Voci e volti della nonviolenza. 271



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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino"
Numero 271 del 6 dicembre 2008

In questo numero:
1. Giuseppe Casarrubea: Gomorra e Danilo Dolci
2. Et coetera

1. GIUSEPPE CASARRUBEA: GOMORRA E DANILO DOLCI
[Ringraziamo Giuseppe Casarrubea (per contatti: icasar at tin.it) per questo
intervento]

Capita a molte persone di avvertire il senso della vicinanza, di una
profonda affettivita', il bisogno della protezione. Normalmente, pero', la
familiarita' e l'affinita' elettiva sono qualcosa di raro. Un dono che non
si puo' spacciare con rappresentazioni sostitutive, magari analoghe, ma
artificiose come i surrogati di certi prodotti. Le persone, come i
personaggi su una scena, sono insostituibili mentre svolgono la loro parte.
Per cambiarle bisognerebbe prima di tutto chiudere il sipario. Ma noi
vogliamo mantenerlo aperto perche' le azioni che ci sono appartenute sono
sempre nel loro pieno svolgimento e dimenticare significa smarrire il
proprio orientamento.
Gomorra e' un termine originariamente biblico. E' un sintomo della
degerenazione sociale, di un gruppo criminale che si arricchisce sulle
spalle della collettiva' deprivandola del suo futuro. Un sistema chiuso nel
quale trovano posto varie organizzazioni criminali come la mafia, la
camorra, la 'ndrangheta, la sacra corona unita, gli stellari, la yakuza
giapponese, il coronelismo latinoamericano e via dicendo. Il loro
denominatore comune e' l'arricchimento senza fine. Un pozzo di San Patrizio
infinito. Una voragine aperta sulla superficie terrestre che si ripete
innumerevoli volte fino ad impedire che le comunita' che ne sono interessate
possano svilupparsi serenamente sprofondando al contrario in questi burroni
danteschi. Questa e' la Campania di oggi, la Sicilia che viviamo, nonostante
le vittorie delle forze dell'ordine.
*
Questa era anche la Sicilia di ieri, quando ai primi anni Cinquanta vi
giunse con un treno del mattino e cinquanta lire in tasca Danilo Dolci.
Qualcuno ha voluto vedere in questo straordinario intellettuale di cui il 30
dicembre ricorre l'undicesino anniversario della morte, un predicatore
laico, qualche altro il precursore di Saviano. E allo stesso modo di come
questi narra della barbarie della camorra, si attribuisce allo scrittore e
sociologo triestino (Sesana, Slovenia, a pochi chilometri da Trieste), lo
stesso impegno sociale dimostrato dallo scrittore di Napoli nella lotta
contro la Gomorra campana, paragonandola a quella sorta di "bestiario" che
era la Sicilia negli anni '50.
L'analogia regge con qualche sostanziale variante.
La prima e' che Dolci non fu mai un predicatore, ne' tanto meno un
moralista; non trovo' mai un pulpito da cui predicare e non ebbe una chiesa.
Non fu mai chierichetto di qualche parrocchia. Fu un laico, con un grande
animo religioso. Ma un laico, nemico dichiarato di qualsiasi convinzione
dogmatica. Si rimbocco' le maniche ed entro' subito in scena, con le persone
che voleva cambiare, mettendosi nei loro panni, ma con il suo cervello, con
la sua professionalita' di architetto. Mancato, perche' diceva che voleva
fare l'architetto degli uomini.
