La domenica della nonviolenza. 171



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LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 171 del 6 luglio 2008

In questo numero:
1. Maria Serena Palieri intervista Ismail Kadare'
2. Federico Rampini intervista Gao Xingjian
3. Barbara Spinelli presenta "Arcipelago Gulag" di Aleksandr Solzenicyn
(2001)

1. RIFLESSIONE. MARIA SERENA PALIERI INTERVISTA ISMAIL KADARE'
[Dal quotidiano "L'Unita'" del 5 luglio 2008 col titolo "Ismail Kadare'.
L'Albania di Hoxha? Un paese ermafrodita" e il sommario "La figlia di
Agamennone, prima parte del dittico, arrivo' clandestina in Francia nel
1986. Doveva fungere da testamento nel caso di morte sospetta dello
scrittore. Dal '70 al '90, quando sono espatriato a Parigi, il mio status
era surreale: ero 'lo' scrittore amato dall'Occidente nel paese nemico
numero uno dello stesso Occidente. Il nostro pianeta e' troppo piccolo per
permettersi il lusso di ignorare Dante Alighieri. Sfuggire a Dante e'
impossibile come sfuggire alla propria coscienza. Ismail Kadare' arriva oggi
in Italia per ricevere il Premio Flaiano. In due romanzi da poco usciti per
Longanesi il grande scrittore albanese, piu' volte candidato al Nobel, offre
un magnifico e cupo ritratto del totalitarismo".
Maria Serena Palieri (Roma, 1953) giornalista, dal 1979 scrive su
"L'Unita'", attualmente lavora alle pagine culturali e si occupa di
narrativa italiana e internazionale e mercato editoriale; ha collaborato con
diverse testate, tra cui "l'Espresso" e "Marie Claire", e' stata consulente
di Rai Educational e autrice-conduttrice per Radiodue; in campo editoriale
lavora anche come editor e traduttrice dal francese; un suo libro-intervista
con Domenico de Masi, Ozio creativo, sui tempi di vita, ha avuto quattro
edizioni (Ediesse, Rizzoli) ed e' stato pubblicato in Brasile da Sextante.
Ismail Kadare' (Argirocastro, 1936), e' il piu' noto scrittore albanese e
tra i maggiori scrittori del Novecento. Dopo gli studi letterari a Tirana e
a Mosca, lavoro' come giornalista; pubblico' il primo romanzo nel 1963. Nel
1990 ha ottenuto asilo politico in Francia. Tra le opere di Ismail Kadare':
Il generale dell'armata morta, 1963; I tamburi della pioggia, 1970; La
citta' di pietra, 1971; L'inverno della grande solitudine, 1973; Chi ha
riportato Doruntina?, 1980; Aprile spezzato, 1980; Il palazzo dei sogni,
1981; L'anno avverso, 1986; Concerto alla fine dell'inverno, 1988; Il
mostro, 1990; Il crepuscolo degli dei della steppa, 1993; La piramide, 1995;
La commissione delle feste, 1996; Tre canti funebri per il Kosovo, 1999; La
commissione delle feste, 2000; Il ponte a tre archi, 2002; Freddi fiori
d'aprile, 2005; Vita, avventure e morte di un attore, 2006; La figlia di
Agamennone, 2007; L'aquila, 2007; Eschilo, il gran perdente, 2008]

Ci sono immagini che, terminata la lettura di un libro, te ne restano in
mente come emblemi. Nel Successore, l'ultimo romanzo di Ismail Kadare', e'
quella della "Guida" - ovvero Enver Hoxha, il dittatore che tenne in suo
potere l'Albania per quarant'anni, dalla fine della guerra alla morte,
avvenuta nel 1985 - che fa ingresso all'inaugurazione della nuova casa del
suo delfino. Col suo fasto, la dimora sembra prefigurare il passaggio di
poteri tra i due uomini, che dovrebbe avvenire alla morte della Guida. Ma
ecco l'anziano dittatore, ormai quasi cieco, in lungo mantello nero, che
gioca con l'interruttore modernissimo che spicca su una parete del salone:
da un lato e' luce sempre piu' piena, ma dall'altro, clic, la stanza
precipita nel buio. Con lo stesso ludico arbitrio, il "Prijs", la Guida,
decidera' della vita del suo fedelissimo: gli succedera' davvero o sara' lui
a morire prima, andandosene in circostanze misteriose? Terminato nel 2004,
Il successore e' la seconda parte di un dittico che Kadare' avvio' tra il
1984 e il 1986 con il romanzo La figlia di Agamennone. Sulla falsariga della
tragedia eschilea dell'Atride, di sua figlia Ifigenia e della moglie
Clitennestra, ecco la vicenda di una fanciulla, Suzana, immolata sull'altare
della ragion di Stato: non potra' sposare l'amante cui - con innocente fame
di eros - ha concesso la propria verginita', perche' andra' a nozze con un
altro, in apparenza piu' consono alla dimensione di potere teocratico cui e'
vocato suo padre; ma nel secondo volume si scopre che il promesso sposo e'
figlio di "nobilastri", accusa infamante nell'Albania comunista, da qui la
caduta in rovina del Successore e della sua famiglia. Il primo libro,
racconta nella postfazione Claude Durand, editore di Fayard, arrivo' in
Francia, da Tirana dove lui si era appositamente recato, dissimulato tra le
sue carte, insieme con un altro romanzo, L'Ombre, con L'envol du migrateur e
delle raccolte di versi. Depositati alla Banque de la Cite', gli scritti
fungevano da assicurazione sulla memoria: Fayard aveva l'incarico di
tradurli e pubblicarli se Ismail Kadare' fosse morto, magari in modo
"accidentale". Il dittico e' il piu' spietato ed esplicito atto d'accusa che
lo scrittore di Gjirokastra abbia mosso al regime di Hoxha - la monarchia
comunista che aveva trasformato l'Albania, scrive, in un "paese
ermafrodita" - senza piu' i veli dell'allusione utilizzati altrove, per
esempio nel Palazzo dei sogni. Dunque, era lo scudo da utilizzare se il
regime avesse tentato, post-mortem, di manipolare la sua memoria. Kafkiano
(per una volta l'aggettivo non e' un abuso), cupamente magnifico, di una
potenza, a tratti, quasi intollerabile, il dittico - specie nel secondo
romanzo - certifica di nuovo la grandezza dello scrittore del Generale
dell'armata morta, piu' volte candidato al Nobel. Mentre, in contemporanea,
escono da noi anche due suoi saggi. Uno su Eschilo, l'altro su Dante.
