capire, pronto a
prendere atto con tranquillo disincanto del fallimento di molte sue
aspettative politiche, riluttante ad apparire (non per sdegnosa o schiva
riservatezza, bensi' piuttosto per sana ancorche' esagerata pigrizia),
Perlini e' stato sempre restio a ridurre i suoi acutissimi e torrenziali
saggi, sin dalla sua voluminosa tesi di laurea sul Doktor Faustus, che ben
piu' di mezzo secolo fa sfondo' lo zaino in cui l'aveva messa il suo maestro
Guido Devescovi, l'amico e compagno di classe di Scipio Slataper, per
portarsela a leggere in montagna.
Nel suo saggio, Perlini combatte il rifiuto dell'idea di verita' e della sua
ricerca, che da Nietzsche in poi domina il pensiero occidentale. Benedetto
XVI, condannando il relativismo sul piano etico e teoretico, ne riconosce la
validita' sul piano politico quale fondamento della democrazia, basata sul
presupposto che nessuno possa pretendere di conoscere e tanto meno di
imporre la strada giusta. Certamente piu' democratico di Benedetto XVI,
Perlini e' tuttavia ben piu' radicale nella critica non della democrazia, in
cui crede, bensi' della sua attuale degenerazione: una politica che ha
abdicato a ogni visione del mondo e si e' ridotta a mera gestione - talora a
indebita appropriazione - dell'esistente, declassando la democrazia a
"dittatura dell'opinione pubblica manipolata che legittima ogni forma di
demagogia posta al servizio degli interessi dominanti sul piano economico e
finanziario".
E' un ritratto perfetto dell'Italia di oggi. Alle classi tradizionali e'
subentrato un gelatinoso "ceto medio" che non ha nulla della classica
borghesia e che produce e consuma - scrive Perlini riprendendo
un'osservazione di Goffredo Fofi - una colloidale "cultura media" che
avviluppa come un chewing gum i giornali, l'universita', la televisione,
l'editoria, il dibattito intellettuale, livellando ed equiparando tutti i
valori in una melassa sostanzialmente uniforme e facilmente digeribile, che
smussa ogni reale contraddizione e scarta o disarma ogni elemento capace di
mettere realmente in discussione l'ordine imperante - ogni scandalo e follia
della croce, per citare il Vangelo. Questa medieta' non e' la modesta e
onesta tappa in cui quasi tutti noi mediocri siamo ovviamente costretti a
fermarci nel cammino verso l'alto, ma e' la totalitaria eliminazione di ogni
tensione fra l'alto e il basso, l'ordine e il caos, la vita e la morte, il
senso e il nulla. Il relativismo e' il presupposto di questa (in)cultura
dell'optional, che ammannisce un po' di tutto mettendo tutto insieme sullo
stesso piano e sullo stesso piatto, pornografia e prediche sui valori
familiari, fumisterie esoteriche e pacchiane superstizioni, un etto di
cristianesimo e un assaggio di buddhismo, volgarita' plebea e volgarita'
pseudoaristocratica di spregiatori delle masse graditi a quest'ultime,
Madonne di gesso che piangono e veline che discutono con filosofi,
abbronzature di famosi su belle isole e pii cadaveri dissotterrati e messi
impudicamente in mostra.
Questo relativismo, in cui tutto e' interscambiabile, non ha niente a che
vedere col rispetto laico dei diversi valori altrui accompagnato dal fermo
proposito di contestarli rispettosamente ma duramente in nome dei propri; e'
il trionfo dell'indifferenza, collante di una solidale e inscalfibile
egemonia. Cosi' il relativista, scrive Perlini, e' intollerante verso ogni
ricerca di verita', in cui vede un pericolo per la propria piatta sicurezza,
che egli si convince sia l'esercizio della ragione. L'autentico illuminismo,
fondamento della nostra civilta' inviso ai fondamentalisti clericali e
anticlericali, e' quello espresso da Lessing nella sua famosa parabola dei
tre anelli: nessuno sa quale sia quello vero, perche' l'occhio umano non
puo' distinguerlo, ma si sa che uno e' vero, che c'e' la verita' e che
vivere significa cercarla pur sapendo di non poter mai esser certi di averla
raggiunta. Il relativismo - scrive Perlini - e' uno stimolo salutare
all'interno della ricerca della verita', per impedire che essa si snaturi,
come e' avvenuto e avviene spesso, nell'intollerante dogmatismo. Altrimenti
il relativismo e' l'altra faccia del fondamentalismo sicuro di se', poca
importa se trionfalmente ateistico o trionfalmente bigotto, muro di
supponenza che un io debole e timoroso della vita si costruisce per tenerla
lontana. Finche' c'e' il muro, il timore dei fantasmi e' forte. Ma come dice
la vecchia storia? "La paura bussa alla porta. La fede va ad aprire. Fuori
non c'e' nessuno".