La seconda e' che la Sicilia degli anni '50 non e' minimamente paragonabile
alla Campania piu' degradata di oggi. I camorristi esibiscono lo sfarzo del
lusso sfrenato e delle loro ville; ostentano la loro ricchezza, il disprezzo
dell'autorita' costituita. La mafia siciliana degli anni Cinquanta, per
quanto perversa e ostile ai lavoratori e al popolo in genere, vestiva i
panni della stessa borghesia stracciona, anche se ricca. Se si fa eccezione
dei siculo-americani, i mafiosi locali, nel loro attaccamento viscerale al
territorio, soffrivano di una certa insularita' paesana che conferiva loro
l'aria degli interpreti austeri e inesorabili della societa' in cui vivevano
e da cui erano assorbiti. La Sicilia di allora non era disgregata come
invece sono molte citta' meridionali e del Nord alle prese con l'involuzione
del consumismo. Per quanto la mafia regnasse in modo capillare sull'isola, i
suoi abitanti avevano un senso di coesione e di attaccamento a certi valori
che oggi non ci sono piu', come l'uso del dialetto, i legami intrafamiliari,
la crescita dei figli, il ruolo femminile come deposito della memoria e
nucleo forte dell'autoconservazione familiare, lo stare insieme, la cultura
analfabeta che spingeva il mondo contadino ad animare il proprio mondo, a
dargli un'anima inesplorabile, ecc.
Per tutto cio' Dolci e' stato da me vissuto come un'occasione.
*
Personaggio assai trasparente mi riconduce direttamente, per mano, al mio
paese, a Partinico, alla mia famiglia e alla mia infanzia. A quell'aggregato
di persone che tra di loro avevano certamente vincoli di sangue, ma che
costituivano "famiglia" nel senso classico siciliano. Cioe' per il modo di
stare insieme e, prima ancora, perche' questa particolare frequentazione, se
non proprio convivenza estesa a tutti i suoi membri, era ed e' un guscio
protettivo, una specie di caverna o di casa dalla strana architettura dove
si poteva "coabitare", come in una trincea comune contro un nemico esterno,
spesso immaginario, talvolta reale, dislocato in tempi, spazi e modi
definiti.
Gli anni Cinquanta in Sicilia non erano quelli che viviamo. Le questioni si
risolvevano a colpi di pistola o di fucile. Si rientrava a casa e non era
rara la possibilita' che si incontrasse un morto all'imbocco di una strada,
a un quadrivio. I killer si appostavano dietro l'angolo e aspettavano il
loro bersaglio con pazienza. Poi se ne tornavano tranquillamente a casa.
Rispetto alla vittima designata di solito l'atteggiamento sociale era di
condanna. Il perdente aveva sempre torto; si dava per certo che si fosse
macchiato di  qualche colpa; si accettava la "lezione" esemplare. Questa era
la regola conseguente a uno Stato apparentemente assente, o presente e
nemico. Allora le regole sociali e le regole mafiose coincidevano.
La percezione immaginifica del nemico era vissuta sotto un profilo
istintivo, quasi astratto e spingeva a vederlo sempre in agguato, come
succedeva agli indiani nei film western americani che se ne stavano con le
asce sotterrate, o  all'opposto concettuale, come i militi sabotatori venuti
dal nazifascismo che passavano la loro vita "in sonno", veri e propri
"ghiri", pronti a svegliarsi alla prima chiamata, al primo allarme. Per
questo si tendeva a stare insieme. Magari senza vincoli particolari tranne
il volere essere vicini, per non scomparire nel mondo circostante. Si stava
insieme per istinto difensivo. Era un fatto atavico, risalente a epoche
storiche remote.
Quella mia era una famiglia, come tante altre. Fatta di zii e cugini, padri
e madri, una sola nonna. Di vedove soprattutto. Come ai tempi in cui le
epidemie o le carestie mietevano centinaia di vittime e alteravano i vecchi
equilibri demografici, mutando le strutture dei nuclei familiari. Mia nonna
Nenetta era il vertice della piramide, vedova come mia madre.
D'estate ce ne stavamo in crocchio la sera davanti alla porta di casa sua.