Quest'ultimo con una tesi assai interessante: che l'Alighieri, col suo
Inferno, abbia prefigurato il mondo fino a oggi, un mondo, il nostro,
"dantesco" nella labirintica claustrofobia delle sue metropoli.
*
- Maria Serena Palieri: La figlia di Agamennone e Il successore
costituiscono un dittico che merita d'essere definito non un romanzo, ma
"il" romanzo, del totalitarismo. Cos'e', signor Kadare', il totalitarismo?
- Ismail Kadare': E' una forma di potere ben conosciuta nel mondo, che si e'
evoluta per millenni, ma i cui dati sono ricorrenti. E' un potere totale che
non sopporta falle. Il complesso del totalitarismo, la sua malattia mortale,
e' che la prima falla che si apre in esso ne determina la fine. Percio' non
sopporta incrinature.
*
- Maria Serena Palieri: L'idea corrente e' che sia stato il Novecento a
inventare i totalitarismi, cioe' i fascismi e il comunismo. Quali ne sono
stati, prima, i prototipi?
- Ismail Kadare': Il sistema di potere degli Egizi, per esempio. I Greci,
loro, ne hanno scritto, la tragedia greca ne parla, ma essa riportava cio'
che avveniva nel mondo intorno. Perche' la "tirannia" greca era piuttosto
un'oligarchia, ad Atebe di tiranni ce ne furono trenta insieme, e questo
cambia parecchio. Pensi se ci fossero stati trenta Stalin o trenta
Mussolini...
*
- Maria Serena Palieri: Pero' la memoria del totalitarismo, quel controllo
che esso esercitava fino nel profondo delle coscienze, sembra scomparsa nel
sentire di chi, oggi, persone comuni e non intellettuali, arriva qui dai
paesi dell'Est Europa. Russi, romeni, albanesi, raccontano quel passato con
nostalgia per il modello di giustizia sociale al piu' lamentandone la
mancanza di liberta'. Come mai la memoria del totalitarismo sfuma cosi'
facilmente?
- Ismail Kadare': La macchina dell'oblio non e' assurda, e' necessaria.
Senza l'oblio non potremmo avere memoria. Ma a volte si dimentica troppo. La
macchina perde colpi, funziona male.
*
- Maria Serena Palieri: Si dice "comunismo", al singolare. In realta'
ciascuno aveva il proprio. Quello albanese quali caratteristiche aveva?
- Ismail Kadare': Era il peggiore. O meglio, il peggiore dopo quello
cambogiano e quello cinese. Subito dopo ecco il nostro e quello romeno. Era
un mosaico di due fasi, quella stalinista e quella post-stalinista. Il
comunismo asiatico era piu' duro, li' la persecuzione di scrittori e
intellettuali e' arrivata a livelli inimmaginabili, la Rivoluzione culturale
cinese e' stata, in questo senso, la piu' grande ecatombe della storia,
pero' il comunismo cinese non e' stato ancora studiato bene.
*
- Maria Serena Palieri: Forse perche' la Repubblica Popolare esiste ancora?
- Ismail Kadare': Anche perche' in Occidente c'erano dei maitres-a'-penser
che, la Cina, la sostenevano.
*
- Maria Serena Palieri: Rispetto a questo scenario, lei ritiene di aver
sperimentato, in Albania, maggiore liberta'?
- Ismail Kadare': Nel 1980 se non altro ho potuto scrivere un romanzo di 600
pagine, Il concerto, dove raccontavo un'ecatombe di intellettuali e la morte
che correva dentro la cupola del potere. Facevo un paragone tra Macbeth che,
nella tragedia di Shakespeare, uccide il re, e la Cina dov'era stato il re,
Mao Tse Tung, ad aver fatto uccidere il candidato alla successione Lin Piao.
Scrivevo nomi e cognomi. Finii il romanzo mentre Enver Hoxha liquidava, lui,
il suo delfino, Mehmet Shehu. Hoxha lo ebbe in visione e il romanzo non
usci' fino alla sua morte. Ma insomma, avevo potuto scriverlo.
*
- Maria Serena Palieri: Lei ha lasciato l'Albania nel 1990, cinque anni dopo
la morte di Hoxha. Come mai non l'aveva fatto prima? E li' di quale statuto
godeva? Viveva del suo scrivere? Era amato o messo al bando?
- Ismail Kadare': Lasciare una dittatura e' difficile, c'era il rischio di
rappresaglie per la mia famiglia. In Albania ero molto amato dai
progressisti, studenti e professori, ma anche gente semplice, ed ero odiato
dai militanti fanatici del regime e tenuto d'occhio dalla polizia segreta.
