Voci e volti della nonviolenza. 132



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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino"
Numero 132 del 12 gennaio 2008

In questo numero:
1. Enrico Peyretti: Una sintesi di "Badshah Khan. Il Gandhi musulmano" di
Ekanath Easwaran
2. Et coetera

1. ENRICO PEYRETTI: UNA SINTESI DI "BADSHAH KHAN. IL GANDHI MUSULMANO" DI
EKNATH EASWARAN
[Ringraziamo Enrico Peyretti (per contatti: e.pey at libero.it) per questa
sintesi del libro di Eknath Easwaran su Badshah Khan]

Il 20 gennaio 2008 sono venti anni dalla morte di un singolare protagonista
della nonviolenza, musulmano. Qui riassumo il libro di Easwaran (Eknath
Easwaran, Badshah Khan, il Gandhi musulmano, traduzione di Lorenzo Armando,
Sonda, Torino 1990 (1984), pp. 250) che ne presenta la vita, lo spirito e
l'opera. Ho steso questa sintesi prima di conoscere la scheda essenziale che
dallo stesso libro ha tratto Giorgio Barazza, e prima di leggere la sintesi,
piu' breve della mia, che ne ha fatto Francesco Pullia. Alla sintesi seguono
due brevissime schede.
*
Abdul Ghaffar Khan, detto Badshah Khan, il "re dei khan" (1890-1988) e'
ricordato con questi vari nomi. Fu il leader che guido' una popolazione
guerriera e feroce come i pathan, ovvero pashtun, della Frontiera, la "porta
dell'India" (oggi tra Pakistan e Afghanistan), di religione musulmana, e li
condusse ad adottare la nonviolenza contro le repressioni molto violente del
dominio inglese (vedi scheda 1). Quella e' la terra di Zoroastro, degli inni
vedici, della cultura buddhista, prima che vi arrivasse l'islam. Badshah
Khan trovo' proprio nella sua fede islamica l'ispirazione alla nonviolenza.
La sua figura storica e' importante per sfatare la rozza identificazione
odierna tra islam e violenza.
Gandhi osservo' che proprio il violento coraggioso nella difesa di diritto e
dignita' e' il piu' disponibile a capire e vivere la "nonviolenza del
forte". Egli scrive: "Mentre non c'e' alcuna speranza di vedere un vile
diventare nonviolento, questa speranza non e' vietata ad un uomo violento"
(Antiche come le montagne, Comunita', Milano 1965, p. 168; citato da
Jean-Marie Muller, Il principio nonviolenza. Una filosofia della pace, Pisa
University Press 2004, p. 271).
"Musulmano e' colui che non ferisce mai nessuno ne' con parole ne' con
azioni e lavora invece per il benessere e la felicita' delle creature di
Dio. La fede in Dio e' amore del proprio compagno". Sono parole di Khan
citate in questo libro (p. 61). Il giovane Ghaffar apprese da suo padre
Behram Khan lo spirito del perdono, davvero singolare in quella societa' che
aveva il codice della vendetta come regola di onore. Era un ragazzo negli
anni della Guerra della Frontiera, la rivolta dei pathan nel luglio 1897
(raccontata da Winston Churchill, ventitreenne corrispondente di guerra
arruolato nel IV ussari), repressa dagli inglesi che distrussero i raccolti,
tagliarono gli alberi (azione feroce di guerra vietata dal Corano),
avvelenarono i pozzi, demolirono le case. Ma fu una vittoria di Pirro:
l'ostilita' dei pathan durera' nei decenni, fino ad oggi. Non lo capi'
Churchill, ma lo capi' Annie Besant, inglese, che gia' si batteva per
l'autogoverno indiano.
Nel 1879 la Gran Bretagna aveva imposto la sua influenza sull'Afghanistan,
in funzione anti-russa (la storia si ripete!). Inutilmente l'emiro afghano
aveva ammonito gli inglesi sulla indomabilita' dei pathan. Poco dopo il
"giubileo di diamante" della regina Vittoria (giugno 1897), l'impero stava
diventando una trappola.
