Minime. 505



NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 505 del 3 luglio 2008

Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca
per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Sommario di questo numero:
1. Verso una campagna nonviolenta per contrastare il razzismo e i poteri
criminali. Con un programma costruttivo e rigore e coerenza nei mezzi e nei
fini
2. Vincenzo Spadafora: Dalla parte dei bambini rom
3. Stefano Rodota': La schedatura etnica
4. Adriano Prosperi: Una misura razzista
5. Roberto Esposito: Corpi rubati
6. Giovanni Bianconi: Pruriti razzisti
7. Simone Weil: Un paradosso
8. La "Carta" del Movimento Nonviolento
9. Per saperne di piu'

1. EDITORIALE. VERSO UNA CAMPAGNA NONVIOLENTA PER CONTRASTARE IL RAZZISMO E
I POTERI CRIMINALI. CON UN PROGRAMMA COSTRUTTIVO E RIGORE E COERENZA NEI
MEZZI E NEI FINI

Questo occorre: una campagna nonviolenta per contrastare il razzismo e i
poteri criminali. Con un programma costruttivo e rigore e coerenza nei mezzi
e nei fini.
Questo occorre: che la nonviolenza si dispieghi come la politica necessaria.
Questo occorre: difendere i diritti umani e la dignita' umana di ogni essere
umano; applicare il dettato della Costituzione della Repubblica Italiana e
della Dichiarazione universale dei diritti umani anche dal nostro paese
sottoscritta.
Questo occorre: salvare l'umanita', l'umanita' come insieme del genere
umano, l'umanita' come integralmente incarnata in ogni singolo essere umano,
l'umanita' come sentimento del nostro consistere e vivere e convivere ed
avere e reciprocamente donarsi senso, conoscenza, comprensione,
misericordia, solidarieta'.
Solo la nonviolenza puo' salvare l'umanita'.

2. DOCUMENTAZIONE. VINCENZO SPADAFORA: DALLA PARTE DEI BAMBINI ROM
[Dal quotidiano "Il manifesto" del primo luglio 2008 col titolo "Dalla parte
dei bambini rom".
Vincenzo Spadafora e' presidente dell'Unicef Italia]

L'eco che sta avendo la posizione assunta dall'Unicef Italia rispetto ai
provvedimenti annunciati dal governo sulla "schedatura" dei bambini rom, e
la conseguente mobilitazione di opinioni nazionali ed internazionali, ha
come obiettivo unico ed ultimo l'inviolabilita' dei diritti dei minori, la
indiscriminata tutela della loro esistenza.
La nostra non e' e non vuole essere una battaglia politica, bensi' un modo
per rimettere al centro alcune priorita' che la politica stessa, troppo
spesso e a prescindere dal colore partitico, parrebbe dimenticare.
Soprattutto quando si tratta di bambini. Per questo riteniamo che la strada
intrapresa dal governo sia errata. Non come un assoluto pregiudiziale, ma
come una considerazione che puo' essere corretta nel merito, ma
profondamente distorta nel metodo. L'esigenza e' di tutta evidenza:
garantire piu' sicurezza ai cittadini. La schedatura dei bambini rom e' la
soluzione?
Riteniamo di no. Innanzitutto perche' quella schedatura, di per se',
costituisce un provvedimento discriminatorio.
E' vero, come sottolineato dal governo, che questi bambini vivono in
condizioni al limite dell'umanita'. Ma e' altrettanto vero che essi stessi
sono le prime vittime della violenza, dell'insicurezza e finanche dello
sfruttamento, per biechi scopi di accattonaggio.
Puo' una schedatura, e quindi una misura meramente repressiva, avere
l'effetto di emancipare la loro condizione? O a questo ragionamento manca
piuttosto la pars costruens?
Noi riteniamo di si'. Ed e' su questi punti che vorremmo dialogare,
ribadendo la nostra assoluta disponibilita'.
Sarebbe utile confrontarsi sul come garantire a tutti i bambini il diritto
allo studio e l'accesso alle cure sanitarie, prestando attenzione
all'attuazione uniforme di tali diritti su tutto il territorio nazionale;
sarebbe utile confrontarsi su come favorire l'inserimento scolastico degli
alunni di origine straniera; sarebbe importante capire come valorizzare la
formazione del personale che a vario titolo lavora con i bambini e gli
adolescenti di origine straniera per favorire un approccio sensibile alla
diversita' culturale; sarebbe utile rafforzare servizi adeguati che possano
portare alla possibilita' di ricorrere senza alcuna discriminazione rispetto
ai minorenni italiani a misure alternative al carcere, qualora bambini rom
si rendano protagonisti di azioni in contrasto con la legge.
L'Italia non adotta un Piano nazionale dell'infanzia dal 2004; il che vuol
dire che manca lo strumento che dovrebbe invece raccogliere in modo
coordinato e integrato le azioni che il governo dovrebbe porre in essere per
incidere concretamente sui problemi dei minori nel nostro Paese.
L'approvazione del Piano e' certamente una priorita' cosi' come lo e'
l'istituzione del Garante nazionale per l'infanzia e l'adolescenza come
struttura indipendente di monitoraggio e di promozione dei diritti umani.
Ci siamo battuti, soprattutto nel nostro Paese, affinche' la Convenzione
internazionale sui diritti dell'infanzia fosse approvata dalle Nazioni Unite
e poi ratificata dai governi. E non abbiamo mai smesso di batterci affinche'
la Convenzione divenisse soprattutto un patrimonio culturale per tutti i
cittadini, per l'opinione pubblica e ispirasse costantemente le azioni delle
istituzioni e di tutti quei soggetti le cui scelte incidono sulla qualita'
della vita e sul benessere di ogni bambino, garantendo a tutti gli stessi
diritti.
Non possiamo permetterci di fare passi indietro. Non e' pensabile che
traguardi culturali che ritenevamo ormai raggiunti possano nuovamente essere
messi in discussione.

