La domenica della nonviolenza. 193



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LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 193 del 7 dicembre 2008

In questo numero:
1. Francesco Adinolfi ricorda Odetta Holmes
2. Flaviano De Luca ricorda Henri Salvador
3. Marco Deriu e Stefano Sarfati Nahmad ricordano Andre' Gorz
4. Marco Dotti ricorda Hugo Claus
5. Luigi Onori ricorda Chet Baker
6. Fernanda Pivano ricorda David Foster Wallace
7. Rossana Rossanda ricorda Giuseppe Barbaglio
8. Mohammed al Kurd
9. Marco Dinoi
10. John Michael Hayes
11. Edolo Masci
12. John "Mitch" Mitchell
13. Agostino Racalbuto

1. MEMORIA. FRANCESCO ADINOLFI RICORDA ODETTA HOLMES
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 4 dicembre 2008 col titolo "Addio, nostra
regina del folk"]

Se ne e' andata a 77 anni Odetta Holmes, signora della canzone popolare Usa,
la vocalist che faceva piangere Dylan e che Martin Luther King aveva
definito "la regina del folk Usa". Odetta e' morta l'altro ieri al Lenox
Hill Hospital di Manhattan dove era stata ricoverata tre settimane fa per
un'insufficienza renale. Odetta ha incarnato il folk, e' l'artista a cui
Janis Joplin guardava per ispirarsi, e' la voce cristallina per eccellenza;
e' la dizione che mai inganna, e non a caso le sue canzoni venivano spesso
cantilenate ai bimbi Usa. Ma soprattutto Odetta e' stata la voce che si fa
interprete dell'emozione, dello stato d'animo di cui sta raccontando. Con un
disco di Odetta e' possibile chiudere gli occhi e sentirsi trascinati nel
contesto narrato in quell'istante, tra blues e gospel, fuochi di
accampamenti, portici di ghetti neri che brulicano di voci e inquieta
quotidianita'.
Resta famoso quel commento del "Time" che nel '60 raccontava come l'artista
tentasse di riprodurre con estrema meticolosita' gli umori del suo folk: ad
esempio le emozioni di un condannato in Take this Hammer o la prostrazione
di un'amante delusa in Lass from the Low Country. Leggenda vuole che per
certi pezzi Odetta addirittura si caricasse non solo spiritualmente ma anche
materialmente; magari imbracciando uno strumento di lavoro se mai avesse
dovuto cantare una storia di lavori forzati. Forse per questo Martin Luther
King la volle con se' il 28 agosto del '63, il giorno della marcia su
Washington; il giorno in cui il reverendo pronuncio' il suo discorso "I have
a Dream" e lei intono' O Freedom, brano cardine nella storia del movimento
dei diritti civili (negli Usa e nel mondo), e il pezzo che piu' l'ha resa
famosa. Anche Rosa Parks adorava Odetta; la grande attivista nera - passata
alla storia nel '55 per essersi rifiutata di cedere il posto a un passeggero
bianco in un autobus di Montgomery, Alabama - dichiarera': "Le canzoni che
piu' hanno significato qualcosa per me sono quelle che canta Odetta".
A sei anni la cantante si era trasferita con la madre dall'Alabama a Los
Angeles; alla morte del padre, avvenuta quando era ancora piccolissima,
Odetta prendera' il cognome del padrino, Felious. A Los Angeles frequenta il
City College, studia musica classica e nel '44 esordisce nel musical
divenendo una componente dell'Hollywood Turnabout Puppet Theatre.
Dell'ensemble fa parte anche Elsa Lanchester, storica attrice de La moglie
di Frankenstein. Nel '49 entra invece a far parte degli interpreti del
musical Finian's Rainbow.
In quei giorni si incontra con un gruppo di folkster di San Francisco e la
sua vita cambia. Al punto che anche la partecipazione a film di rilievo come
Il grande peccato (1961) resteranno episodi isolati. Lei stessa dichiarera':
"Momenti passeggeri come musical, cinema e classica non hanno avuto nulla a
che fare con la mia vita". Non sorprende: il futuro per Odetta era altrove,
nel blues, nel jazz, nel folk afro-americano e nella tradizione
anglo-americana. E' a questo mondo che anche Dylan guarda quando ascolta
Odetta Sings Ballads and Blues (1956), disco storico della cantante, il suo
vero debutto anche se in precedenza c'era stato un altro titolo. All'interno
dell'album perle come Mule Skinner, Jack of Diamonds e Water Boy. Per Dylan
e' una folgorazione e il primo bagno di folk. Lo dichiarera' candidamente in
un'intervista a "Playboy" nel '78 aggiungendo che "nella sua musica c'e'
qualcosa di vitale e personale; quando sentii quel disco scambiai la mia
chitarra elettrica e il mio amplificatore con una chitarra acustica". Nel
1963 arrivera' la nomina ai Grammy per il disco Odetta Sings Folk Songs. In
tempi recenti altre due nomination: Blues Everywhere I Go (1990) e nel 2005
per l'album Gonna Let It Shine.
Nel 1999 tocca alla prestigiosa medaglia per le arti, alla cui consegna Bill
Clinton, a quel tempo presidente degli Stati Uniti, dichiarera': "La
carriera di Odetta mostra come le canzoni possano cambiare i cuori e il
mondo". Vero solo a meta', di certo senza molte canzoni di Odetta, tante
marce e lotte per diritti ed eguaglianza sarebbero state molto piu' noiose.
A quasi 80 anni, Odetta continuava a esibirsi, nonostante la cattiva salute
l'avesse confinata su una sedia a rotelle.
In realta' sul palco voleva starci a tutti i costi e negli ultimi due anni
si era esibita in 60 concerti e mai per meno di 90 minuti a sera. La voce
usciva come per incanto, pulita e asciutta; come quella di Ella Fitzgerald,
sua grande amica, a cui nel '98 aveva dedicato il live To Ella. Fondamentale
anche il suo ruolo nel jazz immortalato in dischi come Odetta (1967) e in
seguito confermato dalla condivisione del palco con vocalist come Madeleine
Peyroux.
Ma e' il suono profondo del folk e del blues che l'ha resa immortale, che
oltre ai nomi citati ha ispirato una sequela di artisti: da Harry Belafonte
a Joan Baez, da Tracy Chapman ai folkster anni Sessanta di mezza Europa,
Italia inclusa. Nonostante lei stessa rifuggisse sempre da quell'ondata di
onori e tributi, e preferisse parlare solo con le canzoni. "Non sono una
vera folksinger - dichiaro' in un'intervista del 1983 al "Washington
Post" -. Non mi importa se le persone mi definiscono in quel modo; io sono
piuttosto una storica della musica, una ragazza di citta' che ha apprezzato
una certa cosa e ci si e' tuffata. Sono stata fortunata. Con il folk ho
potuto insegnare, predicare e propagandare". Parola di Odetta.