Formavamo tutti insieme (mia nonna aveva sette figli tutti sposati) un
grande cerchio che trasbordava il limite del largo marciapiede e costringeva
qualcuno a sedersi magari in mezzo al "cassaro" in basolato. Tanto, macchine
non ne passavano. Raramente di giorno se ne vedeva qualcuna, di quelle che
si mettevano in moto girando la manovella che si doveva applicare davanti al
motore o che quando doveva girare a destra o a sinistra faceva scattare una
bacchetta rossa in uno dei suoi fianchi a seconda della direzione che doveva
prendere la macchina. Zii e zie con qualcuno del vicinato se ne stavano a
chiacchierare ad alta voce, in quella specie di abitudinario raduno
popolare, mentre noi ragazzi, i miei cugini ed io piu' qualche ragazzo che
si aggiungeva dalle strade vicine, giocavamo a nascondino, a "libera tutti",
a "scarica canale", a "mazzi e scanneddi", ai "pisoli", a "strummula", "a
signa" e via dicendo. Quando poi eravamo stanchi ce ne tornavamo alla base,
dalla nonna.
Ma per i vicini del quartiere e per il paese, mia nonna, l'unica che avevo,
era "Donna Nenetta, 'a turnara". "Donna" era il femminile di "don", di
probabile derivazione dal latino "dominus", e per le donne "domina". Cioe'
signora. Da quello che ho capito in seguito il "don" era un titolo
qualificativo che indicava rispetto e un certo status sociale e percio' si
dava ai galantuomini, a gente di riguardo, ai mafiosi soprattutto. Ma
nessuna delle persone che conoscevo nella mia parentela e nelle sue
vicinanze sociali aveva questa virtu'. "Donna" invece aveva un uso molto
vario ed era un termine che dipendeva dalle circostanze in cui si usava e
dalle persone alle quali si riferiva. I suoi significati oscillavano da
"signora", "padrona", secondo il senso latino, a quello di "domestica",
cameriera. Si attribuiva anche alle massaie, alle lavoratrici e a varie
categorie di persone di sesso femminile che esercitavano una qualche
attivita' sociale riconosciuta e condivisa.
*
Mia madre era "donna Graziella". Gestiva un piccolo negozio di generi
alimentari in via La Perna a Partinico, dove ero nato e cresciuto anche con
mio padre per un anno e mezzo, fino all'assalto contro la Camera del
lavoro - da parte della banda Giuliano, si disse -. L'ultima volta che lo
vidi - mi raccontava mia madre - mi teneva in braccio, era di domenica e mi
voleva portare con se' alla sezione del Pci, sede anche del sindacato, dove
da li' a qualche ora sarebbe caduto in un attentato terroristico. Era il 22
giugno 1947. Quell'anno fu di fuoco e di piombo nero per tutta l'Italia con
decine e decine di morti e feriti, Camere del Lavoro e sedi della sinistra
distrutte dalle bombe e dai mitra.
In via La Perna con mia madre abitammo per pochi anni. Ho labili ricordi
quali possono essere quelli di un bambino di circa quattro anni. Non
cresciuto nell'allegria, ma con il "pagliaccetto" nero. L'allegria era stata
interrotta in modo traumatico da un evento tragico, violento e improvviso.
Come un uragano, un fulmine, una guerra lampo. Poche immagini: la luna rossa
sul tetto della casa a un piano dove abitavamo io e mia madre, o nelle
serate senza luna il buio sulle tegole; una fontanella forse in ghisa dove
mia madre mi inviava a riempire la brocca o il secchio; il dirimpettaio di
famiglia "burgisi", don Sasa' che la mattina all'alba tirava fuori carretto
e cavallo e partiva per la campagna; sua moglie che seccava la salsa sullo
"scanaturi" o metteva ad asciugare fichi e pomodori tagliati a meta', nel
"cannizzu"; i primi giochi d'infanzia con le noccioline sugli infiniti
rivoli dei sassi che componevano il selciato della strada in discesa, con la
sua bella "cabaletta" incurvata, al centro. Sentivo allontanare ogni mattina
quel cavallo, dopo il tumulto dei ferri delle sue zampe sul selciato, quando
dolcemente ciascuna pietra cominciava ad essere schiacciata dal cerchio
metallico delle ruote del carretto che finalmente s'avviava, come una
carezza sempre piu' lontana, una ninna nanna, un invito a tornare a dormire,
a fare altri sogni. Le peggiori erano le serate d'inverno quando il vento
infuriato soffiava forte sotto le porte e sembrava volesse aprirle come un
ladro, un fantasma. Ricordo la paura di mia madre tutte le volte che si
rientrava in casa. Cercava dappertutto, anche sotto il letto e dentro gli
armadi. Temeva la presenza di estranei, di malintenzionati. Allora mi
stringeva tra le sue braccia ed io avvertivo il suo respiro caldo e ritmato
sull'orecchio e mi sentivo al sicuro. Era la persona piu' indifesa del
mondo. Me la ricordo sempre vestita a nero e con una tristezza negli occhi
che non l'abbandono' mai.
