Voci e volti della nonviolenza. 134



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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento settimanale del martedi' de "La nonviolenza e' in cammino"
Numero 134 del 15 gennaio 2008

In questo numero:
1. Hannah Arendt: Franz Kafka, il costruttore di modelli
2. Et coetera

1. HANNAH ARENDT: FRANZ KAFKA, IL COSTRUTTORE DI MODELLI
[Da Hannah Arendt, Il futuro alle spalle, il Mulino, Bologna, 1981, 1995,
pp. 23-41]

Quando Franz Kafka, un ebreo praghese di lingua tedesca, mori' di tisi
all'eta' di quarantun anni nell'estate del 1924, la sua opera era conosciuta
da una piccola cerchia di scrittori e da una ancora piu' ristretta di
lettori. Da allora la sua fama e' andata lentamente diffondendosi. Negli
anni Venti era gia' uno degli autori piu' importanti dell'avanguardia
letteraria tedesca ed austriaca, e negli anni Trenta e Quaranta le sue opere
raggiungevano ormai gli stessi strati di lettori e letterati francesi,
inglesi ed americani. La sua fortuna non ha subito flessioni durante gli
ultimi decenni e la tiratura delle sue opere non e' mai stata proporzionale
al crescente interesse che esse hanno incontrato presso i critici letterari
ne' al vasto e profondo influsso esercitato sugli scrittori del tempo. Una
caratteristica quasi esclusiva dell'influsso della prosa di Kafka e' che le
"scuole" piu' diverse abbiano cercato di rivendicare per se' il suo modello;
sembra quasi che chiunque si considerasse "moderno" non potesse
assolutamente trascurarla per l'evidente e tipico carattere di "novita'"
come fino allora non era apparso in nessun autore con la stessa intensita' e
semplicita' senza riguardi.
E' un fatto molto sorprendente perche' Kafka, a differenza di altri autori
moderni, si e' tenuto lontano da ogni manierismo ed ogni esperimento. La sua
lingua e' chiara e piana come la lingua quotidiana, purgata solo da ogni
trascuratezza e colore gergale. Il tedesco di Kafka sta all'infinita
varieta' degli stili come l'acqua a quella di tutte le bevande possibili. La
sua prosa non si distingue per nessuna particolarita', e non rivela mai
nulla di seducente o di affascinante: e' piuttosto un semplicissimo
strumento di comunicazione e, se lo si analizza, la sua unica caratteristica
e' proprio che Kafka non avrebbe potuto esprimersi in un modo piu' semplice,
piu' chiaro e piu' conciso. La mancanza di ogni manierismo sconfina quasi
nell'assenza di stile, ed il suo non-innamorarsi delle parole in quanto tali
arriva ai limiti della freddezza. Kafka non predilige parole particolari,
ne' particolari costruzioni sintattiche: ne risulta cosi' un nuovo genere di
perfezione che pare distaccarsi totalmente da tutti gli stili del passato.
Nella storia della letteratura non c'e' forse nessun esempio che dimostri
l'assurdita' della teoria del "genio incompreso" meglio di quello della fama
raggiunta da Kafka. Nella sua opera non c'e' riga o storia che abbia potuto
soddisfare nella loro ricerca di "divertimento ed insegnamento" (Broch) i
lettori formatisi nel secolo scorso. L'unica cosa dell'opera di Kafka che
possa allettare ed ammaliare il lettore e' la verita': la seduzione del suo
perfetto non-stile (ogni stile si allontana dalla verita' quanto piu' e'
magicamente seducente) ha raggiunto un grado tanto elevato da permettere che
le sue storie riescano ad affascinare il lettore anche quando egli non
arrivi ad afferrarne bene l'effettivo contenuto.
La vera arte di Kafka consiste nel fatto che il lettore rimane a lungo
ammaliato da una vaga ed indefinita magia che e' associata al limpido
ricordo di certe situazioni ed immagini. Il lettore trasferisce poi questa
magia nella sua vita in un modo tanto deciso che un giorno, facendo una
certa esperienza, improvvisamente gli si rivelera' con la forza
dell'evidenza il vero significato della storia da lui letta.
*
Der Prozess, il libro su cui sono state scritte nei due decenni trascorsi
dalla pubblicazione tante interpretazioni da riempire una piccola
biblioteca, e' la storia di K., un uomo accusato senza sapere che cosa ha
commesso, che non riesce a scoprire secondo quali leggi sia condotto il
processo e pronunciata la condanna, e che alla fine viene giustiziato senza
che sia mai venuto a sapere che cosa sia effettivamente successo. Cercando
di capire perche' si trovi in quella situazione, scopre ad un certo punto
che, dietro l'ordine di arrestarlo, "c'e' una grande organizzazione.
Un'organizzazione che alle sue dipendenze non ha solo guardiani corrotti,
sorveglianti ottusi e giudici istruttori che quando va bene sono semplici e
modesti, ma anche una magistratura di alto e sommo grado con tutto un
codazzo di intrattabili servitori, scrivani, gendarmi ed altri aiutanti, e
forse anche il boia [...] E il senso di quest'organizzazione? [...] Consiste
nell'arrestare persone innocenti e nell'istruire contro di loro processi
assurdi che nella maggior parte dei casi si concludono, come il mio, in un
nulla di fatto".