Come Gandhi indu', cosi' Abdul Ghaffar musulmano riceve un'educazione
inglese, senza perdere il cuore della propria tradizione. Dapprima si
arruola nelle "guide", un corpo scelto a servizio dell'impero, ma poi ne
esce, perche' gli inglesi trattavano i pathan da inferiori. Lavora la terra
e osserva le condizioni del suo popolo. Il suo percorso e' simile a quello
di Gandhi. Il vicere' Curzon "viviseziona" con le deportazioni la nazione
pathan. In queste condizioni, Abdul Ghaffar apre una scuola nel suo
villaggio di Utmanzai e poi altre nei villaggi vicini, nonostante
l'avversione dei mullah tradizionalisti e gli ostacoli della legge inglese.
Ormai ha scelto la via delle riforma sociale educativa per servire il suo
popolo. Si sposa, ha un figlio che lo aiutera'. Incontra altri leader
musulmani impegnati nella promozione culturale del popolo e si dedica in
particolare alle tribu' delle montagne, governate dagli inglesi con durezza,
isolamento, umiliazioni. Tra di loro, in preghiera e digiuno, trova la sua
via, che seguira' per settant'anni: il servizio di Dio nel servire i poveri,
gli ignoranti, i violenti. Negli stessi anni, Gandhi avvia in Sudafrica il
satyagraha, fino al suo ritorno in India, nel 1914.
Molti indiani combatterono e morirono per l'impero inglese nella prima
guerra mondiale, ma, nonostante le illusioni, le condizioni dell'India
risultarono piu' dure di prima. Ghaffar sente parlare di Gandhi e delle sue
campagne, si riconosce nel suo scopo e nei suoi metodi. Tra il 1915, quando
muore improvvisamente la moglie amata, e il 1918, Ghaffar visita tutti i
cinquecento villaggi delle basse valli della Frontiera. La gente lo acclama
badshah khan.
Nel 1919, dopo la strage di Amritsar, Gandhi prepara la rivolta nonviolenta
contro il dominio inglese. Ghaffar e' imprigionato per sei mesi senza
processo, e cosi' tante altre volte. La sua colpa e' educare il popolo. I
genitori lo inducono a risposarsi. Partecipa nel 1920 alla sessione del
Congresso che decide la lotta nonviolenta. Sente come un dovere sacro la
lotta per la liberta'. In carcere rifiuta la liberta' sottoposta alla
condizione di non girare piu' per i villaggi; impressiona tutti per la
scrupolosa osservanza del regolamento e la forte capacita' di soffrire;
rifiuta miglioramenti ottenibili con la corruzione. Un carceriere riconosce
che Ghaffar e' in prigione "per conto di Dio". In prigione, incontrando
altri indipendentisti indu' e cristiani, impara a conoscere e rispettare le
altre religioni. Intanto, gli muore l'amata madre. Scarcerato nel 1924,
sebbene molto provato dopo tre anni di prigione, e' ormai accolto come un
leader dai pathan.
Egli sente piu' di tutti la contraddizione intrinseca alla mistica della
vendetta e della violenza, tipica dei fieri pathan, che preferiscono rubare
piuttosto che mendicare, uccidere piuttosto che patire un dolore. Molte
storie di vendette familiari gli dicono che il pathan non e' un assassino
irresponsabile, ma la vittima del suo distorto codice d'onore. Ghaffar
comprende che la politica dell'impero inglese ha buon gioco nel mettere i
pathan gli uni contro gli altri: impegnati a tagliarsi la gola tra di loro
non pensano alla liberta'. Intuisce che la violenza pathan e' frutto di
ignoranza, superstizione e del peso schiacciante dell'abitudine. Cosi'
sprecano il loro coraggio e la loro forza. Sa che il suo compito e' educare,
illuminare, risollevare, ispirare. Insegnera' ai pathan che il vero coraggio
e' essere nel giusto. Egli riuscira' in questo perche' e' un vero pathan,
che puo' capire nell'intimo i pathan.
Vedo due lezioni, a questo punto della storia che percorriamo: la
nonviolenza non puo' essere importata, ma puo' crescere solo dall'interno di
una cultura, che discute e riforma se stessa, sulle sue basi positive; se i
pathan capirono la nonviolenza, anche popolazioni soggette alla cultura
mafiosa, ma non prive di umanita', possono capirla e viverla.
