La domenica della nonviolenza. 42



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LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 42 del 9 ottobre 2005

In questo numero:
1. Fabio Ragaini: Si' alla vita, si' al disarmo
2. "Azione nonviolenta" di ottobre: "Diga sim a' vida" (Diciamo si' alla
vita)
3. Elena Pulcini: La passione per l'altro, fondamento della cura
4. Werner Wintersteiner: Formare alla pace

1. EDITORIALE. FABIO RAGAINI: SI' ALLA VITA, SI' AL DISARMO
[Ringraziamo Fabio Ragaini (per contatti: grusol at grusol.it) per questo
intervento. Fabio Ragaini e' impegnato nell'esperienza del "Gruppo
Solidarieta'" di Castelpiano (Ancona), un'esperienza di volontariato che
opera nel territorio della provincia di Ancona dal 1980; oltre all'azione
concreta di solidarieta' con persone in situazioni di disagio o difficolta',
promuove incontri formativi e svolge un valido servizio di informazione e
documentazione; dal 1982 pubblica il periodico cartaceo "Appunti", e
successivamente ha anche attivato un utile sito nella rete telematica:
www.grusol.it]

Esprimo pieno sostegno al referendum brasiliano per il disarmo anche a nome
del "Gruppo Solidarieta'".
Il referendum del prossimo 23 ottobre, nel quale i cittadini brasiliani
saranno chiamati ad esprimersi sulla proibizione del commercio delle armi e
delle munizioni, e' una occasione storica per dire un forte si' alla pace e
alla vita.
Al grande coraggio della societa' e delle istituzioni brasiliane impegnate
affinche' venga proibito l'uso delle armi, ci auguriamo di cuore che il
popolo brasiliano risponda con un convinto si'.
Ne risulterebbe un messaggio formidabile per l'intero mondo. Un messaggio
che altri popoli saranno chiamati a raccogliere.

2. RIVISTE. "AZIONE NONVIOLENTA" DI OTTOBRE: "DIGA SIM A' VIDA" (DICIAMO SI'
ALLA VITA)
[Dagli amici della redazione di "Azione nonviolenta" (per contatti:
azionenonviolenta at sis.it o anche an at nonviolenti.org, sito:
www.nonviolenti.org) riceviamo e volentieri diffondiamo]

E' uscito il numero di ottobre 2005 di "Azione nonviolenta", rivista del
Movimento Nonviolento, fondata da Aldo Capitini nel 1964, mensile di
formazione, informazione e dibattito sulle tematiche della nonviolenza in
Italia e nel mondo.
In questo numero:
- Dire si' alla vita, di Giuliano Pontara;
- Ascoltare e parlare per partecipare dal basso alle scelte della politica,
intervista di Elena Buccoliero a Daniele Lugli;
- Una palestra di democrazia, per dare potere ai cittadini, di Luciano
Capitini;
- La nonviolenza nel passaggio alla societa' transculturale, di Pasquale
Pugliese;
- Le dieci caratteristiche della personalita' nonviolenta: Il coraggio, di
Lidia Menapace;
- Il successo dei campi estivi nonviolenti, di Sergio Albesano, Laura
Gentili, Claudio Greco, Roberto Cuda.
E le consuete rubriche:
- Cinema: L'intimita' lacerata dalla guerra. Per sempre, di Gianluca
Casadei;
- Economia: Spaghetti all'italiana, con pomodoro, senza armi, di Paolo
Macina;
- Musica: Omaggio a Sergio Endrigo, musicista e poeta che ripudiava la
guerra e coltivava la curiosita', di Paolo Predieri;
- Per esempio: Nonviolenza a Belfast per spezzare i fucili, di Maria G. Di
Rienzo;
- Educazione: Convegno internazionale sul decennio per l'educazione alla
nonviolenza, di Angela Dogliotti Marasso;
- Lilliput: Dialogo con un candidato su pace, guerra, disarmo, di Lisa
Clark;
- Movimento: Se vuoi la nonviolenza, finanzia la nonviolenza;
- Libri: a cura di Sergio Albesano.
In copertina: "Diga sim a' vida". Il 23 ottobre referendum in Brasile sul
commercio delle armi e delle munizioni.
In ultima: materiale disponibile.