2. MEMORIA. FLAVIANO DE LUCA RICORDA HENRI SALVADOR
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 14 febbraio 2008 col titolo "Addio a
Henri Salvador, voce di miele col sorriso" e il sommario "Artista poliedrico
e fantasioso, il cantante francese (ma nato nel 1917 a Cayenne, nella
Guayana) e' morto a Parigi. Era stato anche attore, pugile, stella della
televisione italiana nel 1961 con le Kessler"]

Un altro supernonno se n'e' andato. Un aneurisma si e' portato via Henri
Salvador, originario della Guayana francese, prototipo di chansonnier
allegro e seducente, 90 anni compiuti lo scorso luglio. Un suo grandissimo
successo, datato 1951, e' Una chanson douce (Une chanson douce/ Que me
chantait ma Maman/ En sucant mon pouce,/ J'ecoutais en m'endormant/ Cette
chanson douce/ Je veux la chanter pour toi,/ Car ta peau est douce/ Comme la
mousse des bois) che merita di essere insegnata nelle scuole di francese di
tutto il mondo, per il testo e l'atmosfera.
Una carriera lunghissima, lusinghiera e ricca di soddisfazioni con
frequentazioni parigine (la citta' dove si era trasferito a dodici anni) che
andavano dal chitarrista Django Reinhardt all'ingegnere jazzofilo Boris Vian
fino a un viaggio alle Isole Marchesi con Jacques Brel. E anche un brillante
passato nella tv italiana degli anni '60 (la trasmissione si chiamava
Giardino d'inverno, titolo poi di una sua composizione) dove cantava, faceva
sketch comici e cabaret, uno sfavillante varieta' internazionale dove
c'erano le giovanissime gemelle Kessler, insomma uno showman totale, di
straordinaria presenza scenica, in grado di affascinare il pubblico.
Era stato il primo cantante francese di rock'n'roll nel 1956 con lo
pseudonimo di Henry Cording (con testi scritti da Vian e musiche di Michel
Legrand) ma frequentando grandi orchestre caraibiche, fu anche ispiratore
della bossa nova e grande appassionato di musica brasiliana (tanto da essere
decorato a Brasilia nel 2005 da Gilberto Gil e Lula per il suo contributo
alla diffusione della cultura di quel paese). A meta' anni '70 Salvador
abbandono' il palcoscenico. Sprofondato nello sconforto dopo la scomparsa
della moglie che l'aveva turbato profondamente. Poi due giovani autori,
Keren-Ann Zeidel e Benjamin Biolay un giorno hanno suonato alla porta del
suo appartamento proponendogli delle canzoni e la magia si e' mirabilmente
ricreata. Crooner di sublime leggerezza, la voce di miele (come veniva
soprannominato, titolo di uno dei suoi primi album) non doveva piu'
strabuzzare gli occhi, fare il clown o le imitazioni, suonare
iperbolicamente tutti gli strumenti (come fece in un album degli anni '70
con tanti saluti a Wonder e Winwood) ma nel suo amato ritorno, Chambre avec
vue, del 2000, puo' delineare le sue magnifiche traiettorie astratte, le
sospiranti pause tra una strofa e l'altra, i teneri incanti
dell'improvvisazione scat, i tempi perfetti da ex pugile (e gran giocatore
di petanque).
L'uomo dal completo bianco aveva dato l'addio alle scene solo di recente.
Aveva festeggiato i suoi 90 anni con il pubblico dello Sporting Club di
Monaco, poi il concerto di addio a Parigi, lo scorso 21 dicembre. Pungente e
allegro come sempre, aveva raccolto le ovazioni del Palazzo dei Congressi al
gran completo. L'ultimo album e' del 2006, Reverence, uno scrigno dei
migliori swing dello chansonnier. In Ma chere et tendre (2003) lo
chansonnier romantico si lasciava ritrarre in un'atmosfera marina, tra
spiagge di sabbia e distese blu, quei classici sogni tropicali con
l'andamento caraibico delle percussioni rifatto dalle sue elucubrazioni di
gola (un A-si-chi-boum, A-si-chi-boum che intarsia l'atmosfera leggermente
jazzata e nostalgica di Toi) oppure la carezza delle parole e i rimpianti di
un uomo che affronta l'esistenza ogni giorno "come un bambino che si
meraviglia" ma che ha sempre la speranza d'amore in fondo al cuore (J'ai
tant reve'). Su tutte il ritmo scandito e avvolgente di Ailleurs, un brano
che parla di luoghi dove si trovano le sirene ammaliatrici, di porte
dell'eden e naturalmente Henri si mette a fischiettare, a zigzagare
soffiando e... crede di aver davvero varcato l'ingresso del paradiso.