Nel 1926 gli muore il padre e, per una caduta durante il pellegrinaggio alla
Mecca, la seconda moglie, dopo di che fa voto di non risposarsi per
dedicarsi interamente al servizio del popolo. Come Gandhi, Ghaffar valorizza
molto il ruolo attivo delle donne nel movimento. Fonda una rivista in lingua
pakhtu, che discute di igiene, temi sociali, diritti delle donne, dignita'
del popolo pathan. Nel 1928 incontra Gandhi, ne riceve profonda impressione,
e impara da lui la tolleranza e pazienza che manca nei leader islamici.
Incontra anche Nehru. Si inserisce nella lotta per l'indipendenza indiana,
dando coscienza politica ai pathan: "Dovete vivere per la comunita'. E'
l'unica strada che conduca alla prosperita' e al progresso" (p. 129).
*
Ci voleva un esercito, si', ma di gente libera sia dalla violenza dei
fisicamente forti sia dalla nonviolenza dei moralmente deboli. Badshah Khan
insegno' ai pathan che la massima forma di onore e di coraggio era
affrontare un nemico per una giusta causa senza indietreggiare e senza
imitare con l'uso delle armi la sua violenza, combattendo anche contro la
propria violenza.
Riusci' cosi' a costituire il primo "esercito" nonviolento della storia
addestrato professionalmente. Tutti i pathan potevano entrarvi, uomini e
donne, purche' pronunciassero questo giuramento (per i pathan giurare
impegna la vita):
"Sono un khudai kidmatgar (servo di Dio), e poiche' Dio non ha bisogno di
essere servito, ma servire la sua creazione e' servire lui, prometto di
servire l'umanita' nel nome di Dio.
Prometto di astenermi dalla violenza e dal cercare vendetta.
Prometto di perdonare coloro che mi opprimono o mi trattano con crudelta'.
Prometto di astenermi dal prendere parte a litigi e risse e dal crearmi
nemici.
Prometto di trattare tutti i pathan come fratelli e amici.
Prometto di astenermi da usi e costumi antisociali.
Prometto di vivere una vita semplice, di praticare la virtu' e di astenermi
dal male.
Prometto di avere modi gentili ed una buona condotta, e di non condurre una
vita pigra.
Prometto di dedicare almeno due ore al giorno all'impegno sociale".
Questo esercito volontario e gratuito comincio' con 500 reclute, la divisa
era una camicia rossa, le funzioni erano aprire scuole, sostenere progetti
di lavoro, mantenere l'ordine nelle assemblee, sviluppare l'autogoverno
della societa'. Marciando sulle montagne cantavano il loro inno: "Siamo
l'esercito di Dio, / non ci importano morte o ricchezza, / marciamo, noi e
il nostro capo, / pronti a morire. / Noi serviamo ed amiamo / il nostro
popolo e la nostra causa. / La liberta' e' il nostro scopo, / le nostre vite
il prezzo da pagare" (p. 132).
Badshah Khan diceva a questi "soldati": "Vi sto fornendo un'arma a cui la
polizia e l'esercito non potranno resistere. E' l'arma del Profeta: la
pazienza e la giustizia sono quest'arma. Nessun potere sulla terra puo'
resisterle". Egli sviluppava cosi' la sabr, la pazienza, che nel Corano e'
la virtu' centrale nella "guerra santa" tra il bene e il male che ogni
persona ha da combattere nel proprio cuore, facendone la virtu' del
nonviolento forte. Cosi', sabr, insieme a la unf, e' il termine che
significa nonviolenza in arabo.
*
Come i coloni americani nel luglio 1776 a Philadelphia, cosi', in termini
simili, cinquemila delegati del Congresso a Lahore, il 31 dicembre 1929, e
il giorno dopo assemblee di massa in tutta l'India, dichiaravano se stessi e
tutti gli indiani uomini e donne liberi, da quel momento e per sempre. Ma
aggiungevano: "La strada piu' efficace per ottenere la liberta' non passa
per la violenza... Se riusciamo a  ritirare la nostra collaborazione
volontaria con il governo inglese, e siamo disposti alla disobbedienza
civile,  compreso il rifiuto di pagare le tasse, senza compiere violenze
neanche se provocati, la fine di questo dominio disumano e' certa".
Nel marzo del 1930, Gandhi, dopo averla annunciata al vicere', guidava la
"marcia del sale", ribellione nonviolenta al monopolio inglese su un bene
prezioso come l'acqua nel clima tropicale. Centomila persone, compreso
Gandhi, finirono in prigione. Nella regione della Frontiera la repressione
fu piu' intensa e brutale, come documento' una commissione del Congresso.