Quando K. s'accorge che tali processi, a dispetto della loro assurdita', non
sempre si concludono necessariamente senza un risultato concreto, si prende
un avvocato che con lunghi e sottili discorsi gli spiega come ci si possa
adattare a quella situazione e quanto sia irragionevole mettersi a
criticarla. Pero' K., che non vuole rassegnarsi e congeda l'avvocato,
incontra il cappellano del carcere che gli tiene una predica sulla grandezza
recondita di quel sistema e gli consiglia di non chiedersi se tutto cio' sia
vero dal momento che "non si deve ritenere tutto vero, ma soltanto
necessario". In altre parole, se l'avvocato si sforzava soltanto di
dimostrare che cosi' e' il mondo, il prete, al servizio di tale mondo, ha il
compito di provare che questo e' il suo ordine. E poiche' K. ritiene che
questa sia una "ben misera concezione" e replica: "La menzogna viene fatta
ordine universale", e' chiaro che perdera' il processo; e poiche', d'altra
parte, questo non era neppure il "suo giudizio definitivo" e aveva tentato
anzi di respingere quegli "insoliti ragionamenti" quasi fossero "cose
irreali" che in fondo non lo riguardavano, non solo perde il processo, ma lo
perde in un modo tanto infamante che alla fine, quando sara' giustiziato,
non avra' da opporre che la vergogna.
La forza della macchina che afferra ed uccide K. non e' altro che
l'apparenza della necessita', la quale puo' realizzarsi soltanto tramite
l'ammirazione degli uomini per la necessita'. La macchina si mette in moto
perche' la necessita' e' considerata qualcosa di sommo e perche' il suo
automatismo, interrotto solo dall'arbitrio, viene preso come simbolo della
necessita'. La macchina resta in moto grazie alle menzogne dette in ossequio
a questa necessita', tanto che in piena conseguenza un uomo che non si
assoggetta a questo "ordine universale", cioe' a questa macchina, viene
considerato un criminale che agisce contro una specie di ordine divino. Per
assoggettarsi bisogna smettere di chiedersi che cosa siano la colpa e
l'innocenza e dichiararsi pronti a svolgere il ruolo assegnato dall'arbitrio
nel gioco della necessita'.
Nel caso del Prozess la sottomissione non viene raggiunto con mezzi
violenti, ma semplicemente con il crescente senso di colpa che l'accusa
vuota ed immotivata riesce a destare nell'imputato K. E' un senso di colpa
che ha le sue radici nella naturale convinzione che nessun uomo sia privo di
colpe. Per K., un impiegato di banca sempre tanto occupato da non avere
neppure il tempo di scervellarsi per tali banalita', questo senso di colpa
e' fatale: lo porta infatti a confondere il male organizzato, che
diabolicamente lo circonda, con l'espressione di quella generica colpa umana
che e' innocua e in realta' innocente se la si confronta con la malafede che
fonda "sulla menzogna l'ordine universale" facendo anche uso, ed abuso,
della giustificata umilta' degli uomini.
Al funzionamento della diabolica macchina burocratica in cui l'innocente si
trova preso si accompagna, quindi, una evoluzione interiore provocata dal
senso di colpa. Dal suo progredire il protagonista viene "educato",
modificato e formato tanto da venir adattato al ruolo che si e' escogitato
per lui e che lo rende semplice compartecipe del gioco universale della
necessita', dell'ingiustizia e della menzogna. Questo e' il modo in cui il
protagonista si adatta alla sua situazione, e questi due processi
concomitanti, l'evoluzione interiore ed il funzionamento della macchina,
s'incontrano infine nella scena conclusiva, quando K. si lascia portar via,
e poi giustiziare, senza la minima protesta o resistenza. Viene ucciso
perche' e' "necessario", e si sottomette per questa necessita' e per il
turbamento dovuto al suo senso di colpa. E la sola speranza che balena alla
fine del romanzo resta: "Era come se la vergogna dovesse sopravvivergli". La
vergogna, cioe', che tale sia l'ordine del mondo e che lui, Josef K., ne
sia, anche se vittima, un docile membro.
Gia' subito dopo la pubblicazione si comprese che Der Prozess conteneva
implicitamente una critica alla burocrazia governativa della vecchia
Austria, le cui numerose nazionalita', in conflitto fra di loro, venivano
rette da un'uniforme gerarchia di funzionari. Kafka, impiegato in una
societa' di assicurazioni sociali ed amico di ebrei dell'Europa orientale ai
quali doveva procurare i permessi di soggiorno per l'Austria, conosceva
esattamente la situazione politica del suo Paese. Sapeva bene che se uno
s'impigliava nella rete dell'apparato burocratico non aveva piu' scampo. Il
dominio della burocrazia aveva come conseguenza che l'interpretazione della
legge degenerasse in uno strumento d'arbitrio, mentre un assurdo automatismo
nei gradi inferiori dei funzionari suppliva alla cronica inettitudine degli
interpreti della legge, un automatismo cui venivano praticamente demandate
tutte le vere decisioni.
Negli anni Venti, pero', quando il romanzo apparve per la prima volta, il
vero volto della burocrazia non era ancora abbastanza conosciuto in Europa,
anche perche' essa era stata realmente fatale solo ad un numero trascurabile
di persone, e si considero' quindi immotivato e sproporzionato al suo
contenuto effettivo l'orrore per la burocrazia espresso nel romanzo. Ci si
spavento' di piu' per il romanzo che per il tema stesso, e si comincio'
cosi' a cercare altre interpretazioni, apparentemente piu' profonde, che
furono poi trovate, secondo la moda del tempo, in una cabalistica
esposizione di realta' religiose o, se si vuole, di una teologia satanica.