Il mio status, dopo il 1970, era davvero strano, perche' in quell'anno
cominciarono a tradurre le mie opere in una quantita' di lingue, e cosi' ero
amato sia in patria, nel paese che era il nemico numero uno dell'Occidente,
che nell'Occidente stesso. Ero un paradosso, ero "lo" scrittore di un paese
stalinista amato all'Ovest. Sapevo di avere due tipi di lettori, gli
albanesi indottrinati e i lettori di la', internazionali, liberi. E, si',
vivevo del mio scrivere.
*
- Maria Serena Palieri: In contemporanea con la seconda parte del dittico
romanzesco escono in Italia due suoi saggi, Dante, l'inevitabile, per
Fandango Libri, ed Eschilo, questo grande perdente, per un'etichetta
neonata, Controluce. Il richiamo alla tragedia classica e', in questi due
romanzi, esplicito fin dal titolo del primo. E l'aggettivo "dantesco"
descrive il cupo inferno in cui si erge la figura del "Prijs", la Guida, il
dittatore. Quale ruolo hanno avuto i Greci, da un lato, e Dante, nella sua
formazione?
- Ismail Kadare': Un'influenza profonda, costituiscono il sommo dell'arte.
E' questo che, nei saggi, ho cercato di esprimere. Che il testo su Dante
appaia ora in Italia e' un piacere, e' un onore.
*
- Maria Serena Palieri: La vicenda che lei narra nei due romanzi e' calcata
sull'Orestea. Ma cio' che il Successore/Agamennone immola per far carriera
non e' il semplice corpo di sua figlia, Suzana/Ifigenia. E', piu' in
profondita', la sua sessualita'. E' al suo eros che la ragazza deve
rinunciare. Perche' ha circoscritto il sacrificio di Suzana a questa sfera e
non ha parlato invece d'amore, di cuore, di sentimenti?
- Ismail Kadare': Volevo dare al sacrificio una connotazione "genetica",
qualcosa che parlasse della possibilita' di cambiare la natura umana in
profondita'. E accentuare questo lato dell'amore: il totalitarismo riduce
l'amore, come tutte le passioni, a uno stato molto povero, primitivo.
*
- Maria Serena Palieri: Dopo il crollo del regime lei e' potuto tornare in
Albania. L'ha fatto subito? E oggi com'e' il paese, rispetto al passato?
- Ismail Kadare': Non e' un paese ne' ricco ne' felice. Io, qui, sono
tornato subito, appena ho potuto, me l'ero ripromesso e ho mantenuto la
parola. Trascorro meta' dell'anno vicino a Durazzo, sul mare, in una
localita' il cui nome e' arcaico e significa "la montagna dell'uomo".
L'Albania oggi potrebbe essere felice, per via della liberta' conquistata.
Ma pretende di piu'. E se lo merita, io credo.
*
Postilla bibliografica. In libreria non solo romanzi. Anche i saggi su
Eschilo e Dante
Con Il Successore (pp. 149, euro 12,60) romanzo appena uscito, sono arrivati
a tredici i titoli di Ismail Kadare' pubblicati da Longanesi. In questa
stagione e' uscito anche La figlia di Agamennone (pp. 109, euro 13). La
traduzione di entrambi, a opera di Francesco Bruno, e' dalla versione
francese, anziche' dall'originale albanese.
Tea ha da poco rimandato in libreria, in tascabile, Chi ha riportato
Doruntina? (pp. 142, euro 8, trad. F. Bruno), una vicenda dai toni da
thriller ambientata nell'Albania medievale, composta da Kadare' nel 1980.
Per Fandango Libri Francesca Spinelli ha tradotto il saggio Dante,
l'inevitabile (pp. 53, euro 9). La neonata editrice salentina Controluce
pubblica invece Eschilo, il gran perdente (pp. 140, euro 13) nella
traduzione, qui, dall'albanese, di Adriana Prizreni.

2. RIFLESSIONE. FEDERICO RAMPINI INTERVISTA GAO XINGJIANG
[Dal quotidiano "La Repubblica" del 3 luglio 2008 col titolo "Per la Cina io
non esisto. Intervista al Premio Nobel Gao Xingjian. Un esilio lungo
vent'anni" e il sommario "Nel mio paese sono una non-persona. Hanno
cancellato il mio nome dall'elenco dei Nobel, ma io non sono un dissidente,
solo uno scrittore. Dopo i fatti di Tienanmen il Governo ha ripreso a
esercitare un controllo duro. Gli studenti cinesi all'estero sono tutti
iscritti al partito e si controllano tra loro".
Federico Rampini (Genova, 1956), giornalista e saggista, e' stato allievo di
Raymond Aron all'Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi, e
di Mario Monti all'Universita' Bocconi di Milano; ha iniziato la sua
attivita' di giornalista nel 1977 a "La citta' futura", poi a "Rinascita",
"L'Espresso", "Mondo Economico"; in seguito e' stato vicedirettore de "Il
Sole 24 Ore"; poi capo della redazione milanese ed in seguito editorialista
e inviato del quotidiano "La Repubblica" a Parigi, Bruxelles, San Francisco,
Pechino; ha collaborato come opinionista a "Le Figaro", "L'Express" e
"Politique etrangere" in Francia; ha insegnato alle universita' di Berkeley
e Shanghai; e' consulente dell'Institut Francais des relations
internationales; membro del comitato scientifico della rivista "Critique
Internationale" pubblicata dalla Fondation Nationale des Sciences Politiques
di Parigi, e della rivista italiana di geopolitica "Limes". Opere di
Federico Rampini: La germanizzazione. Come cambiera' l'Italia, Laterza,
1996; (con Massimo D'Alema), Kosovo, Mondadori, 1999; New Economy. Una
rivoluzione in corso, Laterza, 2000; Dall'euforia al crollo. La seconda vita
della New Economy, Laterza, 2001; Effetto Euro, Longanesi, 2002; Le paure
dell'America, Laterza, 2003; Tutti gli uomini del Presidente. George W. Bush
e la nuova destra americana, Carocci, 2004; San Francisco-Milano, Laterza,
2004; Il secolo cinese. Storie di uomini, citta' e denaro dalla fabbrica del
mondo, Mondadori, 2005; L'ombra di Mao. Sulle tracce del Grande Timoniere
per capire il presente di Cina, Tibet, Corea del Nord e il futuro del mondo,
Mondadori, 2006; L'impero di Cindia. Cina, India e dintorni: la superpotenza
asiatica da tre miliardi di persone, Mondadori, 2006; La speranza indiana.