Badshah Khan, col suo "esercito" di camicie rosse, intensifico' l'azione di
educazione e organizzazione nei villaggi, ma fu arrestato dagli inglesi e
condannato a tre anni di carcere.
Manifestazioni nonviolente di persone disarmate furono investite da carri
armati inglesi nel bazar di Kissa Khani, con quasi trecento morti e altri
feriti, colpiti a sangue freddo tra la folla che rimaneva ferma di fronte
agli spari dei soldati. Il massacro (simile a quello di Amritsar del 1919)
e' documentato nei giornali anglo-indiani del tempo e negli studi di Gene
Sharp. Ma tiratori scelti garhwali si rifiutarono di sparare sulla folla:
"Noi non spareremo sui nostri fratelli disarmati". Solo alcune tribu' delle
montagne, tra le quali fu sempre impedito a Badshah Khan di agire, compirono
incursioni violente, mentre Khan era in carcere. Alcuni scrittori inglesi
hanno usato questi fatti per screditare la nonviolenza di Khan. Ma, mentre
le azioni violente furono sgominate dagli inglesi, il movimento nonviolento
cresceva.
Sconcertati dalla nonviolenza dei pathan, gli inglesi tentavano di spingerli
alla reazione violenta, con provocazioni fisiche umilianti, nel villaggio
stesso di Khan, Utmanzai, a cui i "servi di Dio" resistettero eroicamente.
La popolazione si aggregava a loro. La resistenza restava nonviolenta. Alla
fine di settembre l'esercito nonviolento arrivo' a contare ottantamila
volontari, uomini e donne. Dopo l'accordo paritario, che disgusto'
Churchill, tra Gandhi e il vicere', accordo che sanci' la tregua, i pathan
ottennero con la lotta nonviolenta la parita' politica della loro regione
col resto dell'India.
Khan, tornato nella Frontiera, era considerato un santo, era chiamato il
Gandhi della Frontiera, ma reagiva: "Non aggiungete il nome di Gandhi al
mio!". Neppure il titolo badshah gli piaceva: era servo del popolo, non re.
Cede la sua terra ai figli, diventando un fakir, un senza terra, senza
diritto di voto nella jirga. Resta solo un riferimento spirituale. Gira
instancabile per i villaggi, ad educare gli ignoranti, avversato dagli
inglesi, dai mullah, dai khan ricchi che non vogliono riforme. Due volte
rischia di essere ucciso. Percorreva fino a quaranta chilometri al giorno.
Appena arrivato in un villaggio, puliva la moschea, stava coi poveri.
Ripeteva: "Abbiamo due obiettivi: liberare il paese; nutrire l'affamato e
vestire l'ignudo". Insegnava l'igiene, la forza, il disinteresse. Ricordava
alle donne la loro parita' coranica con gli uomini.
Gli inglesi gli proibirono queste visite. Gandhi protesto', voleva visitare
la Frontiera, ma gli fu impedito. Mando' il figlio Devadas, che constato' la
forza e l'ispirazione di Khan. Il quale disobbedi' al divieto e fu
arrestato. Violando la tregua, tra fine del 1931 e inizio del 1932, gli
inglesi occuparono Peshawar e arrestarono anche Gandhi. Un inglese
collaboratore di Gandhi, Verrier Elwin, documenta la persecuzione contro le
"camicie rosse", nella Frontiera, con metodi feroci e 35.000 arresti, e
testimonia l'attaccamento orgoglioso dei pathan alla nonviolenza. Anche
senza la presenza di Badshah Khan, avevano ormai compreso che la nonviolenza
funziona. Elwin documenta oggettivamente anche alcuni rari episodi di
violenza, da parte di non appartenenti all'esercito nonviolento. Elwin fu
arrestato ed espulso dalla provincia.