L'opera stessa di Kafka rende naturalmente possibili simili errori, errori
d'interpretazione che non sono meno determinanti di quelli ben piu' volgari
commessi nelle interpretazioni psicoanalitiche della sua opera. Kafka
descrive davvero una societa' che si ritiene vicaria di Dio in terra, e
rappresenta uomini che considerano le leggi di questa societa' come dei
comandamenti divini, immutabili di fronte alla volonta' umana. E proprio
tale divinizzazione del mondo e la presunzione di costituire una necessita'
divina rappresentano il male a cui gli eroi di Kafka non riescono a
sottrarsi. Egli mira a distruggere questo mondo ricalcandone l'orribile
struttura con dei tratti oltremodo chiari e contrapponendo cosi' ai diritti
umani la realta'. Ma il lettore degli anni Venti, affascinato dai paradossi
e confuso dal gioco delle contraddizioni, non voleva sentir ragioni: le sue
interpretazioni di Kafka rivelavano piu' il lettore che l'autore. Ammirando
ingenuamente il mondo che Kafka aveva presentato come orribile ed
intollerabile nelle sue descrizioni piu' che realistiche, scopriva quanto
egli fosse adatto per "l'ordine universale" ed anche quanto stretto fosse il
legame fra la cosiddetta elite e l'avanguardia di quell'ordine. Del tutto
trascurata fu, invece, l'amara e sarcastica osservazione di Kafka su quella
ipocrita necessita' e sulle necessarie menzogne che concorrono a determinare
il "carattere divino" dell'ordine mondiale, un'osservazione che e' pure la
vera chiave per decifrare chiaramente la struttura e l'azione del romanzo.
*
Il secondo grande romanzo di Kafka, Das Schloss, ci conduce nello stesso
mondo del Prozess, ma questa volta non sono piu' gli occhi di un uomo che si
e' sempre disinteressato del governo e degli altri problemi generali, e che
e' quindi in balia dell'apparente necessita', a guardare questo mondo,
bensi' gli occhi di un altro K. che ora s'avvicina volontariamente ad esso
come un estraneo col proposito di realizzare un progetto ben preciso:
trapiantarsi in un paese, diventarne cittadino, costruirsi una casa,
sposarsi, trovare un lavoro, divenire, insomma, un membro attivo della
societa' umana.
La caratteristica dello Schloss e' che il protagonista mira ai fini piu'
naturali e generali che ci siano e che lotta per conquistarsi delle cose che
sembrano essere garantite all'uomo fin dalla nascita. Mentre non richiede
che il minimo necessario per la sua esistenza, gia' dall'inizio e' chiaro
che lo esige come diritto e che non e' disposto ad accontentarsi di meno di
questo suo diritto. E' pronto ad inoltrare tutte le domande necessarie per
avere un permesso di soggiorno, ma rifiuta che gli venga concesso come
magnanima elargizione; e' pronto a cambiare il suo lavoro, ma non puo'
rinunciare ad un "lavoro regolare". Tutto questo dipende pero' dalle
decisioni del Castello, e per K. le difficolta' cominciano quando diviene
chiaro che esso soddisfa i diritti dei cittadini solo concedendo grazie come
doni o privilegi. Poiche' K. esige solo i suoi diritti e non dei privilegi,
vuole ottenere lo stesso diritto di cittadinanza degli altri abitanti del
villaggio ed essere "il piu' lontano possibile dai signori del Castello",
respinge quindi entrambi, la magnanima elargizione e ogni rapporto
privilegiato col Castello; spera cosi' che "d'un colpo si aprano per lui
tutte quelle vie che, se fosse dipeso soltanto da quei signori lassu' e
dalla loro grazia, sarebbero rimaste per sempre non solo chiuse, ma anche
invisibili".
A questo punto gli abitanti del villaggio prendono un posto di primo piano
nell'azione del romanzo. Sono sconvolti dal fatto che K. aspiri
semplicemente a diventare uno di loro, un semplice "operaio del villaggio",
e che rifiuti di entrare a far parte della classe che domina. Cercano a piu'
riprese di spiegargli che non ha nessuna esperienza del mondo e della vita,
che lui non sa ancora che la vita dipende essenzialmente dalla grazia o
dalla disgrazia, da una benedizione o da una maledizione, e che non c'e'
nulla di piu' naturale e di meno casuale della fortuna o della sfortuna. K.
non vuole rassegnarsi all'idea secondo cui, come dicono gli abitanti del
villaggio, giustizia ed ingiustizia, ossia essere nel giusto o nel torto,
sarebbero ancora una parte di quel destino che deve essere accettato e
compiuto, ma non modificato.
Solo da questo momento assume il suo vero significato l'estraneita'
dell'agrimensore K. che e' venuto da fuori: non essendo ne' un abitante del
villaggio ne' un funzionario del Castello egli vive al di fuori dei rapporti
di potere che vigono nel villaggio. Continuando a rivendicare i suoi diritti
umani, K. dimostra di essere l'unico ancora in grado di concepire una
semplice esistenza umana sulla terra. La specifica esperienza del mondo ha
insegnato agli abitanti del villaggio a considerare l'amore, il lavoro e
l'amicizia come dei doni che essi possono ricevere "dall'alto", dalle stanze
del Castello, ma di cui non possono piu' liberamente disporre. Cosi' anche i
rapporti piu' semplici sono avvolti in una misteriosa oscurita'; l'ordine
universale del Prozess compare qui sotto forma di benedizione o maledizione
cui ci si sottomette con timoroso e reverente rispetto.
Il proposito di K. di veder riconosciute sul piano della giustizia le sue
legittime aspirazioni ad una vita umana appare quindi una cosa naturale, ma
in una simile societa' rappresenta un'eccezione inaudita, uno scandalo. K.
si trova percio' costretto a lottare cosi' strenuamente per un minimo di
naturali esigenze umane quasi esse racchiudessero in se' il massimo
irraggiungibile di ogni aspirazione umana; gli abitanti del villaggio si
allontanano cosi' da lui, presentendo nelle sue richieste una "hybris" che
potrebbe compromettere tutta la loro vita. K. e' estraneo a loro non perche'
come straniero e' privato dei suoi diritti umani, ma perche' e' venuto nel
villaggio e li esige.