Storie di uomini, citta' e denaro dalla piu' grande democrazia del mondo,
Mondadori, 2007.
Gao Xingjian, scrittore e pittore cinese, e' nato nel 1940 a Ganzhou
(Jiangxi) nella Cina orientale; laureato in francese a Pechino nel 1962,
perseguitato durante la Rivoluzione culturale - e di nuovo
successivamente -, dal 1987 vive a Parigi e dal 1997 e' cittadino francese;
nel 2000 gli e' stato attribuito il Premio Nobel per la letteratura. Opere
di Gao Xingjian: Per un'altra estetica, Rizzoli, 2001; (con Yang Lian), Il
pane dell'esilio. La letteratura cinese prima e dopo Tienanmen, Medusa,
2001; Una canna da pesca per mio nonno, Rizzoli, 2001; La montagna
dell'anima, Rizzoli, 2002; Il libro di un uomo solo, Rizzoli, 2003; Parlero'
di ricci. Poesie (1991-1995), Fermenti, 2006]

Agliana (Pistoia). Esiste una Grande Muraglia invisibile che impedisce la
comprensione fra l'Occidente e la Cina? Noi e loro siamo destinati a non
capirci perche' i nostri linguaggi, i sistemi di valori, i contesti storici
delle due civilta' sono troppo distanti? Il teorema dell'incomunicabilita'
ha avuto un revival in tempi recenti, da quando si e' visto che il
formidabile sviluppo economico cinese non sfocia automaticamente nella
evoluzione politica verso la liberaldemocrazia. I leader della Repubblica
Popolare difendono da tempo una presunta e irriducibile diversita' dei
"valori asiatici" per respingere le critiche sui diritti umani e le
liberta'. Pochi possono affrontare questo tema con la lucidita' di Gao
Xingjian, il premio Nobel cinese della letteratura.
Romanziere, commediografo e pittore, Gao vive in esilio a Parigi dal 1988.
L'esperienza della diaspora ne fa un osservatore acuto dei due mondi. Lo
incontro ad Agliana, dove e' venuto ad assistere alla messa in scena de La
fuga (Titivillus Edizioni, traduzione di Simona Polvani), il suo dramma
ispirato alla rivolta di Piazza Tienanmen.
*
- Federico Rampini: Lei parla perfettamente francese eppure da vent'anni
continua a scrivere in mandarino. La distanza linguistica e' il segnale che
ci sono idee, vicende, rappresentazioni del mondo che restano
"intraducibili" al di fuori del contesto storico in cui sono nate?
- Gao Xingjian: Non sottovaluto le difficolta' della traduzione. Ma dagli
ostacoli grammaticali, lessicali e sintattici non bisogna estrapolare delle
conclusioni estreme. Capire la Cina, per un europeo di oggi, non e' piu'
difficile di quanto lo sia per voi stessi capire la Grecia antica: anche
quello indubbiamente era un mondo assai diverso. Del resto anch'io sono in
grado di leggere e di amare i classici greci. Non ci sono delle vere
barriere per la comunicazione tra Occidente e Oriente. Io sono un esempio di
questa possibilita'. Sono interessato da sempre alla cultura occidentale, ma
anche a quella sudamericana, africana, e conosco in parte quella indiana.
*
- Federico Rampini: Dunque lei che cosa risponde a chi teorizza che i valori
occidentali non si possono esportare a Pechino?
- Gao Xingjian: L'impressione dell'incomunicabilita' tra i due mondi e' una
creazione della politica. E' evidente l'interesse che ha il regime di
Pechino a far credere che le civilta' sono compartimenti stagni. La storia
ci ha dimostrato piu' volte il contrario. Nel passato i missionari cattolici
hanno tradotto e hanno permesso di conoscere in Occidente molti filosofi
classici cinesi; insieme hanno tradotto in cinese i testi religiosi europei.
Questo poteva avvenire perche' certe dinastie imperiali del passato erano
meno totalitarie della Repubblica Popolare. Nella Cina contemporanea ci
furono una certa riapertura, una maggiore liberta' di circolazione delle
informazioni e degli scambi dopo la morte di Mao Zedong. Poi vennero i fatti
di Piazza Tienanmen e il Governo ha ripreso a esercitare un controllo molto
forte. Puo' esserci un dialogo tra culture, poiche' le relazioni si fondano
su un tessuto comune: e' la natura umana che e' la stessa, ed e' universale.
L'unica vera barriera tra di noi e' politica.
*
- Federico Rampini: Lei e' l'unico autore cinese ad avere ricevuto il Nobel.
Negli ultimi vent'anni l'atteggiamento del regime nei suoi confronti non e'
mai cambiato?
- Gao Xingjian: Io in Cina ufficialmente non esisto. Continuo a essere
invisibile, una non-persona. Nelle enciclopedie, nei testi di storia
letteraria, o negli archivi dei giornali, hanno cancellato il mio nome
dall'elenco dei premi Nobel della Letteratura. Quindi per i cinesi il Nobel
del 2000 non fu mai assegnato. Quando vado a Hong Kong - l'unica citta'
cinese dove mi e' consentito rientrare per il suo statuto autonomo - ci sono
dei connazionali che vengono ad ascoltarmi, a dialogare con me. Possono
farlo a patto che non scrivano nulla su di me quando tornano a casa. In
questo senso qualcosa e' cambiato. Il dibattito tra i cinesi, nella loro
vita privata, e' certamente piu' libero e disinvolto rispetto ai tempi del
maoismo. Ma tutto cio' che diventa pubblico e' ancora sottoposto a un
controllo e a limitazioni stringenti.