2. LIBRI. ROSSANA ROSSANDA PRESENTA "GIUSTIZIA BENDATA" DI ADRIANO PROSPERI
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 10 dicembre 2008 col titolo "La bilancia
e il velo" e il sommario "Bendata o non bendata? Immagini della giustizia.
Raffigurata come una bella signora che tiene nella sinistra una bilancia e
nella destra una spada, la Giustizia ha a volte gli occhi bene aperti, a
volte nascosti da una benda che le impedisce di vedere. Da qui ha preso le
mosse Adriano Prosperi nel suo ultimo saggio, Giustizia bendata, uscito per
Einaudi, che analizza i mutevoli significati di un concetto centrale per la
nostra societa'"]

Adriano Prosperi e' uno di quei maghi che prende un frammento di storia e,
girandolo fra le mani come un cristallo, ne moltiplica sfaccettature e
riflessi. In Giustizia bendata (Einaudi, 2008) la domanda che ha mosso la
sua curiosita' sembra semplice: perche' la Giustizia, sempre raffigurata
come una bella donna (il codice maschile ci ha considerate inferiori e pero'
ha dato vesti femminili a idee, valori, virtu', arti, eccetera, va a capire)
a volte e' bendata e a volte no? Di regola e' una bella signora che tiene
nella sinistra una bilancia e nella destra una spada, ma sugli occhi puo'
avere una benda o non averla. Proprio lei che deve discernere il torto dalla
ragione!
Prosperi ci inoltra in un labirinto, non senza metterci in guardia da
conclusioni frettolose, incluse quelle di qualche grande iconologo
(Panofsky), che talvolta ignora la vastita' del retroterra culturale e
sociale dal quale a un certo momento sorge un simbolo in figura. E' tutta
un'avventura, occidentale e moderna, quella della benda messa sugli occhi
della Giustizia; e riflette concetti diversi della Giustizia medesima, che
restano parte nel dibattito odierno. E' bellissima e bendata la giustizia
che ha condannato un innocente, con la quale se la prende violentemente
Edgar Lee Masters nell'Antologia di Spoon River. Ma non sempre la benda ha
indicato una giustizia ingiusta. Chi si vanta di vivere tutto sul presente
non sa quanto di noi rivela il passato e quanto poco innocente sia lo
scordarsene.
*
Disobbedienze fatali
La vicenda comincia nel Rinascimento. I greci avevano naturalmente un'idea
della giustizia, grosso modo Dike, e distinta dai concetti del giudicare,
grosso modo Temi. Nessuna delle due aveva la benda e neanche la spada; del
resto giustizie non scritte ma figurate non vengono facilmente in mente. Gli
dei dei greci non sono particolarmente giusti, non l'irascibile Zeus e
neppure Pallade Atena, che spesso e' chiamata a giudicare ma per capriccio
ha fatto impazzire Aiace, diventato una furia. Perche' negli umani piu' che
di malvagita' o colpa si tratta sempre di un oscuramento della ragione, un
errore, "amartia". Quanto a Roma, piu' che di figurazioni mitiche si e'
occupata di dare alla coesistenza fra gli uomini concetti, regole,
procedure, delle quali sappiamo ancora oggi, e che rispuntano nei secoli in
Europa ogni volta che la giustizia e' riportata con i piedi a terra.
Nell'ebraismo, e di la' nel cristianesimo, la giustizia implica una
trascendenza, perche' apparentata con la colpa originaria all'inizio
dell'umanita'. Il primo libro della Bibbia, la Genesi, narra della
disobbedienza fatale di Adamo ed Eva, con conseguente perdita del paradiso,
morte e dolore. La prima spada e' quella dell'arcangelo che ci caccia
all'esterno dell'Eden. Da allora la storia e' un tempestoso dialogo degli
imperfetti e quindi ingiusti uomini con Dio - il solo Dio, il solo nel quale
sono conoscenza e giustizia. Justitia, id est Deus, titola un suo capitolo
Prosperi.