Sebbene gli abitanti del villaggio temano che una sventura possa abbattersi
da un momento all'altro su K., non gli succede proprio niente. K. non riesce
a conquistarsi nulla e la sua storia si conclude - secondo la versione
pensata, ma trasmessa solo oralmente, da Kafka - con una morte del tutto
naturale dovuta all'esaurimento di ogni energia. K. raggiunge, senz'averlo
voluto, un solo risultato: riesce ad aprire gli occhi ad alcuni degli
abitanti del villaggio col solo atteggiamento di condanna per tutto quello
che accade attorno a lui: "Hai una straordinaria visione delle cose [...] A
volte mi aiuti con una parola, certamente perche' vieni da fuori. Invece
noi, con le nostre terribili esperienze e continue ansie, ci spaventiamo
senza difenderci ad ogni scricchiolio, e se uno ha paura subito ce l'ha
anche l'altro pur senza sapere esattamente perche'. In questo modo non si
riesce piu' a dare una giusta valutazione delle cose. [...] Che fortuna per
noi che tu sia venuto!".
K. rifiuta questo ruolo; non e' venuto a "portar fortuna", ne' ha abbastanza
tempo e forze per aiutare gli altri: chi pretendesse questo da lui
"confonderebbe le sue strade". Vuole solo mettere e tenere in ordine la
propria vita e, poiche' nel perseguire questo proposito non si sottomette,
come il K. del Prozess, all'apparente necessita', di lui restera' non la
vergogna, ma il ricordo negli abitanti del villaggio.
*
Il mondo di Kafka e' senza dubbio un mondo terribile. Ed oggi sappiamo forse
meglio di vent'anni fa che esso non e' solo un incubo, ma che riflette in
maniera molto precisa la struttura della realta' in cui siamo costretti a
vivere. La grandezza della sua arte e' che ancora oggi riesce a dare le
stesse sconvolgenti impressioni di allora, e che l'orrore della Strafkolonie
non ha perso nulla della sua immediatezza malgrado la realta' delle camere a
gas.
Se le opere di Kafka fossero davvero delle semplici profezie di incombenti
sciagure, non varrebbero davvero piu' di tutte le altre apocalittiche
profezie che ci hanno tormentato sin dall'inizio del secolo, o, meglio, fin
dagli ultimi trenta-quaranta anni del secolo scorso. Charles Peguy, che ha
avuto il discutibile onore di essere annoverato fra tali profeti, ha detto
una volta: "I1 determinismo, nella misura in cui esso puo' essere
addirittura immaginato, forse non e' altro che la legge dei resti". Si
tratta di una verita' molto precisa. Se e' vero che la vita viene
inevitabilmente e naturalmente a concludersi con la morte, si puo' sempre
predirne la fine. La via naturale e' sempre quella del declino e della fine,
ed una societa' che si rimetta ciecamente al carattere di necessita' delle
leggi che si e' data non potra' che finire. I profeti, da parte loro, non
possono essere altro che profeti di disgrazie dal momento che delle
catastrofi si possono sempre prevedere. Il miracolo e' rappresentato dalla
salvezza e non dalla fine perche' solo la salvezza, e non la fine, dipende
dalla liberta' dell'uomo e dalla sua capacita' di modificare il mondo ed il
suo corso naturale. La folle idea, tanto diffusa ai tempi di Kafka come
ancora ai giorni nostri, che il compito dell'uomo sia quello di
sottomettersi ad un processo predeterminato da forze qualsiasi, non puo' che
accelerare il declino naturale perche' nella follia della sua libera scelta
l'uomo non fa altro che venire in aiuto alla Natura e alla sua tendenza
verso il declino. Le parole del cappellano della prigione nel Prozess
svelano la vera natura dell'occulta teologia e della piu' intima fede dei
funzionari, cioe' una fede assoluta nella necessita'; questi finiscono per
essere degli esecutori di tali necessita', quasi ci fosse bisogno di
funzionari per mettere in funzionamento il processo del declino e della
rovina. In quanto funzionario della necessita' l'uomo diventa un funzionario
totalmente superfluo al servizio della legge naturale della caducita', e,
dal momento che egli e' piu' che natura, si abbassa al livello di efficace
strumento di distruzione. Come una casa costruita dagli uomini secondo dei
criteri umani sara' certamente condannata allo sfacelo non appena essa
rimarra' disabitata e sara' abbandonata dall'uomo al suo destino,
altrettanto certo e' che il mondo, costruito dagli uomini e funzionante
secondo leggi umane, tornera' ad essere una parte della natura e, in quanto
tale, abbandonato al suo catastrofico declino non appena gli uomini
decideranno di ridiventare una parte della natura, ovvero uno strumento
cieco ma estremamente preciso delle leggi naturali.
In tale contesto e' relativamente irrilevante che l'uomo, ossessionato dalla
necessita', creda nel progresso o nel declino del mondo. Se il progresso
fosse davvero "necessario", se costituisse una legge davvero inevitabile e
sovrumana che abbracciasse tutte le epoche della nostra storia e nella cui
rete l'umanita' fosse fatalmente impigliata, la forza ed il cammino del
progresso non potrebbero essere meglio descritti di come ha fatto Walter
Benjamin in queste righe delle sue Geschichtsphilosophische Thesen:
"L'angelo della storia [...] ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare
una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza
tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben
trattenersi, destare i morti e ricomporre l'infranto. Ma una tempesta spira
dal paradiso, che si e' impigliata nelle sue ali, ed e' cosi' forte che egli
non puo' piu' chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel
futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a
lui al cielo. Cio' che chiamiamo il progresso, e' questa tempesta" (1).