*
Per abbonarsi ad "Azione nonviolenta" inviare 29 euro sul ccp n. 10250363
intestato ad "Azione nonviolenta", via Spagna 8, 37123 Verona.
E' possibile chiedere una copia omaggio, inviando una e-mail a:
azionenonviolenta at sis.it o anche an at nonviolenti.org scrivendo nell'oggetto
"copia di 'Azione nonviolenta'".
Redazione, direzione, amministrazione: via Spagna 8, 37123 Verona, tel.
0458009803 (da lunedi' a venerdi': ore 9-13 e 15-19), fax: 0458009212,
e-mail: azionenonviolenta at sis.it o an at nonviolenti.org, sito:
www.nonviolenti.org

3. RIFLESSIONE. ELENA PULCINI: LA PASSIONE PER L'ALTRO, FONDAMENTO DELLA
CURA
[Ringraziamo Elena Pulcini (per contatti: e_pulcini at unifi.it) per averci
messo a disposizione questo suo saggio gia' pubblicato sia in inglese che in
italiano (in Bruna Giacomini, Saveria Chemotti (a cura di), Donne in
filosofia, Il Poligrafo, Padova 2004) con il titolo "Il soggetto
contaminato. La passione per l'altro, fondamento della cura". Elena Pulcini
e' docente di filosofia sociale all'Universita' di Firenze, acuta saggista,
da anni riflette su decisivi temi morali e politici in dialogo con le
esperienze piu' vive del pensiero delle donne, dei movimenti solleciti del
bene comune per l'umanita' e la biosfera, e della ricerca filosofica, e
specificamente assiologica, epistemologica e politica contemporanea. Tra le
opere di Elena Pulcini: La famiglia al crepuscolo, Editori Riuniti, Roma
1987; Amour-passion e amore coniugale. Rousseau e l'origine di un conflitto
moderno, Marsilio, Venezia 1990; con P. Messeri (a cura di), Immagini
dell'impensabile. Ricerche interdisciplinari sulla guerra nucleare,
Marietti, Genova 1991; L'individuo senza passioni, Bollati Boringhieri,
Torino 2001; con Dimitri D'Andrea (a cura di), Filosofie della
globalizzazione, Ets, Pisa 2001, 2003; Il potere di unire, Bollati
Boringhieri, Torino 2003; con Mariapaola Fimiani, Vanna Gessa Kurotschka (a
cura di), Umano, post-umano, Editori Riuniti, Roma 2004]

1. La questione del "soggetto" si presenta come uno di quei temi
interminabili a cui il pensiero torna costantemente, pur attraverso critiche
e decostruzioni, a testimonianza del fatto che si tratta di un problema
ineludibile, nel quale convergono, ogni volta, interrogativi di rovente
attualita'.
La mia riflessione si colloca in un ambito, ormai sterminato, che e' quello
della critica del soggetto moderno; critica che e' parte costitutiva anche
del pensiero femminista, dalle sue origini fino ad oggi, e che si dirige
contro l'idea di un soggetto chiuso, isolato nella propria presunzione di
autosufficienza, separato da tutto cio' che pertiene alla sfera corporea ed
emotiva.
A questo proposito, i filosofi anglosassoni, critici del paradigma del
soggetto liberale moderno (Charles Taylor ecc.), hanno parlato negli ultimi
anni di "self disengaged" o "disembedded": cioe' di un Io svincolato dalla
propria corporeita' e dalle proprie passioni, che ha origine dalla
riflessione cartesiana, e che costituisce il paradigma stesso della
modernita', saldamente ancorato ad uno schema dualistico ed oppositivo.
Io mi colloco sicuramente in questa prospettiva critica, anzi la critica del
soggetto moderno costituisce uno dei fili conduttori del mio percorso di
ricerca. L'esito piu' recente di questo percorso e' l'elaborazione dell'idea
di soggetto contaminato: che vuole alludere, appunto, ad un soggetto non
chiuso sulle proprie certezze, ma aperto, esposto all'altro, in quanto
attraversato, "tagliato" vorrei dire, usando un termine che riprendo da
Roberto Esposito, da una "ferita" costitutiva.
Qui faccio riferimento al lessico di un filosofo francese, Georges Bataille,
che e' stato per me oggetto di vari momenti di riflessione. Da Bataille
traggo in particolare il concetto di "ferita", di blessure; che mi sembra un
concetto molto eloquente e fecondo e che possiamo poi ulteriormente
declinare come esposizione, sporgenza, apertura dei confini identitari.