3. RIFLESSIONE. STEFANO RODOTA': LA SCHEDATURA ETNICA
[Dal quotidiano "La Repubblica" del primo luglio 2008 col titolo "La
schedatura etnica" e il sommario "Cosi' si crea una scia continua d'ogni
nostro passaggio: l'aver guidato un'auto, o aperto una porta, consente di
ricostruire le nostre mosse a chiunque sia in possesso delle nostre
impronte. Cade l'antica premessa dell'habeas corpus, l'impegno sovrano a
'non metter mano' su un corpo che oggi non possiamo intendere solo nella sua
fisicita'. La societa' del controllo e la democrazia inquinata. Dopo il caso
dei bambini rom, esploso con la proposta di identificarli tramite i
polpastrelli, ci si interroga su certe tecniche di riconoscimento che
violano la dignita' umana".
Stefano Rodota' e' nato a Cosenza nel 1933, giurista, docente
all'Universita' degli Studi di Roma "La Sapienza" (ha inoltre tenuto corsi e
seminari nelle Universita' di Parigi, Francoforte, Strasburgo, Edimburgo,
Barcellona, Lima, Caracas, Rio de Janeiro, Citta' del Messico, ed e'
Visiting fellow, presso l'All Souls College dell'Universita' di Oxford e
Professor alla Stanford School of Law, California), direttore dele riviste
"Politica del diritto" e "Rivista critica del diritto privato", deputato al
Parlamento dal 1979 al 1994, autorevole membro di prestigiosi comitati
internazionali sulla bioetica e la societa' dell'informazione, dal 1997 al
2005 e' stato presidente dell'Autorita' garante per la protezione dei dati
personali. Tra le opere di Stefano Rodota': Il problema della
responsabilita' civile, Giuffre', Milano 1964; Il diritto privato nella
societa' moderna, Il Mulino, Bologna 1971; Elaboratori elettronici e
controllo sociale, Il Mulino, Bologna 1973; (a cura di), Il controllo
sociale delle attivita' private, Il Mulino, Bologna 1977; Il terribile
diritto. Studi sulla proprieta' privata, Il Mulino, Bologna 1981; Repertorio
di fine secolo, Laterza, Roma-Bari, 1992; (a cura di), Questioni di
Bioetica, Laterza, Roma-Bari, 1993, 1997; Quale Stato, Sisifo, Roma 1994;
Tecnologie e diritti, Il Mulino, Bologna 1995; Tecnopolitica. La democrazia
e le nuove tecnologie della comunicazione, Laterza, Roma-Bari, 1997;
Liberta' e diritti in Italia, Donzelli, Roma 1997. Alle origini della
Costituzione, Il Mulino, Bologna, Il Mulino, 1998; Intervista su privacy e
liberta', Laterza, Roma-Bari 2005; La vita e le regole, Feltrinelli, Milano
2006]