La migliore dimostrazione che Kafka non appartiene alla schiera dei nuovi
indovini e' forse il fatto che leggendo le sue storie piu' terrificanti e
piu' atroci, che nel frattempo hanno trovato riscontro nella realta' se
addirittura non ne sono state superate, continua sempre ad assalirci un
senso d'irrealta'. Sono i suoi eroi spesso senza nome e contrassegnati da
una semplice iniziale. Ma ammettendo pure che la loro seducente anonimita'
sia dovuta soltanto al caso dell'incompletezza dei suoi racconti, questi
personaggi non sono affatto degli uomini, delle persone che noi potremmo un
giorno incontrare nella vita reale. Sebbene siano minuziosamente descritti
non possiedono affatto quelle singole e singolari caratteristiche, quei
piccoli e spesso superflui tratti del carattere che insieme concorrono a
dare la vera immagine di un vero essere umano. Questi personaggi si muovono
in una societa' in cui ognuno ha un ruolo specifico ed in cui ciascuno e',
per cosi' dire, definito dalla propria professione; essi si distinguono da
quella societa' ed assumono un ruolo centrale nell'azione in quanto, a
differenza di tutti gli altri, non hanno un impiego o un lavoro determinato
e il loro ruolo rimane quindi indefinibile. Ne consegue cosi' che neppure
gli altri personaggi delle opere di Kafka sono uomini reali. I suoi racconti
non hanno niente a che fare con la realta' dei romanzi realisti.
Il mondo di Kafka, rinunciando completamente al carattere realistico che
imita l'aspetto esteriore del mondo, tipico dei romanzi realisti, rinuncia
cosi', ed in modo forse ancora piu' radicale, anche al carattere realistico
che imita la realta' del mondo interiore, tipico del romanzo psicologico.
Gli uomini fra cui si muovono gli eroi di Kafka non hanno alcuna
caratteristica psicologica perche' non esistono che in funzione dei loro
ruoli, cioe' dei loro impieghi e delle loro professioni, ne' hanno altre
qualita' che possano essere definite psicologicamente perche' ogni volta
sono completamente presi fino all'anima dai loro momentanei progetti:
vincere un processo, ottenere un permesso di soggiorno o di lavoro, o altro
ancora.
Questa astrattezza, priva di qualita' specifiche, delle figure di Kafka puo'
facilmente convincere a considerarle erroneamente esponenti di idee o
rappresentanti di opinioni, e tutti i tentativi della critica contemporanea
di scoprire una teologia nell'opera di Kafka sono effettivamente
condizionati da questo equivoco. Se invece si considera il mondo dei suoi
romanzi senza preconcetti e prevenzioni, si scopre che i suoi personaggi non
hanno ne' il tempo ne' la possibilita' di sviluppare una propria
caratteristica individuale. Quando, ad esempio, in Amerika sorge
l'interrogativo se il portiere-capo non abbia forse scambiato per una svista
il protagonista con un'altra persona, il portiere esclude che cio' sia
possibile perche' non potrebbe rimanere portiere-capo se gli capitasse di
scambiare una persona per un'altra: il suo lavoro e' proprio quello di non
confondere le persone. L'alternativa e' chiara: o e' un uomo come gli altri,
e quindi la sua percezione e la sua capacita' di riconoscere le persone non
sono infallibili, oppure e' un portiere-capo e come tale puo' attribuirsi un
tipo di perfezione sovrumana, almeno in questa sua funzione. Non e' che gli
impiegati diventino infallibili perche' sono costretti dalla societa' a
lavorare con la precisione dell'infallibilita'. I funzionari, gli impiegati,
gli operai di Kafka sono ben lontani dall'essere infallibili, pero' essi
tutti agiscono presumendo di avere un'abilita' ed una competenza
sovrannaturali.
La differenza fra i romanzi di Kafka e la consueta tecnica del romanzo
consiste nella rinuncia a descrivere il conflitto fondamentale di un
funzionario fra la sua esistenza privata e la sua attivita', e di non
raccontare piu' come l'ufficio abbia divorato la vita privata di chi con
esso ha da fare, o come l'esistenza privata, la famiglia ad esempio, l'abbia
costretto a diventare disumano identificandosi costantemente con la sua
funzione proprio come fa un attore per la sola durata di una
rappresentazione. Kafka, invece, ci mette subito di fronte al risultato di
una tale evoluzione poiche' per lui e' solo il risultato ad avere
importanza. L'esibizione di una competenza senza limiti e l'apparenza di
un'abilita' fuori del normale rappresentano il motore nascosto che aziona il
meccanismo dell'annullamento di cui sono prigionieri i protagonisti di Kafka
e che e' responsabile del piano e sicuro andamento di quanto di per se' e'
assurdo.
*
Il tema principale dei romanzi di Kafka e' il conflitto tra un mondo,
presentato come un simile meccanismo che funziona senza alcun intoppo, ed un
eroe che cerca di distruggerlo. Questi eroi, a loro volta, non sono degli
uomini normali come quelli che incontriamo ogni giorno, ma delle variazioni
d'uno stesso tipo umano la cui unica caratteristica e' quella di
concentrarsi fermamente su quanto vi e' di piu' naturale ed umano. La
funzione del protagonista e' sempre la stessa: scopre che il mondo e la
societa' normali sono in realta' anormali, che i giudizi unanimemente
accettati delle persone piu' rispettabili sono sostanzialmente follie, e che
le azioni condotte secondo le regole del gioco finiscono per rovinare tutti.
Gli eroi di Kafka non sono spinti da convinzioni rivoluzionarie, ma
esclusivamente dalla buona volonta' che, quasi inconsapevolmente ed
involontariamente, mette a nudo le strutture segrete di questo mondo.
L'effetto originale ed irreale dell'arte narrativa kafkiana trova la sua
origine soprattutto nell'interesse per queste nascoste strutture e nel
disinteresse per le facciate, per le apparenze e le semplici manifestazioni
esteriori del mondo. Percio' e' assolutamente sbagliato definire Kafka
surrealista. Infatti, mentre il surrealista tenta di presentare come
possibili tanti aspetti e punti di vista contraddittori della realta', Kafka
li inventa liberamente, non fidandosi mai della realta' perche' a lui non e'
la realta' che importa, ma la verita'. In contrasto con la tecnica del
fotomontaggio tanto cara a tutti i surrealisti, la tecnica di Kafka potrebbe
essere immediatamente paragonata a quella tipica della costruzione di
modelli. Cosi' come un uomo che voglia costruire una casa, o valutarne la
stabilita', si fa subito disegnare uno schizzo di questa casa, allo stesso
modo Kafka si procura uno schizzo del mondo esistente. Confrontandolo col
progetto di una casa vera esso e' naturalmente molto "irreale"; ma senza lo
schizzo la casa non si sarebbe potuta costruire, ne' si sarebbero potuti
conoscere i pilastri e le fondamenta che sono le sole cose a garantirne
l'esistenza nel mondo reale. Partendo da questo schizzo, basato sulla
realta' e la cui scoperta e', ovviamente, piu' frutto di un processo del
pensiero che di una percezione sensoriale, Kafka costruisce i suoi modelli.