Eravamo soli in quella famiglia che le sere d'estate si riuniva in crocchio
dalla nonna Nenetta, in corso dei Mille dove lei abitava prima da sola e
poi, qualche anno dopo la vicenda di mio padre, con mia madre e con me. Come
in un'assemblea popolare davanti a quella porta di casa si parlava del piu'
e del meno e ogni tanto si salutavano i passanti che a quell'ora ormai si
ritiravano nelle loro case per chiudere la loro giornata piu' o meno
faticosa. La televisione non c'era ancora, le notizie nel paese arrivavano
con grande ritardo o non arrivavano affatto. Quasi mai raggiungevano tutte
le case.
Erano tempi tristi i primi anni Cinquanta, di fame, di analfabetismo, di
follia. Nel quartiere "Spine Sante", che giustamente Danilo Dolci scegliera'
come il luogo dove avviare le sue battaglie civili contro la disoccupazione
e contro il sottosviluppo, molte famiglie avevano un pazzo in casa. Anche se
le case erano piccole e umide, molte avevano una prigione con grata di ferro
dove si rinchiudeva il pazzo per evitare che andasse in giro a fare danni.
Danilo Dolci fu il primo a documentarne anche fotograficamente l'esistenza,
perche' per noi che abitavamo nel paese era ovvio che si facessero tutte le
cose a cui assistevamo, e percio' tutto quello che vedevamo ogni giorno non
veniva percepito.
*
Fu una di quelle sere in cui il crocchio era al completo che vidi per la
prima volta Danilo Dolci. Passava in modo insolito, dal "cassaro" in
compagnia di alcune ragazze. Si dirigeva verso "porta Alcamo", appena
all'uscita dal paese, dove si incontravano le "montagne russe", una vecchia
casa rossa e un bunker in cemento armato fatto costruire dai fascisti prima
dell'arrivo trionfale degli Alleati in Sicilia. Simbolo per antonomasia
dell'ingresso al corso dei Mille ("u cassaru") era una secolare palma ("u
peri 'i parma") che segnava l'inizio della citta'. Tutta l'estensione urbana
seguiva a maglia una linea immaginaria che andava dritta da questa secolare
palma a un altro monumentale albero che le carte geografiche militari davano
come punto di orientamento nel territorio: "u peri 'i pignu", cioe' un pino
tanto imponente da avere una sua rilevanza nelle mappe militari del XX
secolo. Ma la sua storia va ben oltre se il solitario gigante, grazie a Dio
ancora in vita, non sfuggi' all'occhio attento di Christopher Heinrich
Kniep, l'artista "close friend", che accompagnava Goethe nel suo
straordinario e misterioso viaggio in Sicilia. Lungo quest'asse che corre
dritto da una punta all'altra del paese, Bruno Caruso traccio', in una sua
incisione a colori, un morto che occupava l'intera pianta topografica
dell'abitato.
Ricordo. Era l'estate 1953. Avevo appena sette anni e non so il motivo di
quella inconsueta passeggiata serotina. Non so se in quell'anno o qualche
anno dopo Danilo era andato ad abitare da quelle parti, in corso dei Mille.