Solo nelle apparenze le impronte digitali possono essere definite uno
strumento neutrale. Hanno un forte valore simbolico: chi le raccoglie sembra
quasi che si impadronisca del corpo altrui. Esprimono politiche di controllo
generalizzato o fortemente aggressive verso gruppi determinati. Possono
entrare in conflitto con principi costituzionali fondamentali, come il
rispetto della dignita' della persona e l'eguaglianza. Per questo i
legislatori hanno sempre considerato con prudenza la loro raccolta, hanno
cercato di ancorarla a situazioni eccezionali o comunque specifiche,
testimoniando cosi' una sorta di cattiva coscienza o una consapevolezza dei
rischi di stigmatizzazione sociale legati a forme generalizzate di uso delle
impronte.
I segni d'identita' e le regole della loro utilizzazione hanno una lunga
storia che, nell'eta' moderna, si lega profondamente alle esigenze d'ordine
pubblico. Cosi' e' per il nome e per tutte le altre tecniche di
identificazione, che hanno conosciuto una straordinaria espansione grazie
alla biometria e alla genetica. Una espansione divenuta torrenziale dopo
l'11 settembre. Le esigenze di lotta al terrorismo sono state dilatate al di
la' del ragionevole, hanno visto il congiungersi dei piu' diversi strumenti
nel costruire una societa' del controllo. Cosi' muta profondamente il
rapporto tra lo Stato e le persone, cade l'antica promessa dell'habeas
corpus, l'impegno sovrano a "non mettere la mano" su un corpo che oggi non
possiamo intendere solo nella sua fisicita', ma nell'intera dimensione
costruita dall'accumulo di tecnologie che lo segmentano, lo riducono al
segno d'un polpastrello, alla scansione dell'iride, alla traccia del Dna. Il
mutamento, dunque, non si ferma al rapporto con lo Stato. Cambia il modo
stesso d'intendere la persona, parcellizzata e sempre disponibile per chi
voglia impadronirsi dei suoi frammenti, per identificarla, controllarla,
discriminarla.
E' un contesto nuovo che dobbiamo considerare, dove la tecnica delle
impronte digitali non e' affatto poco invasiva, assolutamente sicura. Le
impronte digitali creano una scia continua d'ogni nostro passaggio: l'aver
guidato un'auto, aperto una porta, preso un bicchiere, letto un libro o
usato un computer consentono di ricostruire le nostre mosse a chiunque sia
in possesso della nostra impronta. Non e' cosi' se si adotta un altro
criterio di identificazione come la scansione dell'iride: non lasciamo
tracce quando guardiamo un oggetto, leggiamo un giornale. Apparentemente
meno invasiva, la raccolta delle impronte produce una cascata di effetti
sociali che mettono la persona nelle mani di una serie di possibili
controllori.
E' una tecnica sicura alla quale ricorrere, ad esempio, per sostituire il
codice segreto per accedere a un bancomat, evitando cosi' i rischi del furto
di identita'? No. Se qualcuno "ruba" il mio codice segreto, posso sempre
sostituirlo con uno nuovo e continuare cosi' a utilizzare il bancomat. Ma se
il furto riguarda l'impronta digitale, poiche' questa non e' sostituibile,
l'effetto e' drammatico: saro' escluso da tutti i sistemi fondati
sull'identificazione attraverso l'impronta. Non e' una ipotesi azzardata.
Sappiamo ormai che le impronte sono riproducibili e falsificabili, tanto che
qualche mese fa un gruppo di hacker tedeschi ha messo in circolazione con la
rivista "Die Datenschleuder" una strisciolina di plastica dov'e' riprodotta
l'impronta digitale del ministro dell'Interno Wolfgang Schauble, un fanatico
dei sistemi di controllo. Dunque la tecnica delle impronte digitali non solo
non e' sicura ma, sfidata com'e' anche dalle tecnologie della
falsificazione, diviene pericolosa, rendendo possibile la disseminazione
delle impronte all'insaputa dell'interessato, in occasioni e luoghi che
questi non ha mai frequentato.
La prudenza tecnica dovrebbe suggerire la prudenza politica, virtu' perduta
in molti paesi, e con particolare intensita' in Italia. La tecnologia,
vecchia o nuova, e' ormai intesa come la via regia per la soluzione di ogni
problema, abbandonando qualsiasi scrupolo e contribuendo cosi' a
deresponsabilizzare e disumanizzare l'agire politico. Si va a frugare in
qualsiasi normativa, senza pudore e intelligenza interpretativa del
contesto, per concludere che e' legittimo ricorrere alle impronte digitali
praticamente in ogni caso, con appigli labili o con l'ipocrita argomento del
"bene" della persona. Tutto e' ridotto a questione d'ordine pubblico, e
cosi' puo' cadere a proposito anche un richiamo a norme fasciste in materia
di pubblica sicurezza, emanate dopo che perfino Alfredo Rocco, l'autore del
codice penale del 1930, aveva preferito tacere su un punto cosi' delicato.
Da allora non e' cambiato nulla? Quanto contano la Costituzione, il valore
della persona, tante volte invocato dai politici del centrodestra, pronti
tuttavia a scordarsene proprio nelle situazioni in cui dovrebbe essere il
primo riferimento? E' inaccettabile che si confezioni un patchwork di norme
scritte in varie epoche e con finalita' persino contrastanti, rivolte a
destinatari diversi, per dare base legale a una iniziativa che e' una
schedatura su base etnica. Dalla Costituzione italiana del 1948 fino alla
Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea tutti i documenti in
materia di liberta' e diritti sono fermissimi nell'escludere ogni
discriminazione basata sulla razza. Invece, e' proprio quello che sta
accadendo. La proclamata finalita' di assicurare ai bambini rom il rispetto
dell'obbligo scolastico, una abitazione decente, la liberta' dello
sfruttamento riguarda una condizione minorile che tocca drammaticamente
migliaia di altri bambini. Un solo esempio. L'evasione dalla scuola
dell'obbligo e' dell'8% su scala nazionale e arriva al 16 nelle grandi
citta' del Sud. Isolare in questo universo soltanto i rom significa operare
una selezione su base etnica, che viola l'eguaglianza e ferisce la dignita'.
Quando, nel 1949, si scrisse la costituzione della nuova Germania, si volle
che il suo primo articolo fosse cosi' concepito: "La dignita' umana e'
inviolabile". Si abbandonava una tradizione che apriva le costituzioni con
il riferimento alla liberta' e all'eguaglianza proprio perche' si voleva
reagire all'aspetto del nazismo che piu' aveva negato l'umano, la
persecuzione razziale e la riduzione delle persone a cavie per la
sperimentazione.
Il principio di dignita', che dovrebbe essere la misura e il limite d'ogni
intervento legislativo, viene cancellato da qualche circolare ministeriale.
Questo non ferisce soltanto i rom, adulti o bambini che siano, quando li si
obbliga a dare le loro impronte. Corrompe il nostro tessuto sociale e
culturale. Se il governo istituisce commissari speciali per i rom e attua
per questi una schedatura speciale, legittima e rafforza la stigmatizzazione
che gia' li colpisce. L'"altro" impersona ufficialmente un pericolo, e
dunque tacciano per lui le garanzie costituzionali, i principi di civilta'.
Si allarga il fossato tra le persone "perbene" e tutti gli altri, proprio
la' dove il dialogo e' l'unica via per produrre vera sicurezza ed evitare
che tutti divengano barbari.