Per comprenderli il lettore ha bisogno della stessa forza d'immaginazione
impiegata nel momento della loro prima concezione e puo' raggiungere questa
comprensione grazie alla forza d'immaginazione perche' non si tratta di
libera fantasia, ma di prodotti del pensiero che sono stati utilizzati da
Kafka come elementi delle sue costruzioni. Per la prima volta nella storia
della letteratura un artista richiede al lettore l'impiego della stessa
attivita' mentale che l'ha sorretto nel produrre la sua opera. Non e' altro
che quella forza d'immaginazione che secondo Kant e' "cosi' potente nella
creazione di un'altra natura con la materia della natura reale". Allo stesso
modo anche gli schizzi e i disegni possono essere compresi soltanto da
coloro che sono capaci e disposti ad immaginare presenti e reali le
intenzioni dell'architetto ed il futuro aspetto della costruzione.
Kafka pretende in ogni momento dai suoi lettori questo sforzo di reale
immaginazione. Per questo il lettore passivo, educato e formato dal romanzo
tradizionale, e la cui unica attivita' consiste nell'identificarsi in uno
dei personaggi, resta deluso da Kafka. Lo stesso vale per il lettore curioso
che, deluso della vita, si guarda intorno alla ricerca di un "Ersatz" del
mondo in cui possano accadere cose che non avvengono nel suo mondo reale,
oppure che cerca istruzione per una semplice sete di sapere. I racconti di
Kafka lo deluderanno ancor piu' della sua propria vita perche' non
contengono nessun elemento di sogno ad occhi aperti e non offrono consigli,
ne' istruzione o conforto. Solo quel lettore che per una ragione o
un'incertezza qualsiasi vada alla ricerca della verita' potra' capire
qualcosa di Kafka e dei suoi modelli, e gli sara' grato quando, ogni tanto,
riuscira' improvvisamente ad intravvedere la vera struttura di fenomeni
estremamente banali leggendo una pagina, o una semplice frase, dei suoi
racconti.
Caratteristico di questa astrazione, di quest'arte che lascia intatto solo
quello che e' essenziale, e' il breve racconto che segue, il quale tratta di
una circostanza particolarmente semplice e per niente inconsueta:
Confusione di ogni giorno
"Un fatto di tutti i giorni: il suo frutto una confusione di tutti i giorni.
A. deve concludere un affare importante con B. che abita a H. Si reca per un
primo colloquio a H., impiega per l'andata dieci minuti, altrettanti per il
ritorno e a casa si vanta di questa straordinaria rapidita'. Il giorno
seguente torna a H. per la conclusione definitiva dell'affare. Siccome e' da
prevedere che cio' richieda alcune ore, A. parte la mattina molto per tempo.
Ma nonostante che tutte le circostanze, almeno secondo lui, siano
esattamente le stesse del giorno prima, per arrivare a H. impiega questa
volta dieci ore. Giuntovi la sera, stanco, si sente dire che B., seccato
dell'assenza di A., e' partito mezz'ora prima per il villaggio di A., anzi
avrebbero dovuto incontrarsi per la strada. Gli consigliano di attendere, ma
A., in pensiero per il suo affare, si mette subito in cammino e corre a
casa.
Questa volta, senza nemmeno badarci, percorre la distanza addirittura in un
istante. A casa viene a sapere che B. e' arrivato gia' la mattina, subito
dopo la partenza di A.; anzi, avendo incontrato A. sulla soglia, gli aveva
rammentato l'affare, ma A. gli aveva risposto che non aveva tempo e doveva
andar via in fretta e furia.
B. pero', nonostante l'incomprensibile contegno di A., era rimasto ad
aspettarlo. Piu' volte, gli dicono, aveva chiesto se A. era ritornato, e si
trova ancora di sopra, nella camera di A.
Felice di poter ora parlare con B. e di potergli spiegare ogni cosa, A. sale
le scale di corsa. E quasi arrivato, inciampa, si busca uno strappo
muscolare, quasi svenuto dal dolore, incapace persino di gridare, solo
mugolando nel buio, sente che B. (non capisce bene se molto lontano o vicini
ssimo) scende furibondo la scala con grande fracasso e scompare
definitivamente" (2).
In questo racconto la tecnica con cui Kafka costruisce il suo impianto
narrativo e' quasi fin troppo evidente. Ci sono, innanzitutto, tutti i
fattori essenziali che generalmente concorrono a far fallire un
appuntamento: lo zelo eccessivo (A. parte troppo presto ed ha tanta fretta
da non riconoscere B. scendendo le scale), l'impazienza (il tragitto sembra
tanto lungo che A. si preoccupa piu' di esso che dello scopo del suo
viaggio, cioe' l'incontro con B.), l'ansia ed il nervosismo che lo spingono
in fretta e furia sulla via del ritorno quando avrebbe potuto
tranquillamente attendere il rientro di B. a H. Tutti questi fattori
provocano infine quella ben nota "perfidia dell'oggetto" che accompagna
sempre ogni totale fallimento, ed indicano e suggellano il definitivo crollo
di chi si arrabbia per come va il mondo. Partendo da questi fattori molto
generici, e non dall'esperienza di un avvenimento specifico, Kafka
costruisce la circostanza centrale del suo racconto. Dal momento che nulla
di reale si frappone ad attenuare la costruzione kafkiana, i singoli
elementi possono caricarsi della gigantesca forza comica insita in essi
tanto che a prima vista pare di leggere una di quelle storie fantastiche
alla Muenchhausen che amano raccontarsi i marinai.