Integrando il lessico bataillano con quello proprio della riflessione
femminile e femminista, potrei dire che la ferita e' prodotta, nel corpo
stesso del soggetto, dalla propria differenza interna: da quella che
propongo di chiamare la differenza in.
Penso infatti che il concetto di differenza si possa declinare in almeno due
modi: la differenza da, che e' quella che noi conosciamo meglio, e che
usiamo per opporla all'idea neutra del soggetto, affermando il diritto alla
costruzione di un'identita' "nella differenza"; e la differenza in, che e'
la dimensione interna alla soggettivita', una sorta di scarto
irricomponibile, un taglio, per l'appunto, una ferita aperta. Quest'ultima,
peraltro, rappresenta, a mio avviso, la "conditio sine qua non" della stessa
differenza da; in quanto solo se riconosciamo lo scarto che internamente ci
attraversa possiamo accedere al riconoscimento della(e) differenza(e)
esterna(e) che abita(no) l'universo plurale e complesso della nostra
esperienza.
E' su questa base che, sempre usando un lessico bataillano, propongo  dunque
l'idea di un soggetto contaminato, esposto al "contagio" con l'altro da se'.
Ora, per meglio definire il concetto di contaminazione, ritengo in primo
luogo necessario differenziarlo immediatamente da quello di "ibridazione"
che, come tutte sappiamo, appartiene alla riflessione del femminismo
postmoderno.
L'idea di soggetto contaminato mi consente di collocarmi in uno spazio che,
indubbiamente, e' quello della critica del soggetto moderno, cioe' del self
disengaged di cui parlavo prima; ma che e' anche quello di una presa di
distanza da alcune posizioni della teoria della soggettivita' postmoderna.
Mi riferisco in particolare alle due pensatrici piu' radicali in questo
senso, Judith Butler e Donna Haraway, dove centrale e' appunto il concetto
di "ibridazione".
Personalmente, sono molto sollecitata da questo tipo di riflessione, la
ritengo una riflessione degna di attenzione e di alto livello, in quanto
capace, attraverso un approccio essenzialmente decostruttivo, di porre nuove
e feconde istanze, tra cui, soprattutto, quella che tende al superamento dei
dualismi del pensiero occidentale, responsabili di gerarchie ed esclusioni.
Ma allo stesso tempo mi sento in disaccordo, laddove mi pare che il concetto
di "ibrido/ibridazione" di fatto finisca per dissolvere l'idea di
soggettivita', che invece io mi sforzo di mantenere, sia pure rivisitandola
con uno sguardo critico-decostruttivo.
Mi sembra insomma che il concetto di "ibrido" rinunci a quelle che per me
sono due componenti fondamentali di una possibile idea altra di
soggettivita'. Queste due componenti fondamentali sono quelle che, in una
prospettiva non distante da quella per esempio di Adriana Cavarero, vorrei
definire l'unicita' dell'Io e l'interazione Io-altro. Nel concetto di
"ibrido", che contiene in se' l'idea di flussi, di passaggi, di
scomposizioni e frammentazioni, mi pare appunto che si perda l'idea della
originalita' e della unicita' dell'Io, intesa come quella dimensione che
identifica quel particolare Io, con la sua storia unica e insostituibile di
passioni e ragioni, di gioie e sofferenze, di successi e fallimenti.
Non posso negare che, su questo aspetto, devo molto alla tradizione
psicoanalitica. La psicoanalisi, cioe', mi ha consentito e mi consente
tuttora di tenere fortemente presente la dimensione di un tessuto narrativo
del soggetto: sia pure di un soggetto scomposto, destituito della sua
sovranita' "cartesiana", sia pure attraversato da opacita', dimensioni
inconsce, pulsioni e passioni.
Insomma la psicoanalisi, per come io la intendo, resta tuttora quella grande
dimensione narrativa che valorizzando le patologie, i disagi e la sofferenza
del soggetto ne permette, appunto, la decostruzione e insieme la
ricostruzione, con la presa di distanza di se' da se' attraverso lo sguardo
dell'altro. Un'operazione ricostruttiva che, partendo da un complesso
materiale di frammenti, di alternanze di pieni e di vuoti, di fughe e di
ritorni, restituisce infine l'immagine di quel particolare Io, unico e
irripetibile, assolutamente originale e diverso da tutti gli altri.