4. RIFLESSIONE. ADRIANO PROSPERI: UNA MISURA RAZZISTA
[Dal quotidiano "La Repubblica" del primo luglio 2008 col titolo "Perche'
zingari ed ebrei sono vittime predestinate. Il volto banale della
xenofobia".
Adriano Prosperi, nato a Cerretto Guidi (Firenze) nel 1939, docente di
storia moderna all'Universita' di Pisa, ha insegnato nelle Universita' di
Bologna e della Calabria; collabora a riviste storiche tra le quali
"Quaderni storici", "Critica storica", "Annali dell'Istituto italo-germanico
in Trento" e "Studi storici"; si e' occupato nei suoi studi di Storia della
Chiesa e della vita religiosa nell'eta' della Riforma e della Controriforma;
negli ultimi anni ha rivolto un'attenzione particolare alle strategie di
disciplinamento delle coscienze e di regolazione dei comportamenti
collettivi, messe in atto dalle istituzioni ecclesiastiche nell'Italia
post-tridentina. Tra le opere di Adriano Prosperi: Tra evangelismo e
Controriforma: Gian Matteo Giberti (1495-1543), Roma 1969; (con Carlo
Ginzburg), Giochi di pazienza, Torino 1975; Tribunali della coscienza:
inquisitori, confessori, missionari, Torino 1996; L'eresia del Libro Grande.
Storia di Giorgio Siculo e della sua setta, Milano 2000; Dalla Peste Nera
alla guerra dei Trent'anni, Torino 2000; Il Concilio di Trento: una
introduzione storica, Torino 2001; L'Inquisizione romana. Letture e
ricerche, Roma 2003; Dare l'anima, Torino 2005]

Rilevare le impronte ai bambini degli zingari e' una misura razzista. Le
proteste del ministro che le propone e dei molti che silenziosamente o
rumorosamente le approvano ci mettono davanti al volto autentico del
razzismo.
Che non e' quello mostruoso e abnorme che ci piace immaginare per nostra
tranquillita': e' quello pulito e rispettabile di tanti buoni padri di
famiglia amanti della natura, dei cani e dei bambini, bene intenzionati nei
confronti dell'umanita', decisi a isolare, rieducare o sopprimere le frange
irregolari, sporche, malate, deformi. Una parola dal suono e dal significato
benevolo riassume tutto questo: eugenetica. Basta visitare musei e centri di
ricerca nelle capitali della scienza medica tedesca per trovarci davanti ai
documenti lasciati negli anni dalla volonta' di selezionare e migliorare la
specie umana. Eppure, come da sempre accade quando si parla di zingari,
ebrei e altre vittime predestinate del razzismo, chi propone o difende certe
misure non vuole che lo si definisca razzista.
Ma la storia puo' aiutare a togliergli qualche illusione. Anche a un esame
rapido e superficiale emerge che le misure scientifiche applicate al corpo
umano sono una cosa diversa e recente, che spicca nel percorso millenario
delle barriere di artificiali differenze alzate tra "noi" e "gli altri".
All'inizio ci furono quelle linguistiche. Sono l'esito piu' antico del
tentativo di porci al di sopra di altri gruppi umani: "noi" parliamo, "gli
altri" farfugliano, balbettano sillabe incomprensibili. Per questo li
abbiamo chiamati "barbari". Poi ci furono le barriere religiose: con
l'avvento in Europa del cristianesimo come religione universale e
obbligatoria, gli "altri" sono diventati gli "infedeli" se al di la' dei
nostri confini, gli "eretici" o i "giudei" se all'interno. Bisogno'
individuarli per impedire loro di contaminarci: le mura dei ghetti e un
panno giallo sul cappello o una stella di David per gli ebrei, una tunica
nera coi diavoli dipinti sopra per gli eretici. Se l'eretico o il
giudaizzante finiva sul rogo, l'abitello restava appeso in luogo sacro a
perpetuare la memoria e l'infamia. Oggi ne rimane qualcuno nei musei,
documento di un passato lontano.
Ma prendere le impronte digitali e' cosa diversa.
Sir Francis Galton, il grande scienziato inglese cugino di Darwin e autore
di un'opera fondamentale sulla classificazione delle impronte digitali
(Fingerprints, 1892), non era razzista. Credeva nella scienza e nelle
possibilita' di sviluppo dell'intelletto umano. E tuttavia il metodo della
rilevazione delle impronte trovo' la sua prima applicazione nel 1897 in
un'area dove la civilta' occidentale era decisa a modificare una cultura
diversa: lo uso' un ufficiale di polizia inglese nel Bengala. Dunque fin
dall'inizio un metodo nato nell'ambito della ricerca scientifica fu usato su
di un popolo dominato dall'Occidente e divenne lo strumento poliziesco per
l'identificazione dei criminali. Da allora le tecniche di misurazione dei
corpi e di individuazione delle differenze dalla cosiddetta "normalita'" si
sono prestate all'impiego in funzione della selezione delle "razze" buone e
dell'eliminazione di quelle "cattive". Come ha spiegato il maggiore storico
del razzismo moderno, George Mosse, nel mondo contemporaneo il razzismo
tende a diventare il punto di vista della maggioranza. E' un modo di vedere
le cose che si e' impadronito di idee di uomini di scienza non razzisti e le
ha usate per imporre l'ideale di rispettabilita' borghese e di moralita'
della classe media, fatto di pulizia, onesta', serieta' morale, duro lavoro
e vita familiare. Chi si distacca da quell'ideale e' considerato un diverso,
un essere pericoloso, un criminale in potenza. La sua esistenza e' un
attentato alla salute del corpo sociale, quell'individuo collettivo, quella
entita' gigantesca, preziosa, di cui siamo le membra e che siamo tenuti a
proteggere. Se si puo' isolare scientificamente la diversita' - ecco il
sogno del razzista - il pericolo si puo' eliminare. Perche' criminale si
nasce, non lo si diventa. Come scrisse nel 1938 un avvocato tedesco
destinato a grande fortuna, Hans Frank, "la biologia criminale, o teoria
della delinquenza congenita, indica l'esistenza di un nesso tra decadimento
razziale e tendenze criminali". Ecco perche' bisogna portare il bambino
figlio di zingari davanti alla macchina che registrera' le sue impronte
digitali. La sua e' una razza degenerata, decaduta, dedita al nomadismo,
all'alcoolismo, al furto. Lui non lo sa, ma noi si'. Prima o poi quella
traccia schedata dalla polizia (o dai vigili? a loro la risposta) si
rivelera' utile. L'occhio della legge non lo perdera' di vista.
Gia', l'occhio. La Giustizia ha tanti occhi e tante orecchie. Si discute da
millenni se sia piu' importante l'udito o la vista. C'e' chi l'ha
rappresentata con la benda sugli occhi, in modo da garantire l'uguaglianza
di trattamento a chi e' ricco e a chi e' povero, ai potenti e ai miserabili.
Oggi la Giustizia italiana apre tutti i suoi occhi per guardare i bambini
zingari mentre chiude gli occhi e si tura le orecchie davanti ad alcuni
potenti. E' un fatto nuovo e originale. Si prendano dunque le impronte
digitali agli zingari e ai loro bambini. Nelle linee della mano le zingare
hanno letto per secoli il nostro destino, ora e' venuto il tempo di leggere
e decidere il loro. Quanto ai bambini, ci dicono che e' per proteggerli. Non
per tutti sara' possibile: quella bambina a cui fu messa in mano una bambola
esplosiva le dita non ce le ha piu'.