*
- Federico Rampini: Perfino fare i conti con il maoismo continua a essere
difficile. Lei con Il libro di un uomo solo e' una delle rare eccezioni.
- Gao Xingjian: Il mio Libro di un uomo solo non e' un diario ne' un
reportage, e' un romanzo, quindi una rielaborazione in forma narrativa, ma
effettivamente vi racconto la mia esperienza di quel periodo. Sul nazismo
sono stati scritti decine e decine di libri che raccontano le sue atrocita',
sul maoismo la letteratura e' ancora povera. Con il mio romanzo ho voluto
lasciare una testimonianza sull'orrore della Rivoluzione culturale. Ho
cercato di andare fino in fondo. Ho provato a far capire quali siano le
ragioni per cui un regime puo' arrivare a controllare milioni di persone e
ridurle a niente. La Cina dopo la morte di Mao Zedong voleva far credere al
resto del mondo che era cambiata ma non lo era abbastanza; alcuni meccanismi
della paura e del controllo sociale sono in opera anche adesso. Percio'
leggo poco di quello che si pubblica oggi nel mio paese. Quando la
condizione preventiva per riuscire a essere pubblicati e' la disciplina
dell'autocensura, manca una condizione per il fiorire della creazione
artistica.
*
- Federico Rampini: Nel testo teatrale La fuga c'e' la denuncia della
repressione ma c'e' anche una visione disillusa, perfino cinica, sulle varie
componenti che confluirono nella rivolta di Piazza Tienanmen nel 1989. Per
questo lei si attiro' le critiche di alcuni dissidenti. Nel mondo degli
esuli lei rimane abbastanza isolato, un caso a parte.
- Gao Xingjian: Ho sempre rifiutato di farmi rinchiudere nella definizione
del dissidente. E' un marchio nel quale non mi riconosco. Questa mia scelta
non riguarda solo la Cina, ma piu' in generale la questione dell'impegno
politico dell'artista. Io sono convinto che anche nell'arte dobbiamo essere
capaci di superare il Novecento, il secolo delle grandi guerre ideologiche.
Quando rileggo Brecht o Sartre m'imbatto troppo spesso in pagine
irrimediabilmente datate, perche' le loro posizioni sono vecchie,
palesemente sbagliate, insostenibili. Brecht lo ammiro tuttora come un genio
dell'innovazione teatrale, eppure la sua militanza politica in qualche modo
impoverisce la sua opera. Io rifiuto tutti gli "ismi". Credo che lo
scrittore deve riuscire a raccontare una vicenda umana - anche piccola,
modesta, del tutto privata - ma che si possa forse rileggere mille anni dopo
come una storia universale che continua a interessarci.
*
- Federico Rampini: Molti occidentali sono rimasti turbati da quanto e'
avvenuto negli ultimi mesi in Cina. Dopo la rivolta del Tibet e la
repressione scatenata dal governo di Pechino, si e' avuta la sensazione che
la maggioranza dei cinesi siano solidali del regime in nome del
nazionalismo. Un'impressione rafforzata durante le contestazioni contro la
fiaccola olimpica a Londra, Parigi, San Francisco: da una parte c'erano i
militanti dei diritti umani, ma in difesa della fiaccola si sono schierate
le comunita' degli emigrati e degli studenti cinesi all'estero, una forte
manifestazione di patriottismo e di compattezza nazionale.
- Gao Xingjian: Io sono uno scrittore, non un giornalista. Non so trovare
risposte precise, spiegazioni dettagliate di questi eventi. Io vi invito a
non fermarvi alle apparenze. Bisogna sempre chiedersi cosa c'e' dietro,
quali interessi sono in gioco, quali forze stanno muovendosi. Ci sono stati
dei segnali sul ruolo che le ambasciate cinesi hanno svolto per mobilitare i
connazionali all'estero. Gli studenti cinesi che frequentano le universita'
occidentali grazie alle borse di studio, che lo sappiate o no, sono spesso
iscritti al partito comunista. Si sorvegliano reciprocamente, molti di loro
sanno che dovranno tornare in patria. In quanto agli immigrati cinesi che
sono scesi in piazza per difendere la fiaccola a Parigi o altrove, molti
lavorano nel commercio. Hanno bisogno di intrattenere buoni rapporti con la
Repubblica Popolare che e' la fonte dei loro affari. Scavando sotto il
nazionalismo spesso si trovano scelte di convenienza, interessi economici.
Credo inoltre che il governo cinese stia utilizzando i Giochi per far
crescere il nazionalismo in Cina e nei cinesi che vivono all'estero. Se
inizi a parlare di ideologia, anche in Cina, nessuno ti sta a sentire, ma se
parli di interessi allora e' facile catturare l'attenzione.

3. LIBRI. BARBARA SPINELLI PRESENTA "ARCIPELAGO GULAG" DI ALEKSANDR
SOLZENICYN (2001)
[Dal quotidiano "La Stampa" del 2 marzo 2001 col titolo "Nuova edizione del
capolavoro di Solzenicyn: un viaggio nel male del Gulag che oggi nessuno
puo' piu' negare".