So solo che il gruppo procedeva a passo svelto al centro del "cassaro" e che
questo semplice e normale fatto era gia' un atto - se mi e' consentito il
termine - rivoluzionario.
Dalle nostre parti infatti, specialmente la sera, se si era costretti a
uscire di casa o a rientrare avendo fatto tardi, le persone camminavano sui
marciapiedi, quasi accostati alle porte delle case. Solo molti decenni dopo
me ne sono dato una spiegazione. Chi cammina nel mezzo della strada e' un
facile bersaglio, ha piu' difficolta' a trovare un immediato rifugio.
Percio' i miei concittadini, senza saperlo, nei secoli avevano appreso
inconsciamente l'abitudine autodifensiva di camminare piu' vicini alle porte
delle case, piu' accostati ai muri. In caso di emergenza avrebbero potuto
trovare piu' facilmente il battente della porta di casa di un parente o di
un amico ai quali chiedere aiuto.
Queste considerazioni, unite alla condizione culturale e sociale in cui
versava Partinico in quegli anni mi convince ora sempre piu' del contrasto
che avrebbe potuto notare un ipotetico spettatore che avesse visto quel
crocchio di persone immobili e quel gruppo in movimento. Il primo
inghiottito dalla violenza dell'ambiente, l'altro testimone di nonviolenza,
segno tangibile di una ricerca di riscatto che questo provvidenziale
continentale per la prima volta rappresentava. Capii qualche anno dopo che
fino a quel momento eravamo stati sempre vittime.

2. ET COETERA

Giuseppe Casarrubea e' uno dei massimi storici della Sicilia contemporanea,
figlio del militante del movimento operaio assassinato dalla mafia a
Partinico nel 1947, collaboratore di Danilo Dolci, educatore e preside, ha
dedicato fondamentali ricerche alle lotte del movimento dei lavoratori
contro la mafia, valoroso militante del movimento antimafia, vive e lavora a
Partinico (Palermo). Tra le molte ed ottime opere di Giuseppe Casarrubea
segnaliamo particolarmente: Intellettuali e potere in Sicilia, Sellerio,
Palermo 1983; L'educazione mafiosa, Sellerio, Palermo 1991; Gabbie strette,
Sellerio, Palermo 1996; Portella della Ginestra. Microstoria di una strage
di Stato, Angeli, Milano 1997; Fra' Diavolo e il governo nero. Doppio Stato
e stragi nella Sicilia del dopoguerra, Angeli, Milano 1998; Salvatore
Giuliano: morte di un capobanda e dei suoi luogotenenti, Angeli, Milano
2001; Storia segreta della Sicilia. Dallo sbarco alleato a Portella della
Ginestra, Bompiani, Milano 2005.
*
Danilo Dolci e' nato a Sesana (Trieste) nel 1924, arrestato a Genova nel '43
dai nazifascisti riesce a fuggire; nel '50 partecipa all'esperienza di
Nomadelfia a Fossoli; dal '52 si trasferisce nella Sicilia occidentale
(Trappeto, Partinico) in cui promuove indimenticabili lotte nonviolente
contro la mafia e il sottosviluppo, per i diritti, il lavoro e la dignita'.