*
Una colpa inseparabile
Dio non puo' essere cieco, quindi a lungo l'occidente cristiano lascia
integra e vedente questa Giustizia, virtu' cardinale. E cosi' la
rappresentano, bella creatura severa, Giotto e i senesi. La benda resta un
attributo della volubile Fortuna, che di virtuoso e divino non ha proprio
niente. E' agli inizi del '400 che appare una prima Giustizia bendata, in un
contesto secolarizzato, una specie di aurora della Riforma, quando gia'
corre il bisogno di un cambiamento della Chiesa. Ma sara' a fine secolo che
nelle illustrazioni della Nave dei folli di Sebastian Brant (1494), giurista
e poeta, una incisione rappresenta la signora con spada e bilancia mentre un
pazzo le annoda una fascia sugli occhi. E' un folle con il copricapo a
sonagli, simile al fool di Shakespeare che spiattella impunemente in faccia
al re acerbe verita', cosa che a un cortigiano normale non sarebbe permessa;
l'ambiguita' della follia, della quale sa molto Erasmo, fa capolino. Da quel
momento - la Nave dei folli e' a suo tempo un bestseller - la giustizia
bendata dilaghera' in quadri, incisioni e statue: specie nel XVI secolo. Ma
cambiando segno per strada. In Brant era sicuramente negativo, impedire che
la Giustizia vedesse era cosa da pazzi.
Ma Lutero e' gia' la' e separera' aspramente da Dio la giustizia del mondo,
in coerenza con il pensiero tragico di Agostino: la colpa e' inseparabile
dagli uomini, siamo inchiodati al peccato originale, saremo salvati o
dannati per grazia, non per le opere. La giustizia degli uomini non tiri Dio
in ballo, sia espressione dell'autorita' in terra cui - e lo impareranno
duramente i contadini di Thomas Muentzer - ci si deve inchinare. In un mondo
segnato incancellabilmente dal peccato, gli uomini sono ex origine soggetti
alla tentazione e cosi' ogni loro istituzione. E a meno di quarant'anni dal
libro di Brant, nella edizione della Costituzione penale di Worms del 1531,
quella benda diventa positiva: con un velo sugli occhi la giustizia si
preclude dal vedere le parti che ad essa ricorrono, il ricco e potente che
le porge una borsa d'oro e il povero niente di niente. Soltanto cosi' potra'
difendere le vedove e gli orfani che si riparano sotto la sua sfolgorante ma
cieca immagine.
Anzi meglio sarebbe che i giudici fossero anche senza mani con le quali
afferrare l'oro. O, se loro ci vedono, e' bene che sia bendato il sovrano,
massima autorita' in terra. Giustizie cieche e paci vedenti si abbracciano
cordialmente. La benda e' diventata garanzia di imparzialita'. Percio' sono
bendate le giustizie fanciulle che spesso sovrastano le fontane sulle
piazze, perche' come l'acqua la giustizia dev'essere un bene comune.
*
Pieta' per colpevole e boia
Da allora restano bendate fino ai nostri giorni alcune statue che si ergono
solennemente davanti ai tribunali. Non sapere chi si giudica sarebbe
garanzia che la legge e' uguale per tutti. Non la pensa cosi' Rawls, ma e'
bendata la piccola Giustizia che la Corte suprema degli Stati Uniti tiene in
mano e contempla meditabonda. E' il colmo della secolarizzazione: non e' una
grande Giustizia che tiene in mano una piccola Corte, ma viceversa.
Non basta. La benda ha una ambiguita' di suo. E' bendato il Giusto per
eccellenza, il Cristo, quando viene flagellato da personaggi feroci e
ghignanti, specie nel nord, ma non sempre: Gruenewald lo benda, qualche
altro no - uno sconcertante Cristo dal viso fermo, le mani sulle ginocchia,
ha alzato la benda sopra gli occhi sulla fronte e guarda lontano (Jorg Breu
il Vecchio a Augsburg). Ma succede anche nelle nostre meno spaventevoli,
perfino assurdamente serene, flagellazioni; l'Angelico lo benda, Piero della
Francesca a Urbino no. Anche nel nord, subito dopo la flagellazione, non ha
piu' benda quando gli viene imposta la corona di spine. Sono due visioni
diverse della tradizione cristiana, ma anche del dipingere; nei nordici a
cavallo fra il XV e il XVI secolo, eccezion fatta per Duerer che ha
l'impronta del sud, le immagini della Passione riproducono i lineamenti
stravolti e i corpi devastati conosciuti nelle rivolte del secolo appena
trascorso.
E poi, quando il figlio di Dio e' bendato, perche' lo e'? Perche' si trova
nella piu' cieca impotenza umana? Perche' non veda chi lo supplizia? O
perche' gli occhi dei tormentatori non incontrino i suoi? Anche ai
condannati alla fucilazione si offriva la benda (gli eroi la rifiutavano) e
"ciechi" erano i soldati del plotone che doveva sparare, ognuno ignorando se
il suo fucile fosse fra quelli caricati a salve o no. La benda non evitava
la pena ma un poco la celava. All'impiccato il cappuccio e' imposto per non
vederne il volto sotto la stretta. E' la pieta' per il colpevole, anche per
il boia che colpevole e' e non e'. Misericordia cristiana. Piu' cattolica
che protestante. Femminile anch'essa, speciale della Vergine che intercede
per il peccatore.