3. MEMORIA. MARCO DERIU E STEFANO SARFATI NAHMAD RICORDANO ANDRE' GORZ
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 26 luglio 2008 col titolo "Imparare a
vedere le donne"]

Austriaco di famiglia ebraica, direttore di "Les Temps Modernes", la rivista
di Jean-Paul Sartre di cui era il braccio destro, fondatore con Jean Daniel
del "Nouvel Observateur", Andre' Gorz e' stato uno degli uomini importanti
della sinistra pensante francese; qual e' il risultato netto della sua vita?
Dopo averci vissuto vicino per cinquantotto anni, scopre sua moglie.
E' il 2006, ha 83 anni, sua moglie Dorine e' gravemente malata, e' sul punto
di perderla, e sente il bisogno di scriverle una lettera - da poco tradotta
per le edizioni Sellerio: ne ha scritto su "Il manifesto" Rossana Rossanda
nelle sue "Note da lontano" del 26 aprile - che sembra quasi un testamento
politico, dove nomina l'importanza della relazione che lo legava a lei.
In un suo libro giovanile infatti l'aveva presentata come la solita donna
dipendente dal maschio, una donna che si sarebbe distrutta senza di lui.
Mentre ora l'intellettuale francese e' disposto a riconoscere che era
piuttosto vero il contrario, era lui ad avere bisogno di lei, sul piano
professionale e politico non meno che su quello umano.
*
Una dipendenza rimossa
La domanda centrale del libro: "Perche' sei cosi' poco presente in quello
che ho scritto mentre la nostra unione e' stata cio' che vi e' di piu'
importante nella mia vita?", apparentemente una questione privata, viene
invece posta pubblicamente e resa politica, perche' il legame di dipendenza
che Gorz rimuoveva e' la dipendenza che ogni uomo, piu' o meno
consapevolmente, cerca di nascondere. Una dipendenza che viene rimossa
probabilmente perche' porta con se' l'ombra della madre o il riconoscimento
della propria vulnerabilita'.
Dunque c'e' qualcosa di paradigmatico e di esemplare nella storia di questo
vecchio intellettuale francese che sul limitare della sua vita si accorge
del trucco e sente una spinta incontenibile - come mosso da un senso di
giustizia e di verita' - a riconoscere assieme una dipendenza e un debito.
Un debito umano, un debito d'amore, un debito politico. Come ha scritto
Rossanda, con questa lettera Andre' chiedeva perdono a Dorine, e non succede
spesso che un uomo lo faccia.
"La politica si fonda sulla pluralita', nasce nell'infra e si afferma come
relazione", diceva Hannah Arendt. La politica e' il gesto di uscire da se' e
di aprirsi al mondo, riconoscendo che l'altro abita gia' dentro di noi. Cosa
significa, da ultimo, fare politica se non andare oltre l'apparente
discontinuita' degli individui per curarsi della trama che ci lega gli uni
agli altri?
Qui sta il nucleo di quello che possiamo imparare: la politica si fonda
sulla cura sapiente di questi rapporti e al tempo stesso sulla capacita' di
ascoltare e apprendere da questi rapporti. Dunque nessuna buona politica e'
possibile finche' non diveniamo capaci di riconoscere i legami che ci
fondano e che ci tengono in vita.
Voltandosi indietro Gorz riconosceva che l'impegno verso la vita e verso la
politica e' stato sempre il riflesso del suo legame con Dorine. Tutta la
ricerca filosofica e intellettuale, tutta la passione politica, la vita
stessa si sono rese possibili solo grazie alla sua relazione con lei.
Noi ci vediamo anche lo specchio di un'umanita' possibile, di un mondo
finalmente abitabile, per questo pensiamo che la sinistra italiana dovrebbe
compiere lo stesso passo di Gorz.
C'e' anche un altro motivo, che forse e' anche la vera causa del cambiamento
di Gorz, e cioe' che le donne sono cambiate. Il femminismo ha cambiato le
donne, che oggi sono protagoniste nei rapporti personali, nelle famiglie e
nel lavoro. Il mondo non e' piu' lo stesso di prima, stiamo assistendo, dopo
il crollo delle principali ideologie identitarie nel mondo, alla crisi
dell'identita' maschile.
Come nel film Evilenko di qualche anno fa, nel quale un uomo, impazzito per
il crollo dell'Unione Sovietica, diventa un serial killer, cosi' in Italia e
nel mondo, uomini impazziti per la perdita di un simbolico che ci vorrebbe
duri e forti, non sopportando di sentirsi umiliati da una donna, prima la
ammazzano e poi o si ammazzano o si consegnano remissivi alle autorita'.
La cosa strana e' che questa crisi, questa resa totale del sesso maschile,
va di pari passo con un perdurante disprezzo degli uomini verso le donne che
si esprime a destra, con il reiterato tentativo di legiferare sul corpo
della donna, con l'imperante modello velina, con il parlare di prostituzione
come se stessero risolvendo un problema femminile e non piuttosto un
problema legato alla sessualita' maschile.
*
Differenza e parita'
A sinistra invece gli uomini, soprattutto quelli dei partiti e gli
intellettuali, sembrano ignorare le donne: mentre il femminismo parla di
differenza femminile, la sinistra prende per buona la parita', mentre la
gran parte delle donne che lavora svolge un lavoro autonomo di seconda
generazione (si veda il bel saggio di Sergio Bologna Ceti medi senza futuro?
Editore Derive e Approdi), alcuni sindacalisti della sinistra continuano a
vedere solo gli operai.
A guardare bene, piu' che ignorare, sembra che questi uomini fingano di
ignorare perche' l'apporto femminista indebolisce i loro schemi mentali che,
come rileva Carlo Spagnolo su "Il manifesto" del 18 giugno, sono arroccati
in una "difesa identitaria" che e' ferma al "conflitto
comunismo/capitalismo".
Noi pensiamo che sia ormai giunto il tempo per un cambio di civilta' basato
sull'amore per le donne la cui precondizione, come insegna Gorz, e' imparare
a vederle, e' capire il reale valore della loro presenza, e' avere la
capacita' di commisurare a noi stessi, in termini reali, la differenza
femminile, e' saper dare autorita' a una donna non solo nelle relazioni
affettive e quotidiane ma anche nello spazio pubblico.
Poiche' il nostro modo di amare e di far politica sono sempre intimamente e
misteriosamente collegati.