Subisce persecuzioni e processi. Sociologo, educatore, e' tra le figure di
massimo rilievo della nonviolenza nel mondo. E' scomparso sul finire del
1997. Di seguito riportiamo una sintetica ma accurata notizia biografica
scritta da Giuseppe Barone (comparsa col titolo "Costruire il cambiamento"
ad apertura del libriccino di scritti di Danilo, Girando per case e
botteghe, Libreria Dante & Descartes, Napoli 2002): "Danilo Dolci nasce il
28 giugno 1924 a Sesana, in provincia di Trieste. Nel 1952, dopo aver
lavorato per due anni nella Nomadelfia di don Zeno Saltini, si trasferisce a
Trappeto, a meta' strada tra Palermo e Trapani, in una delle terre piu'
povere e dimenticate del paese. Il 14 ottobre dello stesso anno da' inizio
al primo dei suoi numerosi digiuni, sul letto di un bambino morto per la
denutrizione. La protesta viene interrotta solo quando le autorita' si
impegnano pubblicamente a eseguire alcuni interventi urgenti, come la
costruzione di una fogna. Nel 1955 esce per i tipi di Laterza Banditi a
Partinico, che fa conoscere all'opinione pubblica italiana e mondiale le
disperate condizioni di vita nella Sicilia occidentale. Sono anni di lavoro
intenso, talvolta frenetico: le iniziative si susseguono incalzanti. Il 2
febbraio 1956 ha luogo lo "sciopero alla rovescia", con centinaia di
disoccupati - subito fermati dalla polizia - impegnati a riattivare una
strada comunale abbandonata. Con i soldi del Premio Lenin per la Pace (1958)
si costituisce il "Centro studi e iniziative per la piena occupazione".
Centinaia e centinaia di volontari giungono in Sicilia per consolidare
questo straordinario fronte civile, "continuazione della Resistenza, senza
sparare". Si intensifica, intanto, l'attivita' di studio e di denuncia del
fenomeno mafioso e dei suoi rapporti col sistema politico, fino alle
accuse - gravi e circostanziate - rivolte a esponenti di primo piano della
vita politica siciliana e nazionale, incluso l'allora ministro Bernardo
Mattarella (si veda la documentazione raccolta in Spreco, Einaudi, Torino
1960 e Chi gioca solo, Einaudi, Torino 1966). Ma mentre si moltiplicano gli
attestati di stima e solidarieta', in Italia e all'estero (da Norberto
Bobbio a Aldo Capitini, da Italo Calvino a Carlo Levi, da Aldous Huxley a
Jean Piaget, da Bertrand Russell a Erich Fromm), per tanti avversari Dolci
e' solo un pericoloso sovversivo, da ostacolare, denigrare, sottoporre a
processo, incarcerare. Ma quello che e' davvero rivoluzionario e' il suo
metodo di lavoro: Dolci non si atteggia a guru, non propina verita'
preconfezionate, non pretende di insegnare come e cosa pensare, fare. E'
convinto che nessun vero cambiamento possa prescindere dal coinvolgimento,
dalla partecipazione diretta degli interessati. La sua idea di progresso non
nega, al contrario valorizza, la cultura e le competenze locali. Diversi
libri documentano le riunioni di quegli anni, in cui ciascuno si interroga,
impara a confrontarsi con gli altri, ad ascoltare e ascoltarsi, a scegliere
e pianificare. La maieutica cessa di essere una parola dal sapore antico
sepolta in polverosi tomi di filosofia e torna, rinnovata, a concretarsi
nell'estremo angolo occidentale della Sicilia. E' proprio nel corso di
alcune riunioni con contadini e pescatori che prende corpo l'idea di
costruire la diga sul fiume Jato, indispensabile per dare un futuro
economico alla zona e per sottrarre un'arma importante alla mafia, che
faceva del controllo delle modeste risorse idriche disponibili uno strumento
di dominio sui cittadini. Ancora una volta, pero', la richiesta di acqua per
tutti, di "acqua democratica", incontrera' ostacoli d'ogni tipo: saranno
necessarie lunghe battaglie, incisive mobilitazioni popolari, nuovi digiuni,
per veder realizzato il progetto. Oggi la diga esiste (e altre ne sono sorte
successivamente in tutta la Sicilia), e ha modificato la storia di decine di
migliaia di persone: una terra prima aridissima e' ora coltivabile;
l'irrigazione ha consentito la nascita e lo sviluppo di numerose aziende e
cooperative, divenendo occasione di cambiamento economico, sociale, civile.