Barbara Spinelli (Roma, 1946) e' una prestigiosa giornalista e saggista
impegnata per la democrazia e i diritti umani;figlia di Altiero Spinelli e
Ursula Hirschmann, e' stata tra i fondatori del quotidiano "La Repubblica",
ha poi lavorato al "Corriere della sera" e infine alla "Stampa", prima come
corrispondente da Parigi, dove tuttora lavora e vive, poi come
editorialista. Tra le opere di Barbara Spinelli: Presente e imperfetto della
Germania orientale, Il Mulino, Bologna 1972; Il sonno della memoria.
L'Europa dei totalitarismi, Mondadori, Milano 2001, 2004; Ricordati che eri
straniero, Qiqajon, 2005; una selezione di suoi articoli e' in una sezione
personale del sito del quotidiano "La stampa" (www.lastampa.it).
Aleksandr Solzenicyn, nato nel 1918, laureatosi in fisica e matematica,
accusato di propaganda antisovietica fu deportato nel Gulag nel 1945,
rilasciato nel 1956, divenuto scrittore, nel 1970 ebbe il Premio Nobel per
la letteratura, e fu costretto a lasciare l'Urss. Solo in anni recenti e'
tornato in Russia. Opere di Aleksandr Solzenicyn: fondamentali sono
Arcipelago Gulag (ora disponibile in tre volumi in edizione economica Oscar
Mondadori), e Una giornata di Ivan Denisovic (ora disponibile anche in
edizione ultraeconomica presso Newton Compton); cfr. inoltre almeno Il primo
cerchio; Divisione cancro (tradotto anche col titolo Reparto C, e come
Padiglione cancro); Una candela al vento; Il cervo e la bella del campo; Per
il bene della causa (raccolta dei racconti); Agosto 1914; Lenin a Zurigo.
Opere su Aleksandr Solzenicyn: un punto di partenza puo' essere Erica Klein,
Invito alla lettura di Solzenicyn, Mursia; cfr. anche Olivier Clement,
Solzenicyn in Russia, Jaca Book. Notevole la lunga intervista filmata da
Aleksandr Sokurov]

La storia italiana dell'Arcipelago e' diversa da quella francese: lo
scrittore venne sminuito, schivato, in genere ignorato. Piu' intelligente e
astuto dei compagni francesi, il Pci seppe costruire un muro, attorno alla
figura del dissidente e alla sua opera, che lo teneva a distanza e lo
rendeva leggermente sospetto. Era troppo russo, troppo sferzante, troppo
credente, per entrare nei miscredenti salotti di Milano o di Roma. Il muro
era fatto di un singolare impasto di bon ton e di arroccamento ideologico,
di relativismo etico e di fatica di leggere, di giudizio sull'opera
mescolato perfidamente all'opinione sulla personalita' dell'autore.
Solzenicyn disturbava i revisionismi sfumati e le strategie di potere del
comunismo italiano, e per di piu' aveva una serieta' che stonava: pochi
resistettero al conformismo di un'intelligencija che a differenza di quella
francese non stava discostandosi dal partito comunista, negli anni in cui
venne pubblicato l'Arcipelago, ma ritrovava anzi le virtu' del
fiancheggiamento. Il 1975 e 1976 erano anni gloriosi per il Pci, era l'epoca
di Berlinguer, del compromesso storico, della lotta al terrorismo
brigatista. Le rare fiammelle di contestazione che si erano accese nel
Sessantotto si spensero in quell'epoca, per esser riassorbite speditamente
dalla casa madre. Alla paura di perdere la fede ideologica si aggiungeva poi
qualcos'altro: un'oscura, segreta attrazione per l'ordine e la stabilita',
garantiti dal sistema comunista: fenomeno non meno singolare, per
intellettuali che ambivano a essere anticonformisti. Molta parte
dell'avversione contro Solzenicyn, a sinistra come a destra,
nell'intelligencija come nella classe politica, nasceva da un impulso
conservatore. Sarebbe stato infinitamente piu' accetto un Tolstoj che
diffida delle liberta' individuali, piuttosto che un Solzenicyn che esplora
le scabrose solitudini del pensiero indipendente.
*
Puo' valere come esempio la vicissitudine di Dante Corneli, l'operaio
comunista che combatte' il fascismo e successivamente si rifugio' in Urss,
dove per ventiquattro anni - tra il 1936 e il 1960 - venne relegato nei
Gulag di Vorkuta e della nuova citta' polare di Igarka. Quando rientro' in
Italia, nel 1970, fatico' parecchio a far stampare le proprie memorie.
Nessuna casa editrice borghese giudico' interessante la storia di un
antifascista italiano che aveva passato in carcere piu' tempo di qualsiasi
altro, fino a quando, nel 1977, il testo fu accolto da un piccolo editore
comunista, La Pietra. Ma l'ospitalita' non era incondizionata, e Corneli fu
adoperato come un'arma per neutralizzare Solzenicyn, di cui erano gia'
usciti in Italia i due primi volumi dell'Arcipelago. Le memorie erano
corredate da un commento, oltre che da una postilla di Umberto Terracini,
che falsavano il resoconto dell'autore e la natura stessa della sua
dissidenza. Nella quarta di copertina, l'editore traccia il ritratto di un
uomo che a dispetto dei Gulag e' "uscito miracolosamente integro,
conservando la stessa visione del mondo che nel 1921 lo fece diventare
comunista". Conclusione: "I campi di Stalin non furono dunque la negazione
totale. Corneli li racconta come fatto politico e umano, durissimo,
ingiusto, arbitrario, ma non tesi alla liquidazione globale dell'uomo per
una nuova barbarica visione distruttrice, come furono invece i campi del
capitalismo hitleriano". Visti dall'interno delle convinzioni comuniste, i
Gulag acquisivano un'altra fisionomia, e la fede nell'Idea non ne era
contaminata. A ogni costo bisognava appropriarsi dell'esperienza di Corneli,
se si voleva con piu' efficacia deprezzare l'Arcipelago. Tale era
l'obiettivo esplicito dell'editore: "Se un altro testimone come
l'intellettuale Solzenicyn racconta di avervi scoperto il lavoro manuale
come controvalore alla negazione della sua umanita', l'operaio Corneli
continua invece a vivere nei campi da combattente proletario che non scopre
niente che gia' non sapesse. La sua esperienza, per quanto traumatizzante,
rimane quindi unitaria: non si crea in lui quella frattura che spingera' il
piccolo-borghese Solzenicyn a cercare spiegazioni totali e contrapposte al
comunismo, in una visione irrazionale che perde ogni dimensione critica
utile a comprendere la realta'".