Non ho timore di affermare che la mia e' una proposta di forte
enfatizzazione dell'individualita'. Non del soggetto, si badi bene, o per lo
meno non del soggetto inteso nel suo paradigma autoreferenziale; bensi' di
una singolarita' che e' comunque molteplice al suo interno, costantemente in
divenire e mai identificata con se stessa, sebbene sia quella particolare
soggettivita', con quel nome, con quella storia, e quel tessuto relazionale.
*
2. Veniamo cosi' all'altro aspetto, che per me e' imprenscindibile per la
ridefinizione del soggetto e che vorrei definire l'interazione Io-altro.
Ho riflettutto molto su quale termine usare a questo proposito; avevo
infatti inizialmente adottato l'espressione "dialettica Io-altro". Tuttavia,
io mi riconosco appunto in quella tradizione del pensiero femminile, che da
Carla Lonzi in poi, ha energicamente contestato il concetto stesso di
"dialettica". Questo, infatti, presuppone una ricomposizione sintetica del
rapporto Io-altro, un finale riassorbimento dell'altro nell'Io. Per questo
ho scelto un termine piu' neutrale, che e' quello di "interazione", il quale
consente che il rapporto Io-altro venga tenuto permanentemente aperto e non
venga ricomposto in una sintesi in cui poi, di fatto, l'altro viene
risucchiato nella storia dell'Io inteso come coscienza  egemone.
Tutto questo trova fondamento in quella che ho chiamato la differenza in, in
quello scarto che permanentemente contesta il soggetto dall'interno nelle
sue pretese di autonomia, nelle sue pretese di assolutezza. Anche qui
attingo alla tradizione francese, in particolare ad una efficace espressione
di Maurice Blanchot, nel suo piccolo ma intenso testo sulla comunita', La
comunita' inconfessabile, in cui egli usa proprio l'espressione di
"principio di contestazione interno".
La differenza dunque si configura come principio di contestazione interno,
come qualcosa che non permette mai al soggetto di ricomporsi nella sua
presunzione e illusione di autosufficienza.
Cio' non vuol dire, tuttavia, negare quella che vorrei chiamare una dimora
dell'Io, uno spazio che parla di lui, lo racconta, esponendolo agli altri a
partire da un contesto che e' fatto di quelle mura, di quei mobili, di quei
colori ed odori che formano il suo spazio vitale e ne rispecchiano, appunto,
l'unicita' e l'originalita' pur nella molteplicita', pur nell'apertura e
nella scomposizione.
In secondo luogo, come ho gia' accennato, la differenza in diventa la
matrice indispensabile per il riconoscimento (e non uso questo termine a
caso) della differenza dell'altro.
Credo inoltre che qualsiasi teoria della differenza, intesa come differenza
da, che non si fondi su un'idea di differenza in, di differenza interna,
corra un rischio di vuota retorica.
Tutti i discorsi sul multiculturalismo, sul pluralismo, sul riconoscimento,
che sono oggi di grande attualita' nel dibattito filosofico e politico, a
volte suscitano in me una certa irritazione perche' rischiano di diventare
formule vuote se non sono sostanziate da questo presupposto di fondo:
dall'assunto cioe' che noi non siamo in grado di riconoscere la differenza
dell'altro, dunque non siamo in grado di mettere in atto una dinamica di
riconoscimento, se non partiamo dalla consapevolezza della nostra stessa
differenza interna; se non partiamo cioe' dalla consapevolezza di quello
scarto che, appunto, permanentemente ci contesta dall'interno, consentendoci
di vedere l'altro. Per dirla con un bisticcio di parole che sono sicura
provocherebbe il disappunto di Rosi Braidotti, potrei affermare che solo la
differenza in ci consente di riconoscere l'altro, perche' ci fa vedere e
accettare l'altro nella sua irriducibile alterita'.
Cio' vuol dire anche che l'altro, l'altro concreto ed esterno, si configura
come la rammemorazione vivente della differenza interna che attraversa il
soggetto. L'altro e' sempre e comunque una presenza incarnata, per
l'appunto, che ci resiste, che e' altro, potremmo dire con Emmanuel Levinas,
proprio e solo in quanto ci "resiste", e non e' dunque appropriabile ne'
assimilabile.