4. MEMORIA. MARCO DOTTI RICORDA HUGO CLAUS
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 21 marzo 2008 col titolo "Inattuale e
votato alla scandalo, se n'e' andato Hugo Claus" e il sommario "Malato da
anni, l'autore di Corrono voci e La sofferenza del Belgio ha fatto ricorso
all'eutanasia. Fra romanzi, raccolte poetiche e testi teatrali, aveva
scritto piu' di cento libri ed era stato tra i fondatori del gruppo Cobra"]

Era nato a Bruges nel 1929, Hugo Claus, ma da Bruges se ne era andato
presto. A quattordici anni, la prima fuga e il primo lavoro come manovale
agricolo, a cui seguirono non meno saltuari impieghi come imbianchino,
stampatore, facchino, artista di strada. Nel 1948, mentre viveva una
personalissima boheme per le strade di Parigi, gli capito' di incrociare la
figura stralunata di Antonin Artaud che divenne per lui l'incarnazione
stessa di una comunita' di perenni esiliati, di uomini e poeti "senza futuro
e senza approdo". Proprio ad Artaud, a Raymond Queneau, e a quei fuoricasta
a cui si sentiva di appartenere, Claus avrebbe dedicato il suo debutto come
poeta, con la plaquette del '48, Registreren: Gedichten. Een bandontwerp van
St. Martens-Leerne. Il ricordo che Claus lascia di Artaud e'
sorprendentemente simile a quello che, poco tempo dopo, Georges Bataille
traccera' in un suo scritto a torto poco frequentato, Le surrealisme au jour
le jour. In lui, Claus non intravedeva il "martire", ma l'ultima
possibilita' concreta di "dare scandalo" in una societa' sovraeccitata dalla
frenesia del progresso post-bellico.
Restio a ogni forma di educazione, in un paese come il Belgio dove
l'educazione era e purtroppo rimane essenzialmente "cattolica", Claus
possedeva la sfrontata intransigenza degli autodidatti di talento: nessun
rispetto per le istituzioni, poca considerazione per il microcosmo culturale
belga e, soprattutto, assoluto disprezzo per la triade "Dio, nazione,
famiglia" che, negli anni neri dell'occupazione del paese, aveva
giustificato ogni sorta di compromesso in nome di un "male minore". Salvo
che, come traspare anche dai pochi romanzi tradotti in Italia (La sofferenza
del Belgio e Corrono voci, entrambi da Feltrinelli), il male minore era
incarnato da Hitler e dai suoi accoliti, in ragione della loro ostilita'
antifrancese. E' difficile parlare di Claus senza ritornare agli anni della
seconda guerra mondiale e alla scelta, di una intera generazione, del
collaborazionismo piu' bieco. Gran parte dell'immensa opera di Claus -
centocinquanta libri, fra poesia, teatro, romanzi e sceneggiature scritti in
nederlandese, oltre a piu' di cento traduzioni - riflettono su questa "colpa
originale" del proprio paese e dell'Europa in genere.
Per questo, Claus ha conosciuto l'ostracismo degli ambienti intellettuali
belgi e l'ostilita' delle istituzioni. Soprattutto nella sua opera teatrale
spesso centrata sulla rilettura di temi della tragedia classica, Claus ha
saputo dare scandalo, ritrovandosi piu' di una notte in prigione a causa
delle severe leggi sulla "tutela del pudore". Autore di libretti d'opera per
Bruno Maderna (Morituri) e Konrad Boehmer, Claus ha lavorato anche al cinema
come regista e sceneggiatore (per Alberto Lattuada), ma e' soprattutto nel
campo dell'arte che ha lasciato un segno. Il suo nome, infatti, figura tra
quelli dei fondatori del movimento Cobra. Da anni irrimediabilmente malato,
Claus ha scelto di andarsene facendo ricorso all'eutanasia, pratica lecita
in Belgio (purche' le condizioni mentali del malato siano qualificabili in
termini di "lucidita'"). "Ci manchera'", ha dichiarato con involontaria
ironia il ministro fiammingo per la cultura Bert Anciaux. "Voglio morire,
come il quarantacinque per cento dei belgi", scriveva Claus in una delle sue
poesie piu' amare. Un po' ovunque gli uomini politici amano fare
dichiarazioni per conto altrui. Quel che di certo sappiamo, e' che Claus
dietro di se' non lascia proclami o commiati, ma tracce, come recita il
titolo di una recente raccolta di sue poesie curata da Franco Paris per
Crocetti. Le stesse tracce di chi forse "non e' stato abbastanza presente",
ma di certo "non si e' mai riconciliato, neppure nella compassione".

5. MEMORIA. LUIGI ONORI RICORDA CHET BAKER
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 23 agosto 2008 col titolo "Venti anni
dopo. Chet Baker, il lirismo della profondita'"]