Negli anni Settanta, naturale prosecuzione del lavoro precedente, cresce
l'attenzione alla qualita' dello sviluppo: il Centro promuove iniziative per
valorizzare l'artigianato e l'espressione artistica locali. L'impegno
educativo assume un ruolo centrale: viene approfondito lo studio, sempre
connesso all'effettiva sperimentazione, della struttura maieutica, tentando
di comprenderne appieno le potenzialita'. Col contributo di esperti
internazionali si avvia l'esperienza del Centro Educativo di Mirto,
frequentato da centinaia di bambini. Il lavoro di ricerca, condotto con
numerosi collaboratori, si fa sempre piu' intenso: muovendo dalla
distinzione tra trasmettere e comunicare e tra potere e dominio, Dolci
evidenzia i rischi di involuzione democratica delle nostre societa' connessi
al procedere della massificazione, all'emarginazione di ogni area di
effettivo dissenso, al controllo sociale esercitato attraverso la diffusione
capillare dei mass-media; attento al punto di vista della "scienza della
complessita'" e alle nuove scoperte in campo biologico, propone
"all'educatore che e' in ognuno al mondo" una rifondazione dei rapporti, a
tutti i livelli, basata sulla nonviolenza, sulla maieutica, sul "reciproco
adattamento creativo" (tra i tanti titoli che raccolgono gli esiti piu'
recenti del pensiero di Dolci, mi limito qui a segnalare Nessi fra
esperienza etica e politica, Lacaita, Manduria 1993; La struttura maieutica
e l'evolverci, La Nuova Italia, Scandicci (Fi) 1996; e Comunicare, legge
della vita, La Nuova Italia, Scandicci (Fi) 1997). Quando la mattina del 30
dicembre 1997, al termine di una lunga e dolorosa malattia, un infarto lo
spegne, Danilo Dolci e' ancora impegnato, con tutte le energie residue, nel
portare avanti un lavoro al quale ha dedicato ogni giorno della sua vita".
Tra le molte opere di Danilo Dolci, per un percorso minimo di accostamento
segnaliamo almeno le seguenti: una antologia degli scritti di intervento e
di analisi e' Esperienze e riflessioni, Laterza, Bari 1974; tra i libri di
poesia: Creatura di creature, Feltrinelli, Milano 1979; tra i libri di
riflessione piu' recenti: Dal trasmettere al comunicare, Sonda, Torino 1988;
La struttura maieutica e l'evolverci, La Nuova Italia, Firenze 1996.
Recentissimo e' il volume che pubblica il rilevante carteggio Aldo Capitini,
Danilo Dolci, Lettere 1952-1968, Carocci, Roma 2008. Tra le opere su Danilo
Dolci: Giuseppe Fontanelli, Dolci, La Nuova Italia, Firenze 1984; Adriana
Chemello, La parola maieutica, Vallecchi, Firenze 1988 (sull'opera poetica
di Dolci); Antonino Mangano, Danilo Dolci educatore, Edizioni cultura della
pace, S. Domenico di Fiesole (Fi) 1992; Giuseppe Barone, La forza della
nonviolenza. Bibliografia e profilo critico di Danilo Dolci, Libreria Dante
& Descartes, Napoli 2000, 2004 (un lavoro fondamentale); Lucio C. Giummo,
Carlo Marchese (a cura di), Danilo Dolci e la via della nonviolenza,
Lacaita, Manduria-Bari-Roma 2005; Raffaello Saffioti, Democrazia e
comunicazione. Per una filosofia politica della rivoluzione nonviolenta,
Palmi (Rc) 2007. Tra i materiali audiovisivi su Danilo Dolci cfr. i dvd di
Alberto Castiglione: Danilo Dolci. Memoria e utopia, 2004, e Verso un mondo
nuovo, 2006. Tra i vari siti che contengono molti utili materiali di e su
Danilo Dolci segnaliamo almeno www.danilodolci.it, danilo1970.interfree.it,
www.danilodolci.toscana.it, www.inventareilfuturo.com, www.cesie.org,
www.nonviolenti.org, www.fondodanilodolci.it

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