Ma, vorrei ribadire, noi siamo in grado di vedere questa resistenza, di
misurarci con questa resistenza, solo se sappiamo riconoscere l'alterita'
come dimensione interna; solo se ci poniamo in una posizione "ospitale",
direbbe Jacques Derrida, rispetto alla differenza che e' dentro di noi e che
ci impedisce di adagiarci nei confini rassicuranti di un'identita' statica e
definitiva.
*
3. Ora, nella mia prospettiva, il nesso stringente che sto tentando di
proporre tra altro/alterita'/differenza, trova fondamento in un concetto che
costituisce una sorta di ricorrente leit-motiv nel mio percorso: vale a dire
il concetto di passione.
Assumo in questo contesto l'idea di "passione" come la dimensione stessa, il
luogo stesso in cui si produce quell'apertura, in cui si apre quella ferita,
quel taglio di cui parlavo prima; il luogo insomma in cui si origina quel
desiderio di contaminazione e di contagio che appunto espone il soggetto
alla perdita di se'. Dove e' bene precisare subito che perdita di se' non
vuol dire, si badi bene, oblio di se', sacrificio, rinuncia, ma apertura dei
confini quale condizione essenziale per aprirsi all'altro: o meglio,
appunto, al desiderio dell'altro.
Desiderio dell'altro, o se volete, passione per l'altro, e' un'espressione
che mi consente di liberare l'idea di alterita' e la relazione Io-altro da
qualsiasi retorica altruistica.
Vorrei fare a questo proposito solo un esempio, che per me e' particolamente
significativo. Nel lavorare sul concetto di "dono", che e' tra i piu'
inflazionati da questo tipo di retorica, ho provato proprio a fare questa
operazione: ho assunto il dono non come un atto che scaturisce da un
atteggiamento caritatevole e oblativo, dettato appunto da un oblio di se' e
da una vocazione sacrificale, ma da una pulsione che nasce dalla passione
per l'altro; e che quindi, in quanto tale, rispetta profondamente la nostra
soggettivita' e le sue piu' autentiche esigenze, pur aprendola alla
relazionalita' e alla reciprocita'.
Ma ora non posso fermarmi ulteriormente su questo. Vorrei invece fare un
paio di precisazioni relative alla necessita' di decostruire il concetto di
"passione", in almeno due direzioni: "passione" infatti vuol dire
un'infinita' di cose, viene usato in un'infinita' di modi. Bisogna allora
cominciare a costruire differenziazioni all'interno del lessico della vita
emotiva.
Su questo punto, noi siamo ancora fortemente condizionati(e) dai dualismi
del pensiero occidentale. Uno di questi dualismi e' proprio quello
ragione-passione che noi continuiamo a pensare come due blocchi granitici ed
opposti. In realta' ci sono tante ragioni e ci sono tante passioni, ci sono
molte passioni ragionevoli e molte ragioni appassionate, e questo dovrebbe
indurci a riconoscere l'intreccio, piuttosto che l'opposizione fra queste
due dimensioni.
Bisogna inoltre tematizzare la distinzione tra "passione", "desiderio",
"sentimento", "emozione", su cui raramente si riflette. Lo stesso pensiero
femminista ha molto lavorato sul concetto di "desiderio", trascurando tutto
il resto, con un atteggiamento che a me pare quasi di rimozione. Invece, uno
degli aspetti per me piu' importanti e' stato quello di capire come uno dei
problemi inerenti alla costruzione della soggettivita' femminile fosse
legato proprio all'associazione del femminile con quella particolare
dimensione emotiva che altrove ho definito il sentimento. Il sentimento e'
qualcosa che non coincide ne' con la ragione ne' con la passione; e'
qualcosa di pacato, di controllato, e' qualcosa di duraturo e di gestibile,
su cui si fonda tutta la costruzione della soggettivita' femminile moderna a
partire da Rousseau. E' cio' a cui si ancora l'immagine del femminile come
essenzialmente definita dal materno e dalla cura. Ma su questo tornero' piu'
avanti.