Nei festival estivi aleggia il nome di Chet Baker, il trombettista americano
che nel Vecchio Continente ha trascorso varie stagioni, tra Italia, Francia
ed Olanda. Chet Mood si chiama un gruppo (Enrico Rava, Philip Catherine,
Riccardo Del Fra, Aldo Romano) molto presente nelle rassegne. Il 17 agosto
Nicola Stilo e Alain Jean-Marie, collaboratori di Baker negli anni '80, si
sono esibiti al festival di Villa Celimontana. L'etichetta Egea ha reso
disponibile in cd un ispirato album del 1979 nato dalla collaborazione fra
Enrico Pieranunzi e Baker, Soft Journey. A quelle registrazioni
parteciparono Maurizio Giammarco, Del Fra e Roberto Gatto: un bel disco che
divento' introvabile a causa delle sfortunate vicende di due etichette
(EdiPan ed Ida).
Perche' il trombettista americano - a sei anni dall'uscita del documentato
testo di James Gavin Chet Baker. La lunga notte di un mito - torna alla
ribalta? Anche se l'anniversario e' stato quasi ignorato da mass-media e
riviste di settore, son passati vent'anni dalla morte di Baker, avvenuta ad
Amsterdam tra il 12 e il 13 maggio 1988 ma trapelata dopo alcuni giorni ("Il
manifesto" ne parlo' il 17). Il nostro giornale scrisse allora che "per il
pubblico italiano la sonorita' struggente e lirica della tromba, il filo
esile e sfilacciato della voce di Baker erano una consuetudine che il
jazzista non faceva diventare abitudine, perche' vivendo istante per istante
non poteva e non sapeva ripetersi". L'unica iniziativa corposa si e' tenuta
il 12 maggio scorso a Teramo, il Chet Baker Day. "I remember you... 20 years
after", con la direzione artistica del flautista Nicola Stilo, stretto
collaboratore del trombettista americano negli anni '80. A Teramo e' stato
proiettato il film di Bruce Weber Let's Get Lost, hanno ricordato l'artista
operatori e critici come Adriano Mazzoletti e Franco Fayenz insieme al
sassofonista Giammarco, al chitarrista Catherine, al pianista Alain
Jean-Marie e al contrabbassista Del Fra. Nel concerto serale, presentato da
Dario Salvatori e basato sul repertorio bakeriano, hanno suonato - oltre a
Stilo, al flauto e alla chitarra, ed ai jazzisti citati - Eric Le Lann,
Elisabeth Kontomanou e Simon Goubert. Dal recital, replicato nel club romano
Alexanderplatz, si spera che scaturisca un album live.
Quali sono, oggi, i motivi che rendono comunque attuale la poetica del
trombettista e che giustificano la riproposizione di brani e di una
filosofia sonora piuttosto unica? In primo luogo Chet Baker visse l'ultimo
decennio soprattutto in Europa perche' qui era considerato un artista, amato
e rispettato, mentre negli Stati Uniti, a causa anche di qualche sfortunata
esibizione e registrazione, gli era stata incollata addosso l'etichetta
esclusiva di tossicodipendente. In secondo luogo Baker ha creato una sorta
di officina musicale autarchica alla quale si e' formata una generazione di
giovani ed entusiasti musicisti europei. Chet reclutava via via i suoi
sideman, era molto aperto ai giovani ed aveva un orecchio infallibile nel
riconoscere il talento. Nei concerti, nelle jam, nelle stanze d'albergo,
durante i lunghi viaggi si e' tenuta la sua scuola sonora che ha motivato ed
introdotto nei segreti del jazz Stilo, Pieranunzi, Del Fra, Giammarco, Larry
Nocella, Roberto Gatto, Jean-Marie, Catherine, Michel Grailler, Jacques
Pelzer, Jean-Louis Rassinfosse, Diane Vavra (brasiliana), Evert Hakkema che
ospito' Baker nella sua casa di Amsterdam. Ovunque andasse, poi, il
trombettista aveva un pubblico devoto, che apprezzava la lirica profondita'
del suo solismo. L'ultimo decennio ha, altresi', regalato incisioni di alto
livello, in gran parte documentate da etichette italiane: Philology (Seven
Faces of Valentine, 1985), Soul Note (Silence, nel Charlie Haden quartet,
1987), Red Records (Chet Baker al Capolinea, 1983), per citarne qualcuna.
"Chet era un vero improvvisatore, non si ripeteva mai (...) La sua grande
inventiva melodica, il rispetto di tutti i musicisti, da Sonny Rollins a
Freddie Hubbard, la illimitata capacita' di suonare ad orecchio ed
improvvisare. E poi la morbidezza e il timbro della voce, non solo quando
cantava, insomma era un grande e gli devo praticamente tutto" dichiaro' nel
'96 Nicola Stilo - oggi vive a Parigi - che si e' sempre mostrato convinto
della tesi dell'incidente piuttosto che del suicidio per la morte di Chet
Baker. Viva resta, nell'animo di molti, la sua straordinaria, gioiosa,
sofferente musica.

6. MEMORIA. FERNANDA PIVANO RICORDA DAVID FOSTER WALLACE
[Dal "Corriere della sera" del 15 settembre 2008 col titolo "Foster Wallace:
addio al mago della giovane prosa" e il sommario "Il ricordo. Il ritratto
intellettuale e la testimonianza umana. Ha cambiato il linguaggio e l'uso
dell'ironia nella narrativa Usa. Pavese, Hemingway e ora David. Quanti amici
infelici"]