Ancora sulla mutevolezza di significati del vedere e non vedere. I giudici
interrogavano e decidevano in segreto, era pubblico soltanto il supplizio.
In democrazia diventa pubblico il processo e viene allontanata dagli occhi
della folla la pena (l'esecuzione puo' essere vista, come concessione alla
vendetta privata, in alcuni fra gli Stati Uniti). La pubblicita' del
processo e' un cardine della democraticita' come controllo popolare sul
potere. Pero' da qualche tempo in qua la tv tenta di frugare davvicino il
volto dei giudici e quello degli accusati - ne fa spettacolo. Ma fare
spettacolo significa mostrare il vero? O banalizzarlo? O concedere al
voyeurismo, al sadismo? Il giudice che si sa ripreso da una camera parla e
decide come se non lo fosse? Nel dubbio, giudici o imputati possono
rifiutare l'occhio della tv. Alla fine del volume, Prosperi ci mostra una
Lady Giustizia in jeans che impugna un mitra e una daga. Sparita la
bilancia, bendata. Cieca e repressiva.
*
Metri e misure
A proposito, la bilancia sembra della giustizia lo strumento piu' antico e
indiscusso. Stava gia' accanto, segnala Prosperi, alla dea egizia Ma'at e
pesava meriti e demeriti dei morti. Ma che significa pesare se non misurare?
E la misura ha un metro convenzionale. Ma qual e' il metro con il quale si
misura la giustizia? La bilancia serviva allo scambio delle merci. La
giustizia che scambia? Uno stupro vale tot di grano, dicono le prime tavole
di Gortyna; ancora adesso "si paga" con la galera o i soldi. Che hanno in
comune? Nulla, diversamente dal feroce occhio per occhio, dente per dente.
La bilancia della giustizia sottintende un equivalente universale fra dolore
e colpa, colpa e pena. O cielo. Non e' la prima volta - penso a Tribunali
della coscienza e a Dare l'anima - che Adriano Prosperi si affaccia su
questi abissi.

3. LIBRI. RALF DAHRENDORF PRESENTA "E ADESSO POVER'UOMO?" DI HANS FALLADA
[Dal quotidiano "La Repubblica" del 10 dicembre 2008 col titolo "Gente
comune prima dell'abisso" e il sommario "Dove nascono i nazisti. Il celebre
romanzo di Hans Fallada sulle radici della tragedia tedesca. Scritto tra il
1931 e il 1932, E adesso pover'uomo? racconta la genesi del dramma,
cogliendone i segnali premonitori. Fu un bestseller. L'autore scioglie un
enigma intorno a cui s'arrovellano Heinrich Boell e Guenter Grass. Il
segreto e' in quel tratto unificante che identifica 'das Volk'"]

In Germania entrambe le guerre mondiali hanno dato luogo a una notevolissima
attivita' letteraria, i cui esiti - i romanzi in modo particolare - sono
tuttavia diversi come diversi furono i due conflitti. Dopo la seconda guerra
mondiale il tema dominante era: "Come e' potuto accadere?". L'Olocausto era
sempre sullo sfondo dei romanzi di Heinrich Boell, Guenter Grass, Uwe
Johnson, Sigfried Lenz ed altri ancora. I raduni degli scrittori del Gruppo
47 in giro per il paese costituivano una sorta di centro itinerante della
cultura tedesca, dove si incoraggiava uno stile letterario che mettesse
insieme la descrizione dettagliata e l'immaginazione storica. Grass,
probabilmente il maggiore scrittore del gruppo, ha descritto quel momento in
L'incontro di Telgte.
Dopo la prima guerra mondiale la scena era molto piu' confusa. Alcuni dei
protagonisti della fase neoclassica erano ancora attivi, sebbene scossi da
quanto era accaduto. Il contrasto tra la parte pre-bellica e quella
post-bellica della Montagna incantata di Thomas Mann e' alquanto indicativo.
La guerra provoco' idealizzazione estetica a destra (Ernst Juenger) e
indignazione morale a sinistra (Erich Maria Remarque). Ma con la breve e
drammatica vicenda della Repubblica di Weimar (1919-1933) un altro tema
diverra' dominante. Philip Brady, nella sua profonda introduzione a E adesso
pover'uomo? di Hans Fallada, ricorda la Nuova Oggettivita' (Neue
Sachlichkeit), quella forma di neorealismo che regolo' i conti con
l'emotivita' senza limiti dell'Espressionismo tanto nelle arti figurative
che in letteratura, e che era "contrassegnata dalla sobrieta' del gesto, dal
linguaggio contenuto, dal mettere in primo piano il fatto e l'autenticita',
dal culto del reportage".