L'impressione che la storia sia esagerata scompare non appena decidiamo di
leggerla non come resoconto di una circostanza reale o di un fatto qualsiasi
dovuto a confusione, bensi' come un modello della confusione stessa la cui
logica grandiosa cercano disperatamente d'imitare le nostre limitate
esperienze di fatti incomprensibili. Questo audace rovesciamento di modello
e di imitazione, nel quale, a dispetto d'una tradizione millenaria, la
finzione appare improvvisamente come modello e la realta' come imitazione da
verificare, e' una delle fonti essenziali dello "humor" kafkiano, e rende
anche questa storia tanto divertente da riuscire a consolarci di tutti gli
appuntamenti ai quali siamo o saremo mancati. Infatti il riso di Kafka e'
un'espressione diretta di quella spensierata liberta' umana per cui l'uomo
vale ben piu' del suo fallimento gia' per il fatto che egli puo' immaginare
una confusione maggiore di ogni confusione reale.
*
Da quanto s'e' detto dovrebbe esser chiaro che il narratore Kafka non e'
affatto un romanziere nel senso del romanzo classico dell'Ottocento. Alla
base del romanzo classico c'era un sentimento della vita che accettava
fondamentalmente il mondo e la societa' sottomettendosi alle vicende della
vita cosi' come esse venivano ed accogliendo il destino come una forza
superiore al bene e al male. L'evoluzione del romanzo classico corrispose al
lento declino del "citoyen" che aveva cercato per la prima volta con la
Rivoluzione Francese e con la filosofia di Kant di governare il mondo con le
leggi inventate dall'uomo. Il periodo del suo massimo fulgore fu
accompagnato dalla totale realizzazione dell'individuo borghese volto a
considerare il mondo e la vita come teatri di avvenimenti e desideroso di
vivere sensazioni ed esperienze piu' di quanto gli potesse offrire l'ambito
generalmente angusto ed immobile della sua vita. Tutti questi romanzieri,
sia che dipingessero realisticamente il mondo, sia che sognassero altri
mondi fantastici, erano in eterna concorrenza con la realta'. Il romanzo
classico ha ora appena concluso la sua parabola in America nella forma
elaboratissima del romanzo-reportage, il che e' accaduto per una naturale
conseguenza se si considera che ormai la fantasia non puo' piu' entrare in
concorrenza con la realta' degli avvenimenti e dei destini della societa'
contemporanea.
A controbilanciare la tranquilla sicurezza del mondo borghese, in cui
l'individuo esigeva dalla vita la sua parte legittima di esperienze e
sensazioni pur senza riceverne mai abbastanza, c'erano i grandi uomini, i
geni, le eccezioni che rappresentavano agli occhi degli individui borghesi
quasi un'incarnazione maestosa ed impenetrabile di qualcosa di
soprannaturale che ora si poteva chiamare "destino", come nel caso di
Napoleone, ora "storia", come nel caso di Hegel, oppure "volonta' di Dio", a
sentire Kierkegaard, secondo il quale Dio avrebbe voluto stabilire un
esempio proprio con la sua persona, o ancora "una necessita'", come
Nietzsche defini' se stesso. La sensazione piu' alta per chi era smanioso di
esperienze rimaneva quella del destino stesso, ed il tipo piu' elevato di
individuo era percio' quello che aveva un destino, una missione, una
vocazione da servire o di cui era il compimento. Grande non era piu',
quindi, un'opera o un'azione, ma l'uomo stesso proprio perche' incarnazione
di qualcosa di soprannaturale. La genialita' non era piu' un dono divino
elargito a degli individui che pure rimanevano sempre uomini; l'intera
persona diventava un'unica incarnazione del genio e non poteva percio'
rimanere piu' a lungo un comune mortale. Che questa concezione del genio,
inteso come una specie di mostro sovrumano, fosse propria dell'Ottocento e
non di un'epoca anteriore lo rivela chiaramente anche la definizione del
genio data da Kant. Per lui il genio e' il dono con cui "la natura impone le
regole all'arte"; oggi si puo' non essere d'accordo con questa concezione
naturalistica ed anche pensare che nel genio sia l'umanita' stessa ad
"imporre le regole all'arte", ma al momento e' importante vedere che in
questa definizione del XVIII secolo non c'e' ancora alcuna traccia di quella
vuota grandezza che comincio' ad imperversare col Romanticismo subito dopo
Kant.
Che Kafka appaia cosi' moderno, ed al tempo stesso cosi' lontano dai suoi
contemporanei e cosi' estraneo agli ambienti letterari di Vienna e Praga di
quel periodo, si spiega col fatto che evidentemente non volle essere ne' un
genio ne' la personificazione di qualche grandezza oggettiva, e che d'altra
parte rifiuto' appassionatamente di assoggettarsi ad un destino qualsiasi.
Non era certo innamorato del mondo piu' di quanto lo siamo noi, ed anche
della natura pensava che la sua superiorita' sugli uomini non durasse che
fino al momento del "vi lascio in pace". A lui interessava un mondo
costruito dagli uomini nel quale le azioni umane non dipendessero che
dall'uomo stesso e dalla sua spontaneita' ed in cui la societa' umana fosse
retta da leggi sancite dagli uomini e non da forze misteriose, sia che
venissero interpretate come soprannaturali o come basse. Un tale mondo non
era piu' frutto di un sogno, ma doveva essere direttamente costruito
dall'uomo, e Kafka in persona voleva essere un cittadino di questo mondo, un
"membro della comunita'", e non piu' un'eccezione.