Questa non ce la dovevi fare, David. Non dovevi lasciarci cosi'. Con il
cuore lacerato. Ora, siamo tutti un po' piu' soli.
E' come se ci mancasse l'aria. David Foster Wallace ci ha lasciato. Aveva 46
anni ed era diventato un "eroe" amato e apprezzato col romanzo Infinite Jest
(1996). Il suo primo libro e' stato il romanzo The Broom of the System (La
scopa del sistema, Fandango), uscito nel 1987 a 25 anni. In Infinite Jest,
riprendendo spunti linguistici sperimentati nel primo romanzo, David Foster
Wallace ha alternato forsennate lungaggini con scattanti moduli di slang,
riversando nelle pagine le esperienze contenutistiche assorbite dalla
lettura dei romanzi di Thomas Pynchon, William Burroughs e William Gaddis,
suoi maestri piu' o meno segreti, mentre quelli ufficiali si sono affermati
col leader postmoderno John Barth, del quale ha frequentato le lezioni, e
soprattutto con la filosofia del linguaggio di Wittgenstein, del cui
biografo Irving Malcolm e' stato allievo il padre di David Foster Wallace,
James Donald.
Il successo nel 1987 del suo primo romanzo lo ha turbato e lo ha condotto a
sperimentare droghe e alcol; ma Wallace aveva provato a risolvere la crisi
proprio scrivendo Infinite Jest, il cui vero tema e' il rapporto fra droga e
guarigione. Questo libro coraggioso e straordinario ha cambiato la
struttura, il linguaggio e l'uso dell'ironia nella narrativa americana.
L'uso a piene mani dell'ironia e' "lo" Stile degli Anni Novanta, come hanno
dimostrato per esempio Mark Leyner e Chuck Palahniuk, gli scrittori
protagonisti dello scorso decennio. Nel suo stile massimalista, reazione al
minimalismo caro a Raymond Carver, David Foster Wallace si abbandona a frasi
lunghe, complesse, a volte sonore, a volte satiriche, e passa da monologhi
analfabeti dei poverissimi alle spiegazioni tecniche ad esempio di certi
medicinali, con un linguaggio base che e' casuale e complesso, ricco di
slang e anche di erudizione, capace di alternare precisione e imprecisione a
proposito di uno stesso argomento.
Qualche anno fa, in un'intervista intitolata "Il culto del Cool" Wallace ha
detto: "Infinite Jest e' stato immaginato come un libro triste. Non so come
sia per voi e i vostri amici, ma so che la maggior parte degli amici miei e'
molto infelice". Chissa' quanto infelice era lui.
E cosi', io non riesco a dimenticare quanti miei amici sono stati infelici:
Cesare Pavese quel tragico 27 agosto 1950 mi aveva telefonato alle 14,30,
come aveva fatto con altri amici chiedendo di tenergli compagnia. Avevo
dovuto dirgli che non potevo: una telefonata che non riesco a cancellare dai
miei piu' drammatici sensi di colpa. Quella sera aveva inghiottito la sua
polvere assassina; nessuno di noi gliela aveva tolta dalle mani. Ci ha
perdonato, ci ha chiesto perdono. Di che cosa, Pavese? Che cosa le avevo
fatto, che cosa mi aveva fatto, che cosa ci aveva fatto dopo aver aiutato
decine di scrittori a farsi conoscere, con quel suo viso tragico che aveva
dimenticato il sorriso, quella sua vita segreta che non aveva svelato a
nessuno, quella sua infinita conoscenza del mondo che non le e' bastata per
sopportarlo. Ci eravamo ritrovati tutti li' davanti alla sua bara, ciascuno
strangolato da qualcosa che forse lo aveva offeso, che riaffiorava ora nella
memoria, oddio se ci avessi pensato. A troppe cose non abbiamo pensato,
Pavese, grande poeta, grandissimo maestro, intellettuale con tutte le
speranze bruciate, fragile uomo in un mondo troppo brutale. Siamo noi che
dobbiamo chiedere perdono a lei, per sempre.
Ernest Hemingway, pochi giorni prima di spararsi in bocca, mi aveva chiamata
e mi aveva detto: "Non posso piu' bere, non posso piu' mangiare, non posso
piu' andare a caccia, non posso piu' fare l'amore. Non posso piu' scrivere".
La morte di cui Hemingway aveva condensato la tragedia della sua vita e
aveva fatto visualizzare i molti piccoli preavvisi, le impalpabili
previsioni, a chi lo aveva conosciuto; ma il dolore, l'orrore, lo spavento
per il vuoto in cui ci aveva gettato ci aveva colti lo stesso di sorpresa.
Ancora un suicidio, adesso. Un altro amico, dolce, fragile e generoso che se
ne va. Che ci lacera il cuore. Ma questa proprio non ce la dovevi fare,
David Foster Wallace.

7. MEMORIA. ROSSANA ROSSANDA RICORDA GIUSEPPE BARBAGLIO
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 27 marzo 2008 col titolo "I mille volti
di Gesu' nella ricerca ebraica e cristiana. Un convegno a Roma" e il
sommario "Incontri. Per ricordare La riflessione e le opere di Giuseppe
Barbaglio, biblista e studioso dell'Antico e Nuovo Testamento"]