In appendice all'edizione delle memorie di Corneli ripubblicate nel 2000
dalla Fondazione Liberal, Marcello Braccini, amico del redivivo di Tivoli,
smantella la leggenda edificante del combattente proletario nei Gulag:
ventiquattro anni di deportazioni non avevano lasciato integro il credo di
Corneli, e contrapporre quest'ultimo a Solzenicyn era ingannevole oltre che
tendenzioso. Corneli aveva rotto con il comunismo e, se aveva criticato Una
giornata di Ivan Denisovic di Solzenicyn, era perche' la rappresentazione
dei Gulag gli era parsa fin troppo indulgente: la critica andava "nel senso
di Salamov, quello di Ivan Denisovic era un campo speciale, quasi da
privilegiati". Anche la postfazione di Umberto Terracini aveva irritato
Corneli, nonostante l'aiuto che il senatore aveva dato per il suo rientro in
Italia. Fedele come qualsiasi dirigente comunista alla formula esoterica
dell'impenetrabilita', il presidente del gruppo senatoriale del Pci
ammetteva l'esistenza di un "mondo di orrori" troppo a lungo nascosto ai
compagni italiani, ma si felicitava con lo scampato di Vorkuta per il "tono
pacato delle memorie" - cosi' differenti da chi si faceva "trascinare da una
rabbiosa giustificata bufera di passione" - e per la scelta di "spendere
soldi tuoi, senza appoggiarti a case editrici e centri di diffusione. Ne
consegue che i tuoi scritti restano in brevi cerchie concluse". E la
postilla conclude: "Penso che tu abbia adottato e prosegui questo metodo
perche' non vuoi che la tua opera venga sfruttata dalla solita immonda
canaglia contro il partito e il movimento operaio. E te ne faccio grande
merito". Era anche questo un mentire consapevole, non scevro di accenti
minacciosi: Corneli non desiderava l'inserimento nel volume della lettera di
Terracini, e avversava l'idea delle brevi cerchie concluse. Rientrato in
Italia, aveva invano tentato di pubblicare i suoi ricordi, ed era stato
respinto dalle maggiori case editrici: da Rizzoli l'8 settembre del 1970, da
Mondadori il 9 ottobre del 1970, da Rusconi il 5 maggio del 1973. Assai piu'
facile e naturale era stato uscire in Francia, dove il manoscritto venne
accolto con entusiasmo da un autorevole editore, e pubblicato nel 1979.
Condividere l'idea di una somiglianza fra le due utopie mortifere del
Novecento - quella nazi-fascista e quella comunista - era e resta ben piu'
arduo in Italia, dove non si sono fatti i conti con il passato mussoliniano,
con le robuste affinita' iniziali tra partito fascista e comunista, con il
fenomeno dei fascisti rossi, con l'interruzione dell'attivita' resistenziale
imposta da Togliatti durante il patto Hitler-Stalin, con il dispregio che il
segretario generale mostro' di possedere per le vite umane, per le norme
dell'amicizia, per le regole basilari di civile decenza.
*
L'intelligencija benpensante non ebbe nulla da dire quando fu rivelato
l'atteggiamento del leader comunista verso gli alpini dell'Armata italiana
in Russia (Armir), che sul fronte del Don erano stati catturati
dall'esercito sovietico, nel gennaio-febbraio 1943, e spediti in gran numero
nei Lager siberiani. "La nostra posizione di principio rispetto agli
eserciti che hanno invaso l'Unione Sovietica e' stata definita da Stalin e
non vi e' piu' niente da dire", aveva scritto Togliatti il 15 febbraio 1943
a Vincenzo Bianco, delegato italiano presso l'Internazionale, in una lettera
rinvenuta quasi cinquant'anni dopo dallo storico Franco Andreucci
nell'Archivio di storia contemporanea a Mosca. E ancora: "Io non sostengo
affatto che i prigionieri si debbano sopprimere, tanto piu' che possiamo
servircene per ottenere certi risultati in un altro modo; ma nelle durezze
oggettive che possono provocare la fine di molti di loro, non riesco a
vedere altro che la concreta espressione di quella giustizia che il vecchio
Hegel diceva essere immanente in tutta la storia". La lezione che se ne puo'
trarre e' che i crimini del Gulag non sono remoti: riguardano l'Italia
direttamente. E non concernono soltanto il suo comunismo ma le sue elite
intellettuali, che regolarmente - per mimetismo, per paura della solitudine,
per ammirazione della forza - stanno in silenzio al cospetto di simili
scandali e complicita' nel delitto. La lettera di Togliatti non fu resa
pubblica in anni difficili.