Hans Fallada (pseudonimo di Rudolf Ditzen) aveva ventisei anni nel 1919,
allorche' l'assemblea costituente di Weimar portava a termine le sue
deliberazioni. Nato in una tipica famiglia borghese tedesca, figlio di un
alto funzionario statale (un magistrato), condivideva con altri
intellettuali dell'epoca una vulnerabile inquietudine che nel suo caso
sarebbe sfociata nella cocaina e nei tentativi di suicidio, nella
delinquenza e in temporanei internamenti, e altresi' in alcuni libri di una
certa importanza, tutti pervasi da una curiosa miscela di motivi. Fallada
ebbe a scrivere di Erich Kaestner: "Consegna ai suoi lettori un segmento del
loro universo quotidiano: preciso, sobrio, senza illusioni. O forse
un'illusione c'e': infanzia, madre, cresima, alberi. E infine un monito: se
stai male, non far stare male pure gli altri. Ognuno deve fare quello che
puo'". Reportage e insieme una cauta speranza di ordine morale, leggermente
romantica: il neorealismo non fu mai solo realismo, ne' per Kaestner, ne'
per Fallada, ne' per Alfred Doeblin, Lion Feuchtwanger, Heinrich Mann.
Questi scrittori non formarono il loro Gruppo 47: bastava loro Berlino, quel
"simbolo degli anni Venti, dello scambio di idee e del dibattito letterario"
(come la descrisse poi Walter Jens). Berlino negli anni Venti possedeva una
"forza magnetica" perche', quantomeno per gli scrittori, esemplificava
quella sfuggente "realta'" da loro ricercata e al contempo promossa, la
Grosstadtromantik ("romanticismo metropolitano") - piu' sentimentalismo che
romanticismo - che ne divenne indispensabile ingrediente. Il ventitreenne
Johannes Pinneberg, fragile eroe di questo bestseller del 1932, inizia la
sua carriera in Pomerania, ma il nucleo della sua vicenda ha luogo a
Berlino, nei grandi magazzini dove, in qualita' di commesso, dal senso di
sicurezza e dal successo iniziali scivolera' nel pantano della crisi
economica, vivra' l'atmosfera di invidia e di "ansia da status" tra colleghi
di lavoro, la disonesta' dei padroncini e l'arbitrio dei grandi padroni. E
finira' daccapo in provincia, a pochi chilometri dalla citta' ma di fatto
senza opportunita' ne' speranze.
Questa pero' e' soltanto meta' della storia, quella triste (o quella
realistica?). L'altra meta' e' Laemmchen, la proletaria che Pinneberg ha la
fortuna di incontrare, e poi il loro bambino, il "piccolo". In qualche modo
Laemmchen rappresenta l'illusione: infanzia, madre, alberi (ma niente
cresima). Lei non si arrende mai. Rimane un mistero da dove prenda la forza
per affrontare la poverta', le tentazioni criminali, la mancanza di
qualsiasi prospettiva. Forse e' proprio la sua visione terra terra di un
mondo alquanto orribile, nel quale piccoli uomini e piccole donne hanno ben
poco in cui sperare, a spingerla verso l'amore, la lealta' e l'onesta'. Alla
fine, quando Pinneberg e' messo male davvero, non solo povero ma anche
umiliato e scoraggiato, Laemmchen e Johannes sprofondano l'uno nelle amorose
braccia dell'altra mentre il piccolo grida felice "pepp-pepp". Nuova
Oggettivita'?
Fallada racconta una bella storia, e la racconta bene. Non sorprende percio'
l'immediato successo nel 1932 e le numerose traduzioni in lingue straniere
fra cui - ma solo in versione ridotta - l'inglese. Il romanzo risulta
avvincente per la combinazione di turbolenze storiche, misere condizioni di
vita e intensi rapporti umani, il che e' gia' una buona ragione per
ripubblicarlo. Ma la ragione principale e' di altro ordine. Intorno
all'enigma del Sonderweg ("eccezionale percorso storico") della Germania si
sono arrovellati non soltanto Boell, Grass e il Gruppo 47, ma anche
un'intera generazione di storici tedeschi attivi dopo il 1945. La soluzione
dell'enigma dipende quantomeno in parte dalla visione che si ha della
Germania prima dell'Olocausto, prima dell'apogeo hitleriano delle Olimpiadi
del 1936, prima della presa del potere da parte dei nazisti nel 1933. E qui
i neorealisti, e Fallada in particolare, hanno parecchie cose da dire.