Un anno fa, proprio in questi giorni, si spegneva Giuseppe Barbaglio,
studioso del nuovo e vecchio testamento, grande biblista e una delle voci
piu' ascoltate nei nostri incontri a Montegiove. Si credeva in salvo da una
pesante malattia quando un'insospetta tempesta lo porto' via, troncando un
progetto di lavoro sul quale teologi e amici, credenti e non credenti, si
riuniranno a discutere sabato 29 e domenica 30 presso la Facolta' Valdese di
via Cossa 42 a Roma. Nell'ordine discuteranno per un giorno e mezzo Alfio
Filippi, Yann Redalie', Romano Penna, Stefano Levi della Torre, Jean Noel
Aletti, Gabriella Caramore, Severino Dianich, Ernesto Borghi, Giancarlo
Martini, Antonio Guagliumi, Carla Busato, Rossana Rossanda, Mario Tronti, e
concluderanno Raniero La Valle e Claude Geffre'. Tema: "I mille volti di
Gesu'".
E' il titolo che Barbaglio aveva dato alla messe di appunti bibliografici
lasciati sul computer. Suscita molte domande, prima di tutte: in che senso
Barbaglio - che aveva portato a fondo una ricerca puntuale (e ricevuta con
scarso entusiasmo oltretevere) su quello che aveva chiamato l'"Ebreo di
Galilea", quell'uomo, quello specifico "individuo" - si proponeva
un'indagine sui suoi "mille volti"? Pensava che fossero di molteplice
significato e intrepretazione i gesti e le parole raccolte nei vangeli
sinottici, negli atti degli apostoli, nei testi discussi ma non ammessi nel
canone, che aveva valutato con l'acribia dello storico, saggiandoli in quel
ribollente tempo di attesa del messia? Tempo in cui molti uomini lasciavano
casa e figli per andare cercando e predicando e guarendo, profeti come quel
Giovanni Battista che tormentava la coscienza dei potenti, o guarendo come
fece anche Gesu', o aggregandosi in sette riflessive alla ricerca della
parola? Il suo "Ebreo di Galilea" era uno di loro.
Nessun altro studio, meno che mai quello tranquillo ed edificante pubblicato
un paio di anni dopo da Ratzinger, restituisce a mio avviso l'impatto di
quel destino illuminato e atroce in un secolo in fermento, coagulo di
miserie e speranze d'una trascendenza salvifica. Un Gesu' cosi' diverso dal
giovane biondo e un po' melenso appeso ai muri delle sagrestie della chiesa
devozionale, ma anche dalla compostezza oltremondana dei crocifissi italiani
del rinascimento o dall'orrore dei corpi dislogati e purulenti della pittura
nordica.
Il senso, per Barbaglio, non e' come in Duchamp: il quadro e' di chi lo
legge. I mille volti non sono di quello che per i cristiani e' il figlio di
dio, ma di coloro che in occidente, nei duemila anni seguiti, si sono veduti
in lui, sia nel dilatarsi dell'universo cristiano sia nell'imponenza della
chiesa che vi si costruiva sopra. Teologi, filosofi, esegeti e gente
semplice, che sullo scandalo della Croce hanno rifratto idee, dubbi,
bisogni, speranze, angosce.
Barbaglio ha lasciato una sapientissima bibliografia, ordinata capitolo per
capitolo, senza consegnarci lo schema dei capitoli di quel che aveva in
mente e non ha fatto in tempo a scrivere. I "mille volti" non indicavano,
penso, una sua nuova interpretazione delle parole del Cristo, ma la
complessita' dell'itinerario dei suoi molti esegeti; a cominciare da Paolo,
per anni al centro degli studi di Barbaglio, che delle parole di Cristo
aveva fatto una prima elaborazione per immetterle in una cultura scettica e
avanzata come quella dell'ellenismo. Il "pensare di Paolo" doveva superare
l'ostacolo costituito dal fatto che quel che Gesu' aveva detto come
imminente non si era verificarto. I discepoli si erano attesi la
resurrezione come una gloriosa epifania davanti al mondo ed era invece
apparso brevemente soltanto ad essi lasciandoli isolati nell'ostilita' degli
ebrei. E con questo pareva vanificarsi la promessa resurrezione dei morti -
"se Cristo non e' risorto nessuno risorgera'". Ma la resurrezione era il
cardine della nuova fede.
E cosi' il mancato avvento del Messia, cui Gesu' aveva avvertito di tenersi
pronti. Paolo vi si dibatte nel suo discusso "Cristo e' gia' fra voi, fra
noi": prendeva sulle sue spalle quel che i nostri deboli tempi chiamano "il
silenzio di Dio". Ma come si mette oggi tutto questo in una fede? Come lo ha
messo Barbaglio, sul quale e' calata quella cieca morte che Paolo diceva
vinta: "Morte, dov'e' la tua vittoria?". Noi, non toccati dalla grazia, la
incontriamo soltanto vincente.
Non sapremo, o almeno io non sapro' come, non avendo potuto moltiplicargli
le domande - credevamo di avere molto tempo, tanto ci azzuffavamo un po' per
scherzo perfino via telefono. Io trovavo terribile, fin odioso, a parte il
Genesi, il dio dei primi libri del Vecchio Testamento, vendicativo,
irascibile, crudele. Ma no, faceva Barbaglio con quel suo sorriso allegro,
no, c'e' anche nel Vecchio Testamento un dio amoroso, un filo rosso... Ma
quale filo rosso tempestavo.
Negli ultimi mesi battibeccammo su Ruth, cara ad alcune mie amiche e che io
non amo affatto, ne' mi e' riscattata dalla relazione con Noemi: sono due
che si danno abilmente da fare per assicurare a Ruth un uomo, che cosa ci
trovi? Mi scombussolo' sentirgli dire, piano: "Non capisci, io sono Ruth" -
uno cui molto, e quando tutto credeva perduto, era stato dato. Incrociammo
affettuosamente le spade fino all'orlo della sua morte: mi aveva mandato una
relazione di Geffre' che gli era parsa illuminante, sull'ecumenismo dove il
Vaticano fa un passo indietro dopo l'altro. Chi pregano gli "altri"? Geffre'
non rispondeva, come molti credenti: "E' lo stesso dio quello che ciascuno,
ciascuna prega e intravvede, nelle forme cui la sua cultura lo presenta".
Diceva che in ognuna delle grandi fedi c'e' qualcosa che manca all'altra -
c'e' una mancanza, un manque per cui nessuna e' in se' compiuta. Giuseppe
era preso dagli scenari che apriva il manque - l'assenza come chiave. Una
mancanza nella rivelazione, ma come e' possibile, ma che Dio e'? -
strepitavo io tale e quale un seminarista. "Benedetta donna, ma perche' non
capisci...", sono forse le ultime battute che ci siamo scambiati.
L'incontro di sabato e domenica sara' chiuso appunto da Geffre'.

8. MEMORIA. MOHAMMED AL KURD
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 25 novembre 2008 col titolo "Gerusalemme.
Morto Mohammed al Kurd"]

Gravemente ammalato, Mohammed al Kurd si e' spento nella notte tra sabato e
domenica nel letto d'ospedale dove si trovava da una decina di giorni, da
quando era stato espulso dalla sua abitazione di Sheikh Jarrah (Gerusalemme
Est, la parte araba della Citta' santa occupata da Israele dal 1967) su
ordine della Corte Suprema. I massimi giudici israeliani, al termine di una
battaglia legale, avevano assegnato la sua casa, dove aveva vissuto per
decenni assieme alla sua famiglia, ai coloni israeliani, nonostante le
perplessita' espresse sulla sentenza dagli Stati Uniti e da qualche paese
europeo. La morte di Mohammed al Kurd e' stata accolta con dolore da tutti i
palestinesi di Gerusalemme. Il grave lutto tuttavia non ferma la vedova,
Fawziya al Kurd, che ha gia' annunciato di voler continuare a combattere per
riavere indietro la sua abitazione. Dalla sua parte sono schierati diversi
centri per i diritti umani e un comitato popolare sorto di recente a
Gerusalemme Est.