5. RIFLESSIONE. ROBERTO ESPOSITO: CORPI RUBATI
[Dal quotidiano "La Repubblica" del primo luglio 2008 col titolo "Potere e
microchip" e il sommario "Scansione dell'iride dell'occhio, registrazione
della traccia vocale, geometria della mano, rilevazione satellitare di ogni
movimento... rispetto a queste tecniche biometriche il rilevamento delle
impronte appare una procedura perfino arcaica. L'idea di sovranita' e' oggi
messa in crisi. La biopolitica e i corpi rubati".
Roberto Esposito, filosofo della politica, docente universitario, saggista.
Dall'Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche riprendiamo la
seguente scheda (ormai risalente ad alcuni anni fa): "Nato nel 1950, Roberto
Esposito si e' laureato in filosofia presso la Facolta' di lettere e
filosofia dell'Universita' 'Federico II' di Napoli. Attualmente e'
professore ordinario di Storia delle dottrine politiche presso la Facolta'
di scienze politiche dell'Istituto universitario orientale di Napoli nonche'
direttore del Dipartimento di filosofia e politica dello stesso Istituto. E'
stato direttore responsabile e membro della direzione della rivista di
filosofia politica 'Il Centauro', dal 1981 fino alla chiusura della testata
nel 1986. E' condirettore della rivista 'Filosofia politica' dalla sua
fondazione nel 1987, ed e' stato tra i fondatori del Centro per la ricerca
sul lessico politico europeo (con sede a Bologna). E' consulente editoriale
e scientifico della rivista 'Micromega', dirige la collana di filosofia
politica 'Teoria e oggetti' delle edizioni Liguori e condirige la collana
'Per la storia della filosofia politica' per l'editore Franco Angeli.
Collabora con Einaudi, Il Mulino, Bollati Boringhieri, Bruno Mondadori e
Donzelli. La prima fase della sua produzione, dopo una serie di saggi
giovanili, dedicati alla letteratura italiana tra gli anni Trenta e Sessanta
di questo secolo, comprende i tre volumi: Vico e Rousseau e il moderno Stato
borghese, De Donato, Bari 1976; La politica e la storia. Machiavelli e Vico,
Liguori, Napoli 1980; Ordine e conflitto. Machiavelli e la letteratura
politica del Rinascimento, Liguori, Napoli 1984; Categorie dell'Impolitico,
Il Mulino, Bologna 1988; Nove pensieri sulla politica, Il Mulino, Bologna
1993; L'origine della politica. Hannah Arendt o Simone Weil?, Donzelli, Roma
1996; Communitas: origine e destino della comunita', Einaudi, Torino, 1998.
Ha curato: La pluralita' irrappresentabile: il pensiero politico di Hannah
Arendt, Quattro venti, Urbino 1987. Va inoltre segnalata un'antologia del
pensiero "impolitico" dal titolo Oltre la politica, Bruno Mondadori, Milano
1996. Il presupposto della sua ricerca filosofica e' costituito dal
rilevamento della consunzione del tradizionale lessico della politica e
dalla consapevolezza della necessita' di una sua diversa formulazione. Tale
formulazione, tuttavia, non conduce ad un abbandono definitivo delle grandi
parole della filosofia politica occidentale, ma si orienta ad un confronto
storico e teoretico con esse, elaborando un'interrogazione radicale delle
categorie politiche classiche con l'attenzione rivolta al loro lato ancora
'impensato'. Ne risulta un panorama interpretativo situato all'incrocio di
campi concettuali e linguistici differenti: la filosofia, l'antropologia, la
letteratura e la teologia. Attualmente Esposito lavora in una doppia
direzione di ricerca: da un lato una riflessione sul tema dell'origine della
politica, attraverso la disamina critica delle sue categorie, immagini, e
metafore; dall'altro una ridefinizione concettuale dell'idea di comunita' al
di fuori da qualsiasi richiamo a comunitarismi passati e presenti, rivolta
piuttosto a quegli autori - da Rousseau a Kant a Heidegger - in cui prevale
una concezione della comunita' come legge comune dell''essere-insieme', ma
anche la consapevolezza tragica della sua irrealizzabilita' politica". Tra
le opere di Roberto Esposito: Vico e Rousseau e il moderno Stato borghese,
De Donato, Bari 1976; La politica e la storia. Machiavelli e Vico, Liguori,
Napoli 1980; (con Biagio De Giovanni e Giuseppe Zarone), Divenire della
ragione moderna. Cartesio, Spinoza, Vico, Liguori, Napoli 1981; Ordine e
conflitto. Machiavelli e la letteratura politica del Rinascimento, Liguori,
Napoli 1984; Categorie dell'Impolitico, Il Mulino, Bologna 1988; Nove
pensieri sulla politica, Il Mulino, Bologna 1993; L'origine della politica.
Hannah Arendt o Simone Weil?, Donzelli, Roma 1996; (con Giulio Giorello e
Carlo Sini), Lo specchio del reame. Riflessioni su potere e comunicazione,
Longo, 1997; Communitas. Origine e destino della comunita', Einaudi, Torino
1998, 2006;  Categorie dell'impolitico, Il Mulino, Bologna 1999; Immunitas.
Protezione e negazione della vita, Einaudi, Torino 2002; Bios. Biopolitica e
filosofia, Einaudi, Torino 2004; (con Carlo Galli), Enciclopedia del
pensiero politico. Autori, concetti, dottrine, Laterza, Roma-Bari 2005;
Terza persona. Politica della vita e filosofia dell'impersonale, Einaudi,
Torino 2007; Termini della politica. Comunita', immunita', biopolitica,
Mimesis, Milano 2008]