Johannes Pinneberg e' in larga misura un apolitico, ma certo non voterebbe
mai per i centristi cattolici, ne' sosterrebbe i nazional-liberali di
Stresemann. Quando e' particolarmente arrabbiato con i suoi datori di lavoro
prende in considerazione l'idea di iscriversi al Partito Comunista.
Laemmchen condivide in un primo momento queste tendenze, ma dopo la nascita
del piccolo lascia perdere l'attivismo anche per paura della violenza tanto
diffusa a Berlino durante l'ultima fase di Weimar. Al negozio di
abbigliamento presso cui lavora Pinneberg viene accusato di aver
scribacchiato degli slogan di marca nazista, ivi inclusi attacchi al
principale ebreo, sui muri del gabinetto degli uomini. Intorno a lui si
muovono personaggi di ogni sorta: nazisti e nudisti, socialdemocratici
catacombali e codardi veri e propri. Il suo primo datore di lavoro, in
Pomerania, e' un certo Kleinholz, riluttante a licenziare un impiegato
buonannulla che milita nelle fila naziste, perche' non si sa mai (ricordiamo
che il libro fu scritto tra il 1931 e il 1932, prima dunque del fatidico 30
gennaio 1933: ma i segnali premonitori erano chiari). (...)
Fallada - cosi' come Doeblin e Mann, come Kracauer e Geiger - si sforza di
comprendere gli eventi in termini di classe: nel suo caso ne risulta una
panoramica sociale dai tratti alquanto standardizzati. (...) Ne restano
sostanzialmente esclusi i contadini, i lavoratori autonomi e le altre
categorie che avrebbero complicato l'affresco sociale. Che in ogni caso e'
gia' abbastanza complicato cosi' com'e', perche' da dove esattamente vengono
fuori i nazisti? Non sono proprio come tutti gli altri? Qui occorre
esaminare piu' da vicino il concetto del "pover'uomo" del titolo,
letteralmente il "piccolo uomo", che non e' semplicemente "piccolo" a
paragone dei pezzi grossi. Le parole tedesche kleiner Mann presentano le
sfumature di significato piu' differenti. Si riferiscono anche ai bambini,
ai "piccoli" per antonomasia, e la domanda "e adesso?" del titolo potrebbe
benissimo riguardare la prole dei Pinneberg. Ma nel linguaggio quotidiano,
"piccolo uomo" significa soprattutto la gente comune, l'uomo della strada.
Questo non comprende tutti, ovviamente, ma comprende la grande maggioranza,
e per certi aspetti "siamo tutti piccoli uomini", pover'uomini. Il Leitmotiv
della storia tedesca non e' la classe e il conflitto di classe, bensi' quel
comune denominatore che identifica das Volk, il popolo. Qua e la' il
reportage di Fallada tradisce questo "segreto" della societa' tedesca.

4. LIBRI. ALESSANDRO PORTELLI PRESENTA "SANGUE D'ITALIA" DI SERGIO LUZZATTO
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 7 dicembre 2008 col titolo "La storia
oscurata" e il sommario "Sangue d'Italia, il nuovo libro di Sergio Luzzatto
sul '900. Raccolti per la Manifestolibri gli articoli apparsi sul 'Corriere
della sera' che il docente torinese ha dedicato negli ultimi anni al
fascismo, alla Resistenza e al Sessantotto. Un esempio di passione civile e
rigore nell'utilizzo delle fonti che pone lo studioso al riparo da facili
mitologie e tranquillizzanti retoriche"]

C'e' una vecchia canzone partigiana che dice: "La mia mamma me lo diceva,
non andare sulle montagne mangerai sol polenta e castagne ti verra'
l'acidita'". Questa disincantata relazione fra Resistenza e mal di stomaco
mi e' venuta in mente leggendo uno degli interventi raccolti nel bel libro
di Sergio Luzzatto, Sangue d'Italia. Interventi sulla storia del Novecento
(Manifestolibri, pp. 220, euro 20), dove lui commenta un passo in cui Italo
Calvino ipotizza un racconto sulla Resistenza che "avrebbe descritto il
partigiano come un uomo condannato a non mangiare altro che castagne, dunque
guastato dall'avitaminosi". Certe volte, quello che intellettuali e storici
vedono come un audace esperimento anticonformista contro la retorica della
Resistenza corrisponde a quanto i meno retorici dei partigiani gia' avevano
detto di se' nel dar conto in termini antieroici della propria esperienza.
Certe mitologie sui partigiani tutti buoni e santi e votati al sacrificio
non reggono all'ascolto di fonti interne alla Resistenza, a canzoni come
quella della Brigata Gramsci in Umbria, in cui i partigiani piombano su un
reparto fascista impegnato in un rastrellamento (e piu' numeroso e meglio
armato di loro) "come lupi tanto rapidi e assetati di quel sangue traditor".