Intanto, Khan fu detenuto per tre anni senza processo, in isolamento,
lontano dalla Frontiera, soffrendone nella salute. Rilasciato nel 1934, ma
bandito dalla Frontiera, Khan accetto' l'invito di Gandhi e ando' a vivere a
Wardha, il suo ashram nell'India centrale. Gandhi era concentrato nel suo
"programma costruttivo": dopo aver insegnato come combattere in modo
nonviolento, ora il compito piu' arduo era insegnare a vivere in modo
nonviolento. Affascinato da Khan, chiese al suo segretario, Mahadev Desai,
di stenderne una biografia, con una sua prefazione. Desai scriveva di Khan:
"La cosa piu' grande in lui e' la sua spiritualita', il vero spirito
dell'islam, la sottomissione a Dio".
Il fratello di Khan, Saheb, aveva una moglie inglese. Una volta Gandhi
chiese se si era convertita all'islam. Khan gli rispose: "Sarai sorpreso, ma
non saprei dirti se e' musulmana o cristiana. Per quanto ne so, non si e'
mai convertita, e' assolutamente libera di seguire la sua fede. Un marito e
una moglie dovrebbero poter seguire ciascuno la sua fede". Gandhi era
d'accordo, ma osservo' che la maggior parte dei musulmani non pensava cosi'.
Khan lo sapeva bene, ma disse che nessuno conosce il vero spirito
dell'islam, e che "tutte le fedi sono ispirate quanto basta a coloro che vi
aderiscono. Il Corano dice che in molti modi Dio manda messaggeri in tutte
le nazioni" (p. 174).
In seguito, Khan va a Calcutta, parla ai musulmani del Bengala, li invita a
formare un movimento di combattenti nonviolenti e ad aiutare i villaggi
poveri. Partecipa con Gandhi alla sessione annuale del Congresso, a Bombay,
nell'ottobre '34, durante la quale racconta agli indiani cristiani
l'esperienza dei khudai khidmatgar, e parla al Club per l'unita' delle
donne. Accusato per frasi "sediziose" pronunciate a Bombay, nel suo racconto
del massacro di Kissa Khani, in dicembre Khan e' di nuovo arrestato. Su
consiglio di Gandhi, che non lo voleva in prigione, accetto' a fatica di
difendersi affermando che non intendeva usare espressioni sediziose, ma fu
ugualmente condannato a due anni di carcere duro, in isolamento. Ne soffri'
nuovamente nella salute. Rilasciato nel luglio '36, torno' da Gandhi. Nel
gennaio '37, nelle prime elezioni dei consigli legislativi, il fratello
Saheb viene eletto primo ministro della Frontiera e revoca il bando inflitto
a Khan, accolto nella sua terra da immenso affetto popolare. La lotta
nonviolenta dei pathan aveva ottenuto un parziale autogoverno.
In ottobre Nehru visito' la Frontiera, e nel '38 lo stesso Gandhi,
finalmente, accolto da folle composte, non sfrenate, nelle uniformi rosse.
Egli constata l'amore che lega Khan al suo popolo, al quale ha insegnato la
forza vera. A Mardan un corpulento pathan dice a Gandhi: "Noi siamo
ignoranti, siamo poveri, ma non ci manca niente, perche' tu ci hai insegnato
la lezione della nonviolenza". Gandhi voleva studiare meglio l'esperienza
dei khudai khidmatgar, e torno' in ottobre ad incontrarli. Disse loro che
non bastava la resistenza passiva se si fossero sentiti piu' deboli per il
fatto di non usare le loro armi tradizionali, e che dovevano invece sentirsi
piu' forti, altrimenti era meglio tornare alle armi. Ma "voi avete una forza
spirituale tale da proteggere non solo l'islam ma anche altre religioni".
"Rimuovere la violenza dal proprio cuore non e' solo la capacita' di
controllo della collera, ma il completo sradicamento della collera.
Realizzare la nonviolenza significa conoscere Dio, sentire in se' la sua
forza. Chi ha rinunciato alla violenza dovrebbe pronunciare il nome di Dio
ad ogni respiro". Egli, disse Gandhi, lo faceva da vent'anni, anche nel
sonno (p. 190). Sappiamo che, quando fu ucciso, spiro' invocando "He Ram".
Gandhi giro' tutta la regione insieme a Khan. Questi riconosceva che la
collera dei pathan era solo repressa, ed era turbato dalla quantita' di
rivalita' fra tribu' e famiglie. Ora bisognava esercitare i volontari nel
Programma costruttivo, la nonviolenza positiva: filare e tessere, l'igiene,
l'educazione di base, l'indostano come lingua nazionale unificante.