Sorprende la sorpresa che ha suscitato l'intenzione di estendere il
rilevamento delle impronte digitali a tutti i rom, anche bambini, residenti
in Italia. Sorprende perche' essa non fa che portare alle sue logiche
conseguenze un percorso di riduzione biopolitica della democrazia che ha al
suo centro la rottura del confine tra pubblico e privato e l'assunzione del
corpo come elemento prioritario di identificazione. Cio' e' a sua volta la
conseguenza del progressivo spostamento dell'agire politico dal piano della
condivisione del potere a quello del controllo sociale e poi della
sorveglianza generalizzata.
Si tratta di una dinamica - originata ben prima dell'attentato dell'11
settembre 2001, anche se da esso accelerata - che contraddice il presupposto
fondamentale dell'ordine politico moderno, in base al quale il corpo dei
cittadini non appartiene al sovrano, bensi' al soggetto che individualmente
lo abita. E' vero che gia' a fine Settecento Bentham aveva immaginato un
dispositivo di sorveglianza a suo modo totale - il Panopticon - all'interno
del quale ciascun individuo sarebbe stato controllato in tutte le sue mosse
da un occhio che egli non poteva a sua volta vedere. Ma cio' valeva,
appunto, per dei prigionieri e non per gli uomini liberi, vincolati al
sovrano da un patto di obbedienza che non passava per la cessione del
proprio corpo, ma per un'opzione della volonta' razionale. E' in conseguenza
di tale presupposto - espresso dalla formula dell'habeas corpus - che si
costituiva una civilta' politica secolare, fondata sulla separazione tra
pubblico e privato: nulla di cio' che e' privato, come appunto il corpo,
doveva entrare nella sfera di disponibilita' del potere politico. Lo stesso
principio di uguaglianza, costitutivo dell'idea di democrazia, si basa su
questa separazione funzionale: soltanto se assunti come puri centri di
imputazione giuridica che prescinde dagli elementi corporei - e cioe'
dall'eta', dal genere sessuale, dalla provenienza etnica - i cittadini
risultano uguali davanti alla legge e ugualmente dotati di diritti politici.
Da tempo questa complessa architettura giuridica e politica mostra segni di
cedimento. A incrinarla, nella societa' globale e multietnica, sono stati a
volte gli stessi soggetti - per esempio le donne, ma anche gruppi
etnicamente definiti, che hanno rivendicato la propria differenza corporea.
Ma e' soprattutto il potere sovrano che, minacciato dall'interno e
dall'esterno dalla porosita' delle frontiere nazionali, si e' ristrutturato
potenziando sempre piu' dispositivi di controllo lesivi del principio di
uguaglianza, perche' diretti precisamente sul corpo come luogo di
incancellabile diversita'. Cio' e' stato reso possibile dall'inserimento di
un terzo elemento, la tecnica, nel punto di intersezione tra politica e
vita. Gia' l'uso del Dna ha modificato in radice i termini del processo
penale. A questo e' seguito lo stoccaggio sistematico di altri dati
estraibili dal corpo umano da parte dello Stato o anche di agenzie di
governance pubbliche o private. Scansione dell'iride dell'occhio,
registrazione della traccia vocale, geometria della mano, rilevazione
satellitare di ogni movimento, costituiscono forme di controllo biometrico
rispetto alle quali il rilevamento delle impronte appare una procedura
perfino arcaica. Gia' sono allo studio, e anzi in fase di avanzata
elaborazione, dispositivi di identificazione - come l'applicazione di
microchip subcutanei - che fanno del corpo vivente una semplice appendice
organica di un apparato di controllo sempre piu' invasivo e capillare.
Tutto cio', come si e' detto, e' il prodotto del riposizionamento del potere
sovrano all'interno degli attuali regimi biopolitici. E dunque l'esito del
processo, per certi versi inevitabile, che ha situato la vita al centro di
tutte le traiettorie dell'esperienza contemporanea. Questo non toglie che si
stia oltrepassando una soglia oltre la quale il termine stesso di democrazia
andra' radicalmente ridefinito. Il rischio maggiore e' che le stesse
procedure di sorveglianza - insieme richieste e subite dalla societa' della
paura - si capovolgano in nuovi fattori di rischio individuale e collettivo.
E cio' per un doppio motivo: intanto perche' i dispositivi biometrici di
controllo - esercitati sulle fasce piu' esposte ed emarginate di
popolazione, come appunto i piccoli rom - determinano nuovi e sempre piu'
potenti effetti di esclusione. E poi perche' la consapevolezza diffusa di
essere sospettati e sorvegliati attraverso pezzi o zone del proprio corpo,
anziche' allentare, tende ad accrescere l'inquietudine provocando sempre
nuove, e insostenibili, strategie di protezione.