*
Ne' santi ne' eroi, solo partigiani
Sono loro, ben prima di Giampaolo Pansa, a riconoscere in se' le
trasformazioni indotte dalla pratica della guerra e dal confronto permanente
con la morte. Solo che poi si pongono anche il problema di elaborare
quell'esperienza, e di cambiare. Uno di quei partigiani: "Tu quando sei
stato otto nove mesi, un anno in montagna, vieni giu', sei 'na mezza
bestiola. Non ci stanno santi. Non sei un omo normale. Io oggi dico: ero 'na
bestia. Tu sei sceso dalla montagna con quell'odio continuo, continua la
guerra, le armi, t'aspettavi sempre la schioppettata alle spalle: allora ti
sei caricato talmente che prima che ti mettessi in linea, non e' stato
facile, non e' stato facile". Riprendo questi ragionamenti sulla memoria
partigiana perche' il rapporto complicato fra esperienza resistenziale,
memoria e retorica e' il centro storiografico ed emozionale del libro in cui
Sergio Luzzatto ha raccolto gli interventi su giornali e riviste in cui,
recensendo e commentando libri e pubblicazioni di storia di ogni
provenienza, finisce per comporre un controcanto critico a tutta la storia
italiana del Novecento, dalla prima guerra mondiale alla contemporaneita',
dove l'occasionalita' degli interventi si stempera nella profonda coerenza
dell'approccio e del metodo. Sono due gli elementi di forza del discorso di
Luzzatto: la rivendicazione, contro ideologismi e strumentalita', della
professione dello storico; e la posizione generazionale che gli permette,
una volta data per assodata e condivisa la valenza politica e morale
dell'antifascismo e della Resistenza, diventa anche possibile prendere le
distanze da miti e retorica e cercare di ragionare sulle fonti e, per quanto
possibile, sui fatti. In un certo senso, possiamo dire che Luzzatto sottrae
ai revisionisti l'arma della dissacrazione. Come dice il partigiano ternano,
ma in un altro senso, "non ci stanno santi"; ma spogliando laicamente la
nostra storia dai miti, ne resta quel nucleo essenziale di moralita' che
anima i Fenoglio, i Meneghello, certo Calvino, che sono per Luzzatto gli
interlocutori e testimoni piu' frequentati.
*
Gli indifendibili
In altre parole: si puo' e si deve essere critici nel rapporto con la
Resistenza e l'antifascismo senza per questo unirsi al coro stonato dei
detrattori. Non a caso, le pagine piu' polemicamente coinvolgenti e anche
divertenti sono proprio quelle in cui Luzzatto fa i conti con l'uso pubblico
reazionario della storia: gli indifendibili libri di Vespa, quelli di Pansa
(che lui giudica anche peggiori), il "caso" Pierangelo Buttafuoco, le
menzogne autobiografiche di Giorgio Albertazzi, o l'intervento conclusivo
sul pot-pourri astorico e ideologico di Ernesto Galli della Loggia (sulle
pagine del "suo" "Corriere della sera"!). Peccato solo che alcuni di questi
interventi, piu' articolati e quindi piu' lunghi della misura di una
recensione da quotidiano, siano apparsi su riviste importanti ma certo meno
diffuse del "Corriere della sera" che ospita la maggior parte degli altri
articoli. La Resistenza e' il centro problematico e polemico del libro
perche' e' oggi il tema politicamente caldo nell'uso pubblico della storia;
ma il percorso di Luzzatto e' piu' ampio, e copre tutto il cosiddetto secolo
breve, con il medesimo approccio. Cosi', per esempio, proprio prendendo sul
serio la modernita' del fascismo e smontando l'idea che fosse solo burletta
rende ancora piu' tagliente il giudizio politico e morale su un regime non
solo violento e repressivo ma anche eticamente corruttore (esemplari le
pagine sull'Ovra). Ed e' molto importante il fatto che - mentre sempre piu'
la "memoria" sembra identificarsi solo con l'epoca della seconda guerra
mondiale, la Shoa, la Resistenza - Luzzatto porta avanti la discussione fino
al presente, fra l'altro con gustose e utili escursioni nel campo della
cultura di massa, dal libro di Anna Bravo sul fotoromanzo a quello di Gianni
Brera sul calcio all'italiana. Magari, avvicinandosi al presente, la
distanza generazionale si attenua e traspira a volte, per esempio nei toni
degli interventi sul Pci, l'ideologia (sempre peraltro filtrata attraverso
la severita' dell'approccio storiografico). E certe volte il flip side della
professionalita' storiografica classica paga pegno all'autoriflessivita'