Apparve sui giornali nel febbraio 1992, piu' di due anni dopo la caduta del
Muro, quando il Pci gia' era Pds. L'indignazione duro' meno di un mese,
mescolata a un taciturno imbarazzo generale, fino a quando sopraggiunse la
rivelazione che seppelli' l'evento e lo cancello'. Togliatti non aveva
scritto la lettera in quel modo: non aveva detto "il divino Hegel", ma "il
vecchio Hegel". Non aveva scritto "nelle durezze oggi che possono
provocare", ma "nelle durezze oggettive che possono provocare", e via
spadroneggiando sulle parole. Tutto era perfettamente eguale a prima e al
tempo stesso era affatto diverso: "La questione e': chi e' che comanda -
ecco tutto". La storia fini' con l'ostracismo dello studioso che aveva mal
copiato negli archivi moscoviti, e con una risentita, autocompiaciuta
dichiarazione di Achille Occhetto, che chiedeva "pubbliche scuse" e accusava
gli storici di "fare il lavoro dei servizi segreti". Lo sforzo di
introspezione di Solzenicyn, abbattuto dalla propria indifferenza al
supplizio del soldato vlasoviano, non aveva qui ragione di sussistere.
"Qualunque ufficiale di qualunque esercito sulla terra investito di potere
avrebbe dovuto fermare quel supplizio contrario a ogni legge. Qualunque
ufficiale, si', ma uno dei nostri?".
*
Ci si puo' domandare a cosa serva oggi una lettura di Solzenicyn. In Europa
orientale il comunismo si e' spento, l'impero sovietico non e' piu' quello
degli Anni Settanta, e il clima in Occidente e' cambiato in profondita'.
Intellettuali e partiti di sinistra hanno abbandonato i miraggi di ieri,
fino a confondersi quasi con le destre, e da questo punto di vista Francois
Furet non si puo' dire abbia avuto torto: l'illusione totalitaria ha fatto
fallimento, i suoi tempi sono tramontati. Oggi sembra evidente quel che
racconta lo scrittore russo, e incontrovertibili i mali che mette in luce.
D'altronde lo sono sempre, e di fronte a una persona umana ferita,
dolorante, uccisa, non e' possibile dire: "Non esiste". Il bene collettivo
e' confutabile - c'e' sempre qualcuno che ha una sua idea discordante del
bene, del buono - ma i mali e gli orrori non lo sono mai, quando li rinvieni
o li soffri: sono veri assolutamente, come dice Karl Popper.
Tuttavia sembra non ci sia nulla di piu' arduo dell'evidenza, di meno
acquisito dell'inconfutabile. L'uomo riesce a non credere nell'oggettivita'
del male che pure percepisce, riesce a nasconderlo, a nasconderselo, e per
questo e' importante leggere ancor oggi Solzenicyn: per ricostruire un'epoca
che non volle riconoscere l'Arcipelago, e per comprendere le ragioni che in
ogni momento possono spingere uomini responsabili a vivere e parlare come se
la verita' non fosse stata detta, resa manifesta. Da questo punto di vista
l'Arcipelago mantiene la sua esemplarita', quali che siano i successivi
itinerari e le involuzioni del suo autore, divenuto nel frattempo piu'
slavofilo e nazionalista di quanto sia nel libro. Esemplare resta il suo
metodo, che e' quello di esaminare le sciagure totalitarie partendo
dall'esame di se stessi, dallo sguardo attento, spesso spietato, gettato
sulle proprie omissioni, i propri silenzi, le proprie rassegnazioni precoci.
Apprendere tale sguardo sul male, imparare la saggezza di chi dice Madame
Bovary sono io, e' utile per chiunque, compresi i giovani che non hanno
conosciuto la forza delle menzogne comuniste e non hanno avuto a che fare
con il golgota della Lubjanka. Questo non e' un libro per rileggere da
lontano quel che accadde lungo piu' di sette decenni, ma per imparare a
leggere il presente e a pensare il futuro tenendo a mente l'attualita' del
mondo di ieri.
Per rammentare come puo' aprirsi la strada che dall'indifferenza
consenziente conduce alla coscienza, come avviene il passaggio dalla
depravazione dell'inerzia alla elevazione e all'ascesa. La requisitoria e le
documentazioni dell'Arcipelago sono tuttora compagne di vita, e sono utili
anche all'Europa che sta riunificandosi con la sua parte orientale, perche'
le esperienze dei dissidenti rappresentano un patrimonio inestimabile per la
costruzione delle democrazie. In molte occasioni - come nella guerra
panserba nei Balcani, in quella contro la Cecenia, nello sforzo ucraino di
preservare la propria autonomia da Mosca - l'Europa dell'Est ha mostrato
piu' sensibilita' delle democrazie liberali, ed e' divenuta la coscienza
morale dell'Europa. E' quel che disse Solzenicyn, nel suo discorso
all'Universita' di Harvard del 1978: "Sei decenni per il nostro popolo, e
tre per i popoli dell'Europa orientale, sono stati una scuola di
spiritualita' incomparabilmente piu' alta di quella conosciuta
dall'Occidente".
L'esperienza del male diventa in tal modo scuola spirituale, e criterio di
giudizio indispensabile per la costruzione di una civilta'. E' l'unica
certezza assolutamente inconfutabile, che una societa' regolata da leggi
possa avere. L'Arcipelago parte da qui, consigliando questo tipo di
tirocinio e respingendo le utopiche visioni di una felicita' universalmente
realizzata. Il coro di zek che attraverso Solzenicyn riconquista la parola
prende commiato per sempre da due secoli di illusioni sul progresso
ineluttabile dell'umanita', e sull'automatico perfezionamento civile
prodotto dai trionfi e dalle feste rivoluzionarie della Ragione. Oggi non e'
piu' possibile dire, senza pensare ai Lager, quel che Saint-Just proclamo'
dalla tribuna della Convenzione, il 3 marzo del 1794: "La felicita' e'
un'idea nuova in Europa". Simili annunci mettono paura, dietro di essi gia'
si intravede l'ombra del tiranno.

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LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA
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Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 171 del 6 luglio 2008

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