6. RIFLESSIONE. GIOVANNI BIANCONI: PRURITI RAZZISTI
[Dal "Corriere della sera" del primo luglio 2008 col titolo "Le impronte e
il caso dei nomadi. E se a Duisburg schedassero gli italiani?" e il sommario
"Il bisogno di sicurezza collettiva fa concepire una operazione che consenta
di identificare chiunque, subito e con assoluta certezza. Ma perche'
fermarsi ai nomadi, con il pericolo di alimentare pruriti razzisti e senza
alcuna certezza di archiviare le tracce di tutti i possibili autori di
reati? Allora controlliamo tutti".
Giovanni Bianconi (Roma, 1960), giornalista e scrittore; per molti anni
redattore del quotidiano torinese "La stampa", attualmente e' inviato del
"Corriere della Sera", autore di vari libri d'inchiesta su rilevanti vicende
criminali. Tra le opere di Giovanni Bianconi: A mano armata, Baldini &
Castoldi, Milano 1992; Ragazzi di malavita, Baldini & Castoldi, Milano 1995;
(con Gaetano Savatteri), L'attentatuni, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2001;
Mi dichiaro prigioniero politico. Storie delle Brigate Rosse, Einaudi,
Torino 2003; Eseguendo la sentenza, Einaudi, Torino 2008]

Sulle impronte digitali dei bambini rom il ministro dell'Interno leghista
continua a ripetere che non c'e' niente di strano e tantomeno di razzista, e
che quella misura e' a protezione degli stessi ragazzini costretti a vivere
tra topi e padri-padroni. Ma ha avuto buon gioco chi ha replicato che se
davvero ci fossero quei bambini in cima ai suoi pensieri, farebbe meglio a
trovare il modo per mandarli a scuola. E non si dica che i "rilievi
segnaletici" servono a quello: magari per obbligarli a studiare in qualche
classe separata?
In realta' l'ordinanza sulle impronte prende le mosse da un decreto nel
quale il capo del governo Silvio Berlusconi ha dichiarato "lo stato di
emergenza in relazione agli insediamenti di comunita' nomadi" in tre
regioni. Un'emergenza-zingari, insomma, decisa a tavolino, vissuta e
affrontata come un problema per la nostra tranquillita', non per quella dei
bambini che abitano i campi piu' o meno abusivi. Da qui, dalle "possibili
gravi ripercussioni in termini di ordine pubblico e sicurezza per le
popolazioni locali" (come recita l'ordinanza governativa), discende quella
che inevitabilmente si trasformera' in una schedatura su larga scala, il cui
unico criterio e' quello dell'appartenenza a un'etnia. E il cui obiettivo
non dichiarato sembra quello di realizzare una "banca dati preventiva" di
potenziali autori di reati, pre-selezionati dal fatto di essere stati
sorpresi in un campo nomadi. In modo che al prossimo furto in appartamento,
con le impronte digitali si potra' piu' facilmente risalire agli autori, se
per caso quelle dei ladri coincidessero con qualcuna presente nel "grande
archivio".
I rom rubano, certo. Anche da bambini. Come rubano gli italiani, e non solo
i piu' grandi. Come rubano i polacchi, gli albanesi e tutti coloro che
decidono di farlo, indipendentemente dalla nazionalita', dal colore della
pelle, dalla religione o dai costumi. E' un problema da prevenire e
reprimere. Come? Non con misure che hanno un retrogusto razzista e possono
trasformarsi nell'anticamera di chissa' che cosa.
In Sicilia c'era e c'e' la mafia, e alcuni siciliani sono mafiosi. Hanno
commesso delitti orrendi, e hanno provocato una vera e propria emergenza
nazionale. Fino a mettere in ginocchio lo Stato, come nella stagione delle
stragi del 1992-'93. Sul luogo in cui fu fatta esplodere la bomba di Capaci
che uccise Giovanni Falcone, sua moglie e tre agenti di scorta furono
trovati dei mozziconi di sigaretta da cui fu estratto il Dna dei possibili
attentatori: a qualcuno e' mai venuto in mente, allora, di prelevare il
codice genetico di tutti i siciliani per fare il confronto? O anche solo di
quelli con un cognome diffuso tra le famiglie mafiose? E se dopo la strage
di Duisburg i tedeschi avessero deciso di prendere le impronte digitali a
tutti gli emigranti calabresi, per essere sicuri di non avere a che fare con
degli 'ndranghetisti assassini (che certo non esibiscono documenti
autentici), che cosa avrebbe detto il ministro dell'Interno italiano?
Quello attuale sostiene di "voler sapere chi c'e' in Italia, dove abita,
cosa fa e cosa fara' nei prossimi mesi". Cioe' vuole delle certezze,
anzitutto sull'identita'. Ma l'Italia e' presumibilmente affollata di gente
di malaffare che si nasconde dietro falsi nomi. Non solo extracomunitari, e
tantomeno solo "zingari". Che si fa allora, si schedano tutti? Ai tempi del
terrorismo giravano per le metropoli centinaia di militanti del "partito
armato" entrati in clandestinita', pero' nessuno ha mai pensato di prelevare
le impronte - per dire - a chi frequentava le universita' o lavorava in
certe fabbriche dove potevano proliferare i brigatisti, cosi' da avere
certezze al primo controllo di polizia. Semplicemente perche' non si puo'
criminalizzare una categoria di persone dentro la quale e' molto probabile,
o perfino sicuro, che si annidino dei criminali. Ancor meno se quella
categoria corrisponde a un'etnia, e ancor meno se la decisione comprende dei
bambini con la sola colpa di essere nati nella culla sbagliata (sbagliata
per chi e perche', poi?).
Una persona a cui e' stata presa l'impronta digitale, da quel momento mette
la propria firma su ogni oggetto che tocca, comunque e dovunque. Puo' darsi
che secondo qualcuno il bisogno di sicurezza collettiva imponga che a questo
si debba arrivare: una maxi-schedatura che consenta di identificare
chiunque, subito e con assoluta certezza. Ma allora perche' fermarsi ai
nomadi, col pericolo di alimentare pruriti razzisti e senza alcuna certezza
di archiviare le tracce di tutti i possibili autori di reati? Meglio
schedare tutti, senza distinzioni anagrafiche o etniche, cosi' almeno si
potra' dire che la misura sara' dettata dall'appartenenza all'unica razza
ammissibile: la razza umana.