delle fonti, che in fondo parlano sempre soprattutto di quelli che le hanno
prodotte. Il comunismo e i comunisti in Italia erano forse una cosa piu'
vasta e quindi piu' sfuggente di quanto non lascino intravedere le fonti
archivistiche e i carteggi dei dirigenti; e lo stesso vale in generale per i
grandi movimenti. A proposito del '68, per esempio, Luzzatto legge con
intelligenza il libro fotografico di Uliano Lucas intitolato appunto
Sessantotto, non tanto come una peraltro impossibile descrizione del '68
"com'e' veramente stato" quanto come una rappresentazione del '68 che molti
militanti, scrittori, fotografi, artisti proiettavano o cercavano di
formare. Ma non si lascia sfuggire che i ritratti di Stalin, Mao e Che
Guevara portati in corteo "testimoniano fin troppo quanto gli uomini e le
donne del Sessantotto subissero il fascino della violenza levatrice di
storia". Giusto. Erano tempi cosi', e capiamo meglio quei ritratti se
ampliamo il contesto dei tempi. La violenza levatrice della storia gli stava
tutto intorno, praticata da governi liberal-democratici (a proposito: quanti
miti e bugie su John Kennedy!) dalla Baia dei Porci a Santo Domingo al
Vietnam, dagli assassinii di Lumumba, dei Kennedy, di Malcolm X, di Martin
Luther King all'occupazione militare della Palestina - fino all'evento che
segna davvero la svolta del '68: la bomba a piazza Fontana e la strage di
stato. Davanti a esempi simili, in un contesto del genere - e senza voler
santificare niente e nessuno - era difficile credere di poter fare
altrimenti. Il miracolo (o, piu' laicamente, il problema storiografico e
morale) e' come mai nel movimento ci fossero ancora, e lasciando anch'essi
tracce profonde, quelli che sentivano diversamente (forse non tanto in
termini di nonviolenza alla Capitini, che pure c'erano, quanto pensando alla
violenza come l'extrema ratio quando tutto il resto falliva. In fondo,
persino le Pantere Nere si definivano "per l'autodifesa"). Di questo, forse,
le fonti archivistiche e le autorappresentazioni pubbliche del movimento
rendono poco conto.
*
Il rifiuto delle menzogne
Mi accorgo di avere usato continuamente, in questo articolo, la parola
"morale". Questo e' perche' la moralita' e' infine centrale, come tema e
come modalita', all'intero discorso di Luzzatto, non a caso in continuo
dialogo con il libro di Pavone sulla "morale nella Resistenza". Uno potrebbe
pensare che c'e' una contraddizione fra la neutralita' della
professionalita' e la scelta di campo della moralita'. In realta' non e'
cosi': per Luzzatto, la professionalita' storiografica e' in primo luogo una
scelta morale, un rifiuto delle falsificazione, delle manipolazioni, delle
menzogne "da qualunque parte provengano". Non c'e' una storia di destra e
una di sinistra, ribadisce Luzzatto: c'e' una storia fatta con gli strumenti
della ricerca e una fatta con il dilettantismo degli ideologi
massemediatici. Se poi, almeno oggi, la cattiva storia e' praticata
soprattutto dal campo revisionistico di destra, non e' certo colpa nostra,
ne' sua.
*
Postilla biobibliografica. Dalla Rivoluzione francese ai "miracoli" di Padre
Pio
Sergio Luzzatto insegna storia all'Universita' di Torino. Studioso della
rivoluzione francese si e' occupato spesso della storia italiana
contemporanea, con particolare attenzione al fascismo e alla Resistenza. tra
le sue opere, vanno ricordate: La Marsigliese stonata: la sinistra francese
e il problema storico della guerra giusta, 1848-1948 (Dedalo), L'autunno
della Rivoluzione. Lotta e cultura politica nella Francia del termidoro
(Einaudi), Il mondo capovolto: scene della Rivoluzione francese (Einaudi
Ragazzi), Il corpo del duce. Un cadavere tra immaginazione, storia e memoria
(Einaudi), Il Terrore ricordato. Memoria e tradizione dell'esperienza
rivoluzionaria (Einaudi), L'immagine del duce. Mussolini nelle fotografie
dell'Istituto Luce (Editori Riuniti), con Victoria de Grazia, Dizionario del
fascismo (vol. II, L-Z, Einaudi), Ombre rosse. Il romanzo della Rivoluzione
francese nell'Ottocento (Il Mulino), La crisi dell'antifascismo (Einaudi),
Padre Pio. Miracoli e politica nell'Italia del Novecento (Einaudi).

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LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 194 del 14 dicembre 2008

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