9. MEMORIA. MARCO DINOI
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 12 settembre 2008 col titolo "Teoria del
cinema. Marco Dinoi, lo sguardo e l'evento"]

Esce in libreria Lo sguardo e l'evento (Le lettere, Firenze) di Marco Dinoi,
il giovane professore di teorie e tecniche dei linguaggi cinematografici e
di metodologia della critica alla Facolta' di Siena, allievo di Maurizio
Grande, scomparso nel gennaio di quest'anno. Uno studio sui media la
memoria, il cinema, dice il sottotitolo del libro, percorso sulla realta' e
la drammaturgia dell'evento, la scena della memoria, i limiti dello sguardo,
le lacune dell'immagine. Un itinerario teorico che permette di orientarsi
dal cinema delle origini percepito come immagine della realta', alla realta'
che sembra un film dei giorni nostri. Come regista Marco Dinoi ha realizzato
cortometraggi e documentari. Nel 2006 compie con alcuni suoi studenti un
lungo viaggio in Palestina e realizza un lavoro sui campi profughi rimasto
incompiuto: Itinerari nel lessico palestinese, presentato in varie citta'
(il 20 settembre sara' alla Cineteca di Bologna). Notizie e interventi su
www.associazionelevel5.wordpress.com

10. MEMORIA. JOHN MICHAEL HAYES
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 25 novembre 2008 col titolo "Lo schermo
in lutto" e il sommario "Addio a John Michael Hayes, sceneggio' quattro film
di Alfred Hitchcock"]

Lo sceneggiatore Usa John Michael Hayes, che ha firmato gli script di alcuni
film di Alfred Hitchcock, e' morto nella sua casa nel New Hampshire,
all'eta' di 89 anni. Attivo a Hollywood soprattutto tra gli anni '50 e '60,
Haynes fu un maestro dei soggetti che univano suspence e amore, tanto da
conquistare due nominations al premio Oscar per La finestra sul cortile
(1954) e I peccati di Peyton Place di Mark Robson ('57). Nato nel 1919 a
Worcester, nel Massachusetts, Hayes ha scritto le sceneggiature di Hitchcock
per La finestra sul cortile, Caccia al ladro ('55), La congiura degli
innocenti ('55) e L'uomo che sapeva troppo (1956). Hayes ha al suo attivo
anche gli script di Bella affettuosa illibata cercasi di Joseph Anthony
(1957), Venere in visone di Daniel Mann ('60) con cui Elizabeth Taylor vinse
l'oscar, L'uomo che non sapeva amare di Edward Dmytryk (1964), Il giardino
di gesso di Ronald Neame (64) e Un duro per la legge di Phil Karlson (1973).

11. MEMORIA. EDOLO MASCI
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 15 novembre 2008 col titolo "E' morto
Edolo Masci. Invento' la gravure diaphane"]

Pittore, disegnatore, litografo, acquerellista e scultore, Edolo Masci e'
morto a Roma all'eta' di settanta anni. Come incisore si era affermato con
una rara tecnica, il cliche'-verre, la cosiddetta "gravure diaphane".
Conquisto' la ribalta internazionale molto giovane, a soli ventun anni, nel
1959, con un quadro provocatorio, "L'Annunciazione" (detta "La Madonna con
le gonne corte"), pubblicato sulla prima pagina del "New York Times", sul
"Figaro" e sui principali quotidiani di tutto il mondo, dalla Germania al
Giappone. Nato il 5 maggio 1938 a Castiglione a Casauria (Pescara) sin dal
1958 e fino al 1968 ha partecipato a tutte le rassegne di arti figurative di
Roma e del Lazio, esponendo piu' volte al Palaexpo di Roma. Nel 1961 il
settimanale americano "Newsweek" parlo' del quadro "L'Inferno", accostando
il suo stile a quello di Mark Tobey.

12. MEMORIA. JOHN "MITCH" MITCHELL
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 14 novembre 2008 col titolo "Addio a
Mitch Mitchell, batterista e hendrixiano superstite"]

Al teatro Brancaccio di Roma, nel maggio 1968, il pubblico picchio' le mani
sulle sedie (di legno) per tenere il tempo e accompagnare il "Jimi Hendrix
Experience", il trio formato dal chitarrista di Seattle, Noel Redding al
basso e John "Mitch" Mitchell alla batteria, in uno di quei concerti
tramandati dalla storia come il passaggio di una nuvola sonora lisergica
sulla capitale. Ieri l'ultimo superstite di quella band (e uno dei piu'
innovativi batteristi del rock, tra l'altro il primo a suonare con lo
strumento amplificato) e' stato trovato morto in una stanza d'albergo di
Portland, un addio simile a quello di Redding (trovato morto nella sua
abitazione a Cork, in Irlanda, nel 2003) e Hendrix (morto a 27 anni, nel
1970, consumato dagli eccessi dell'Fbi o dalla sua acida lungimiranza).
Mitchell era reduce da una tournee-omaggio a Hendrix con Buddy Guy, Johnny
Lang e Billy Cox, il bassista dell'ultima band di Jimi. Era nato nel 1947 e
aveva vent'anni ai tempi dell'Experience.

13. MEMORIA. AGOSTINO RACALBUTO
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 9 marzo 2008 col titolo "Psicoanalisi. A
Venezia per ricordare Agostino Racalbuto"]

Da oggi a Venezia due giornate dedicate al lavoro di Agostino Racalbuto, lo
psicoanalista scomparso prematuramente nel marzo del 2005, quando era, tra
l'altro, direttore della "Rivista di Psicoanalisi". Con i suoi studi
riconsidero' l'isteria permettendo di metterla in relazione con alcuni
percorsi analitici caratterizzati da anestesie emotive, assenza o scarsita'
di sogni, intolleranza dei cambiamenti, mimetismi identitari. Inoltre,
scrisse sul trauma invitando a capire che le differenze tra il trauma
"sessuale", come lo aveva inteso Freud e il trauma "narcisistico", come lo
aveva inteso Ferenczi, "pur essendo evidentemente esistenti e obbligando a
una distinzione fra loro, non sono cosi' antitetiche come e' stato a lungo
proposto". Tra i relatori che si alterneranno a ricordare, con i loro
lavori, il pensiero del collega, ci saranno A. A. Semi, Stefano Bolognini,
Amalia Giuffrida, Francesco Conrotto, Giuseppe Di Chiara.

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LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA
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Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
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Numero 193 del 7 dicembre 2008

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