7. MAESTRE. SIMONE WEIL: UN PARADOSSO
[Da Simone Weil, Quaderni IV, Adelphi, Milano 1993, p. 336.
Simone Weil, nata a Parigi nel 1909, allieva di Alain, fu professoressa,
militante sindacale e politica della sinistra classista e libertaria,
operaia di fabbrica, miliziana nella guerra di Spagna contro i fascisti,
lavoratrice agricola, poi esule in America, infine a Londra impegnata a
lavorare per la Resistenza. Minata da una vita di generosita', abnegazione,
sofferenze, muore in Inghilterra nel 1943. Una descrizione meramente esterna
come quella che precede non rende pero' conto della vita interiore della
Weil (ed in particolare della svolta, o intensificazione, o meglio ancora:
radicalizzazione ulteriore, seguita alle prime esperienze mistiche del
1938). Ha scritto di lei Susan Sontag: "Nessuno che ami la vita vorrebbe
imitare la sua dedizione al martirio, o se l'augurerebbe per i propri figli
o per qualunque altra persona cara. Tuttavia se amiamo la serieta' come
vita, Simone Weil ci commuove, ci da' nutrimento". Opere di Simone Weil:
tutti i volumi di Simone Weil in realta' consistono di raccolte di scritti
pubblicate postume, in vita Simone Weil aveva pubblicato poco e su periodici
(e sotto pseudonimo nella fase finale della sua permanenza in Francia stanti
le persecuzioni antiebraiche). Tra le raccolte piu' importanti in edizione
italiana segnaliamo: L'ombra e la grazia (Comunita', poi Rusconi), La
condizione operaia (Comunita', poi Mondadori), La prima radice (Comunita',
SE, Leonardo), Attesa di Dio (Rusconi), La Grecia e le intuizioni
precristiane (Rusconi), Riflessioni sulle cause della liberta' e
dell'oppressione sociale (Adelphi), Sulla Germania totalitaria (Adelphi),
Lettera a un religioso (Adelphi); Sulla guerra (Pratiche). Sono fondamentali
i quattro volumi dei Quaderni, nell'edizione Adelphi curata da Giancarlo
Gaeta. Opere su Simone Weil: fondamentale e' la grande biografia di Simone
Petrement, La vita di Simone Weil, Adelphi, Milano 1994. Tra gli studi cfr.
AA. VV., Simone Weil, la passione della verita', Morcelliana, Brescia 1985;
Gabriella Fiori, Simone Weil, Garzanti, Milano 1990; Giancarlo Gaeta, Simone
Weil, Edizioni cultura della pace, S. Domenico di Fiesole 1992; Jean-Marie
Muller, Simone Weil. L'esigenza della nonviolenza, Edizioni Gruppo Abele,
Torino 1994; Angela Putino, Simone Weil e la Passione di Dio, Edb, Bologna
1997; Eadem, Simone Weil. Un'intima estraneita', Citta' Aperta, Troina
(Enna) 2006; Maurizio Zani, Invito al pensiero di Simone Weil, Mursia,
Milano 1994]

Il nostro amore come la nostra ragione sono sottoposti al paradosso di
essere facolta' universali suscettibili solo di oggetti particolari.

8. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

9. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.miritalia.org; per contatti: mir at peacelink.it, luciano.benini at tin.it,
sudest at iol.it, paolocand at libero.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 505 del 3 luglio 2008

Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca
per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

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