1939, seconda guerra mondiale: l'India e' coinvolta senza consenso. Il
Congresso delibera che un'India libera e democratica sosterrebbe volentieri
le altre nazioni libere contro l'aggressione, ma non senza un chiarimento,
che pero' gli inglesi rinviano a dopo la guerra. Intanto, essi scavano
divisione tra indiani indu' e musulmani, per dominarli meglio. Il Congresso
voleva l'indipendenza, la Lega musulmana lo status di dominion entro
l'impero. Nel 1940 Ali' Jinnah proponeva uno stato musulmano. Richiesto di
unirsi alla lotta, in quanto musulmano, contro il "dominio indu'", Badshah
Khan rifiuto'. Invito' la Lega a cacciare gli inglesi e poi vivere insieme,
indu' e musulmani, come avevano fatto per secoli. Quelli della Lega
chiamarono Khan indu'.
Davanti all'ipotesi di attacco esterno all'India, il Congresso dapprima si
allontano' da Gandhi e dalla nonviolenza, ma Khan fu duro nel riaffermare il
metodo di "servire Dio e l'umanita' offrendo le proprie vite senza ucciderne
alcuna". Intanto, egli continua l'addestramento attivo nel Programma
costruttivo, avvia scuole femminili, cosa rara tra i musulmani. Racconta
come da giovane aveva tendenze violente e, sull'insegnamento di Gandhi,
abbia dovuto "rifare se stesso". Simili trasformazioni, talora faticose,
aveva indotto anche in altri, come nel fuorilegge omicida Murtaza Khan, che,
scontata la condanna, era diventato un comandante dei khudai khidmatgar. Poi
fini' di nuovo in prigione, ma questa volta come "servo di Dio", per la
liberta' della sua gente.
Nel luglio 1942 Gandhi rivolge ormai agli inglesi una sola richiesta: "Quit
India" (lasciate l'India). Viene arrestato. Khan e il fratello parlano
contro lo sforzo bellico. Alla fine dell'anno sono in prigione 60.000
indiani. Con i leaders del Congresso in prigione, esplode la violenza in
tutta l'India, ma non nella Frontiera.
*
Dopo la guerra, l'Inghilterra si avvia a riconoscere l'indipendenza, ma c'e'
contrasto tra Congresso e Lega musulmana, su chi dovra' avere il potere.
Gravi violenze scoppiano tra indu' e musulmani. Gandhi e anche Khan,
addolorati, si recano nelle regioni piu' infuocate per pacificare gli animi
con la preghiera e il digiuno e dimostrare la fratellanza reciproca. La
violenza contagia ora anche la Frontiera, dove 10.000 khudai khidmatgar
proteggono indu' e sikh con la loro presenza disarmata. Il Congresso si
rassegna alla richiesta della Lega, di uno stato musulmano separato.
Solo Khan e Gandhi si opposero, con ragione perche' la violenza segno'
ancora l'agosto 1947, quando si incrociarono due migrazioni di quindici
milioni di persone, con violenze che fecero 500.000 morti. Rimase
un'eredita' di violenza e paura. Khan e i suoi soldati della nonviolenza
resteranno in balia dei ministri musulmani, che da anni li ostacolavano.
Gandhi promette di andare in Pakistan, senza riconoscere la frontiera, a
costo della vita. Di Khan dice: "La sua agonia interiore mi spezza il
cuore".
Nel maggio '47, Gandhi aveva tentato, parlando con tutti, di evitare la
spartizione. Frena gli indu' eccitati, difende la bonta' dell'islam
distinguendola dai musulmani violenti. Prega con una preghiera tratta dal
Corano. Khan e' con lui, angosciato per il futuro. Si separano quando Gandhi
parte per Calcutta, Khan per la Frontiera.
Il 15 agosto 1947 avveniva in pace e amicizia il passaggio delle consegne
tra l'ultimo vicere' inglese, Lord Mountbatten, e il nuovo governo
indipendente dell'India, guidato da Nehru. Gandhi, e quanti lo seguirono,
avevano realizzato il prodigio storico di trattare gli avversari con
rispetto, e anche amore, nel tempo stesso in cui rifiutavano caparbiamente
il loro dominio. Avevano combattuto senza armi e avevano conquistato la
liberta' e la pace. Ma purtroppo non c'era la pace interna. Le violenze tra
indu' e musulmani spinsero Gandhi ad un digiuno "fino alla morte" nel
gennaio 1948: la paura degli indiani di perdere "Bapu", il Mahatma, ottenne
la cessazione dei massacri. Gandhi voleva andare a piedi in Pakistan,
attraverso il Punjab, la regione che aveva visto le maggiori violenze. Ma fu
ucciso, con una Beretta italiana, nel pomeriggio del 30 gennaio, da un
fanatico indu'.