Naturalmente cio' non significa che lui fosse modesto, come invece e' stato
detto qualche volta: Kafka ha pur sempre annotato con sincero stupore nei
suoi diari che ogni sua frase era gia' perfetta cosi' come l'aveva
trascritta di sfuggita - e cio' corrisponde al vero. Kafka non era modesto,
ma umile.
Per poter diventare, almeno sulla carta, cittadino di un mondo simile, dal
quale fossero bandite tutte le visioni sanguinarie e tutti gli incantesimi
omicidi (come quello che in via sperimentale cerco' di descrivere nello
"happy end" di Amerika), egli doveva assolutamente anticipare la distruzione
del mondo esistente. I suoi romanzi rappresentano appunto una distruzione
anticipata del mondo: dalle sue rovine fa sorgere l'immagine sublime d'un
individuo ideale che con la sua buona volonta' puo' davvero spostare
montagne, costruire nuovi mondi e pure passare indenne attraverso la
distruzione e le macerie di tutte le precedenti costruzioni difettose e
vacillanti perche' a lui infatti, solo che egli sia di buona volonta', gli
dei hanno dato un cuore indistruttibile. E poiche' gli eroi di Kafka non
sono persone con cui venga naturale identificarsi, bensi' soltanto dei
modelli che sono abbandonati nell'anonimato a dispetto dei loro nomi, ci
sembra quasi che ognuno di noi sia chiamato ed esortato con quei nomi.
Infatti quest'uomo di buona volonta' puo' essere chiunque ed ognuno, forse
persino io e tu.
*
Note
1. W. Benjamin, Angelus Novus. Saggi e frammenti, Einaudi, Torino 1962, pp.
76-77.
2. In F. Kafka, Tutti i racconti, trad. di E. Pocar, Mondadori, Milano 1979,
vol. II, pp. 149-150.

2. ET COETERA

Hannah Arendt e' nata ad Hannover da famiglia ebraica nel 1906, fu allieva
di Husserl, Heidegger e Jaspers; l'ascesa del nazismo la costringe
all'esilio, dapprima e' profuga in Francia, poi esule in America; e' tra le
massime pensatrici politiche del Novecento; docente, scrittrice, intervenne
ripetutamente sulle questioni di attualita' da un punto di vista
rigorosamente libertario e in difesa dei diritti umani; mori' a New York nel
1975. Opere di Hannah Arendt: tra i suoi lavori fondamentali (quasi tutti
tradotti in italiano e spesso ristampati, per cui qui di seguito non diamo
lvanno di pubblicazione dell'edizione italiana, ma solo l'anno dellvedizione
originale) ci sono Le origini del totalitarismo (prima edizione 1951),
Comunita', Milano; Vita Activa (1958), Bompiani, Milano; Rahel Varnhagen
(1959), Il Saggiatore, Milano; Tra passato e futuro (1961), Garzanti,
Milano; La banalita' del male. Eichmann a Gerusalemme (1963), Feltrinelli,
Milano; Sulla rivoluzione (1963), Comunita', Milano; postumo e incompiuto e'
apparso La vita della mente (1978), Il Mulino, Bologna. Una raccolta di
brevi saggi di intervento politico e' Politica e menzogna, Sugarco, Milano,
1985. Molto interessanti i carteggi con Karl Jaspers (Carteggio 1926-1969.
Filosofia e politica, Feltrinelli, Milano 1989) e con Mary McCarthy (Tra
amiche. La corrispondenza di Hannah Arendt e Mary McCarthy 1949-1975,
Sellerio, Palermo 1999). Una recente raccolta di scritti vari e' Archivio
Arendt. 1. 1930-1948, Feltrinelli, Milano 2001; Archivio Arendt 2.
1950-1954, Feltrinelli, Milano 2003; cfr. anche la raccolta Responsabilita'
e giudizio, Einaudi, Torino 2004; la recente Antologia, Feltrinelli, Milano
2006; i recentissimi Diari, Neri Pozza, 2007. Opere su Hannah Arendt:
fondamentale e' la biografia di Elisabeth Young-Bruehl, Hannah Arendt,
Bollati Boringhieri, Torino 1994; tra gli studi critici: Laura Boella,
Hannah Arendt, Feltrinelli, Milano 1995; Roberto Esposito, L'origine della
politica: Hannah Arendt o Simone Weil?, Donzelli, Roma 1996; Paolo Flores
d'Arcais, Hannah Arendt, Donzelli, Roma 1995; Simona Forti, Vita della mente
e tempo della polis, Franco Angeli, Milano 1996; Simona Forti (a cura di),
Hannah Arendt, Milano 1999; Augusto Illuminati, Esercizi politici: quattro
sguardi su Hannah Arendt, Manifestolibri, Roma 1994; Friedrich G. Friedmann,
Hannah Arendt, Giuntina, Firenze 2001; Julia Kristeva, Hannah Arendt,
Donzelli, Roma 2005. Per chi legge il tedesco due piacevoli monografie
divulgative-introduttive (con ricco apparato iconografico) sono: Wolfgang
Heuer, Hannah Arendt, Rowohlt, Reinbek bei Hamburg 1987, 1999; Ingeborg
Gleichauf, Hannah Arendt, Dtv, Muenchen 2000.
*
Franz Kafka, scrittore praghese di lingua tedesca (1883-1924), forse il piu'
grande scrittore del Novecento. Opere di Franz Kafka: andrebbe letto tutto:
romanzi, racconti, diari, lettere. Opere su Franz Kafka: sono infinite,
segnaliamo almeno alcuni autori che su Kafka hanno scritto
significativamente: Guenther Anders, Hannah Arendt, Walter Benjamin, Maurice
Blanchot, Elias Canetti, Remo Cantoni, Marthe Robert. Per un avvio: Marino
Freschi, Introduzione a Kafka, Laterza, Roma Bari 1993, 2001.

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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
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Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 134 del 15 gennaio 2008

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