*
Un referendum, nella Frontiera, doveva scegliere tra Pakistan e India.
Badshah Khan, per evitare violenze e divisioni tra i villaggi per
generazioni, consiglio' ai khudai khidmatgar di astenersi, cosi' la
Frontiera ando' al Pakistan. I khudai khidmatgar assicurarono la loro
lealta' al nuovo stato. Khan chiese un'autonomia per la regione dei pathan,
ma per questo fu accusato di tradimento e condannato a tre anni di carcere
duro, prolungati a sette, e poi subito di nuovo incarcerato. I khudai
khidmatgar furono messi al bando e distrutte le loro sedi.
Ucciso Gandhi, incarcerato Khan, i due piu' grandi uomini di Dio di tutta
l'India erano stati sacrificati in nome della religione. Khan, in un
intervallo di liberta', fondo' il primo partito socialdemocratico del
Pakistan. Egli trascorse in carcere trent'anni, un terzo della sua vita, e
sette in esilio, ospite politico del governo afghano, ma non cesso' mai di
sostenere i principi dell'amore e del servizio, senza rancore per nessuno.
Alla sera della sua vita si accingeva a ricostruire cio' per cui aveva
vissuto e che aveva visto distruggere da dietro le sbarre della prigione.
Diceva che non cercava riposo in questa vita. "Si impara molto dalla scuola
della sofferenza. Mi chiedo cosa sarebbe stato di me se avessi avuto una
vita facile e non avessi avuto il privilegio di gustare le gioie della
prigione e tutto cio' che essa significa" (p. 231).
Easwaran paragona talvolta questi uomini a Francesco d'Assisi: come
Francesco, alla fine della vita, vide vacillare e dissolversi cio' che aveva
avviato spendendosi totalmente, movimento che pero' in seguito continuo' a
scuotere il genere umano, cosi' e' dell'opera di Gandhi, la cui alternativa
nonviolenta risalta sempre di piu', a fronte dei fallimenti pazzeschi della
politica violenta, e cosi' e' anche di Badshah Khan, che va dimostrando la
profonda consonanza dell'islam vivo e in ripresa, con la nonviolenza. Cio'
che Gandhi ha fatto nell'induismo e Martin Luther King nel cristianesimo,
Abdul Ghaffar, Badshah Khan, sta facendo nell'islam, lungo le linee profonde
di cammino degli spiriti e della storia umana.
*
Scheda: Guerra "civilizzata" 1919, 1933
C'e' sempre chi dice che la nonviolenza gandhiana ebbe gioco facile con gli
inglesi che sono dei gentiluomini, ma non puo' funzionare in altri
conflitti. Oltre gli esempi gia' riferiti, ricordo l'esempio che mi ha
colpito nel libro di Easwaran, Badshah Khan. Il Gandhi musulmano
(nell'edizione italiana, Sonda, Torino, 1990, alle pp. 14-15): con i pathan
"selvaggi" gli inglesi ritenevano impossibile la "guerra civilizzata" e
necessaria la punizione collettiva dei civili; il bombardamento aereo di
obiettivi civili fu praticato dagli inglesi, ben prima dei tedeschi a
Guernica, su Kabul e Jalabad nel 1919 dalla Royal Air Force (L. Dupree,
Afghanistan, Princeton University Press, Princeton 1980, p. 442), e su
villaggi della Frontiera (O. Caroe, The Pathans: 550 B.C. - 1957 A.D., St
Martin's Press, New York 1958, p. 408; Caroe fu l'ultimo governatore della
Frontiera prima dell'indipendenza e scrive dei pathan con comprensione,
rispetto e affetto; il suo libro e' il piu' completo sui pathan, benche'
filobritannico).
Alla conferenza sul disarmo aereo, Ginevra 1933, non la Germania ma la Gran
Bretagna si oppose alla proposta di bando del bombardamento aereo su civili.
*
Scheda 2: Su Islam e nonviolenza
Tra le molte (ma sempre insufficienti) indicazioni su Islam e nonviolenza,
segnalo le pagine 124-135 del mio libro La politica e' pace, Cittadella,
Assisi 1998, con i relativi rinvii, che oggi sono da aggiornare; gli atti
ancora inediti di un convegno su "Islam, violenza, nonviolenza", del Centro
Studi Sereno Regis, di Torino (www.cssr-pas.org); alcune voci della mia
bibliografia storica "Difesa senza guerra", disponibile in rete.

2. ET COETERA

Enrico Peyretti (1935) e' uno dei maestri della cultura e dell'impegno di
pace e di nonviolenza; ha insegnato nei licei storia e filosofia; ha fondato
con altri, nel 1971, e diretto fino al 2001, il mensile torinese "il
foglio", che esce tuttora regolarmente; e' ricercatore per la pace nel
Centro Studi "Domenico Sereno Regis" di Torino, sede dell'Ipri (Italian
Peace Research Institute); e' membro del comitato scientifico del Centro
Interatenei Studi per la Pace delle Universita' piemontesi, e dell'analogo
comitato della rivista "Quaderni Satyagraha", edita a Pisa in collaborazione
col Centro Interdipartimentale Studi per la Pace; e' membro del Movimento
Nonviolento e del Movimento Internazionale della Riconciliazione; collabora
a varie prestigiose riviste. Tra le opere di Enrico Peyretti: (a cura di),
Al di la' del "non uccidere", Cens, Liscate 1989; Dall'albero dei giorni,
Servitium, Sotto il Monte 1998; La politica e' pace, Cittadella, Assisi
1998; Per perdere la guerra, Beppe Grande, Torino 1999; Dov'e' la vittoria?,
Il segno dei Gabrielli, Negarine (Verona) 2005; Esperimenti con la verita'.
Saggezza e politica di Gandhi, Pazzini, Villa Verucchio (Rimini) 2005; e'
disponibile nella rete telematica la sua fondamentale ricerca bibliografica
Difesa senza guerra. Bibliografia storica delle lotte nonarmate e
nonviolente, ricerca di cui una recente edizione a stampa e' in appendice al
libro di Jean-Marie Muller, Il principio nonviolenza, Plus, Pisa 2004 (libro
di cui Enrico Peyretti ha curato la traduzione italiana), e che e stata piu'
volte riproposta anche su questo foglio; vari suoi interventi (articoli,
indici, bibliografie) sono anche nei siti: www.cssr-pas.org,
www.ilfoglio.info e alla pagina web
http://db.peacelink.org/tools/author.php?l=peyretti Un'ampia bibliografia
degli scritti di Enrico Peyretti e' in "Voci e volti della nonviolenza" n.
68.
*
Eknath Easwaran (1910-1999), studioso e amico della nonviolenza, autore di
vari testi di saggistica, di spiritualita' e meditazione, e' nato in un
villaggio del Kerala, in India; influenzato da Gandhi, che conobbe in
gioventu', e' stato docente di letteratura inglese all'Universita' di
Nagpur, dal 1959 e' vissuto negli Stati Uniti, dove ha fondato il "Blue
Mountain Center of Meditation" in California. Tra le opere di Eknath
Easwaran: Badshah Khan, il Gandhi musulmano, Sonda, Torino 1990; La tua vita
e' il tuo messaggio. Come raggiungere l'armonia con se stessi, gli altri, il
mondo, Pratiche, Milano 1996; Mantra. Parole, preghiere, sillabe sacre per
raggiungere l'equilibrio interiore, Red Edizioni, 2000; Quando hai fretta
cammina lentamente, Tea, Milano 2006.
*
Badshah Khan, nato nel 1890, deceduto nel 1988, un terzo della sua vita
passato in carcere sotto gli inglesi e sotto il nuovo stato pakistano; fu
leader nonviolento della lotta dei pathan ed e' ricordato come "il Gandhi
musulmano". Opere su Badshah Khan: Eknath Easwaran, Badshah Khan, il Gandhi
musulmano, Sonda, Torino 1990; Mukulika Banerjee, The Pathan Unarmed, New
Delhi, Oxford University Press, 2000.

==============================
VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
==============================
Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 132 del 12 gennaio 2008

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