Ora invece vorrei restare sul tema del desiderio. Su questo punto, dico
subito che ho trovato della assonanze, per lo meno di partenza, con le
riflessioni di Teresa de Lauretis, per esempio in Soggetti eccentrici;
mentre mi sento in parte in dissonanza dalle posizioni caratterizzate da
quella che definirei una visione euforica del desiderio. Penso al libro di
Lia Cigarini e Ida Dominianni su La politica del desiderio, e alle
riflessioni di Rosi Braidotti.
La mia impressione e' che sul tema del desiderio ci sia una sconcertante
convergenza tra voci del femminismo, anche molto diverse tra loro, come sono
appunto la prospettiva di Cigarini e Dominijanni da un lato e quella di
Braidotti dall'altro. Comune a queste posizioni e' una sorta di enfatica
valorizzazione del desiderio, che trova evidentemente origine, e trae una
sua legittimita', dalla necessita' di sottrarre il desiderio femminile al
secolare mutismo e alla persistente rimozione a cui e' stato a lungo
condannato.
Ma questa euforia impedisce, a mio avviso, di cogliere gli aspetti oscuri e
ambivalenti del desiderio. Il desiderio puo' infatti essere distruttivo,
perche', come di nuovo ci insegna la prospettiva psicanalitica, assunta
peraltro da Teresa de Lauretis, esso e' intrinsecamente opaco,
potenzialmente cieco. Cio' vuol dire che in qualche modo noi non riusciamo
facilmente a illuminarne e controllarne la dinamica, e che di conseguenza
esso puo' diventare padrone di noi, sottraendosi alla nostra capacita' di
gestirlo.
Da questo punto di vista, non e' sufficiente, a mio avviso, neppure la
prospettiva foucaultiana. Foucault ci dice, infatti, che i desideri sono
prodotti e manipolati dai "discorsi" (medico, politico, economico, e oggi
aggiungiamo, bio-tecnologico, informatico,mass-mediale). Ma cio' significa
ricondurre tutto ad un fattore esterno, in una sorta di contrapposizione tra
il potere dei discorsi e i soggetti. Si finisce cosi' per trascurare
l'elemento della seduzione -su cui ha posto l'accento un filosofo come
Baudrillard - e della complicita' dei soggetti con le pratiche discorsive. I
"discorsi", in altre parole, non si ergono di fronte a noi come un potere
coercitivo esterno ed astratto, ma siamo noi che ci lasciamo manipolare
dalle pratiche discorsive in quanto ne subiamo la seduttivita', il fascino
"sirenico".
Cio' mi consente di fare un riferimento, sia pure breve in questo contesto,
al problema della tecnica, del discorso tecnologico e, appunto, delle sue
seduzioni. Perche' e' proprio l'idea di "seduzione" che ci consente di
uscire da quella falsa polarizzazione tra demonizzazione/esaltazione della
tecnica che ritroviamo anche nell'universo femminista (per esempio se
mettiamo a confronto il femminismo italiano con le provocatorie posizioni di
Donna Haraway). Il problema, oggi, non e' ne' quello di rifiutare lo
sviluppo della tecnica ne' quello di salutarlo con ottimismo, bensi' quello
di sottrarsi alle sue seduzioni, e alla presa che essa ha sui nostri piu'
profondi e reconditi desideri, sulle nostre mitologie e fantasie.
La mia tesi dunque e' che noi possiamo interrompere la spirale illimitata
della tecnica solo laddove interrompiamo la spirale illimitata dei nostri
desideri; noi possiamo riassumere potere sulla tecnica laddove noi
riassumiamo potere sui nostri desideri.
*
4. Si tratta dunque di riflettere sul nesso tra desiderio e potere. E
veniamo cosi' al terzo concetto di fondo su cui vi invito a riflettere: il
concetto di potere.
Qui ho trovato estremamente fecondo il pensiero di un filosofo moderno,
Spinoza, che ci consente appunto di elaborare l'idea di "potere" in stretta
relazione con  quello di "desiderio".
Spinoza definisce il potere come "potenza", come vis existendi, che trova
origine e alimento nel desiderio. La potenza di esistere e' tale solo in
quanto il soggetto desidera, poiche' il desiderio e' "l'essenza stessa
dell'uomo", e' lo sforzo di perseverare nel proprio essere. Ma allo stesso
tempo, la potenza e' anche la capacita' di riconoscere l'opacita' dei
desideri, o meglio del Desiderio, proprio con la D maiuscola; di sottrarre
il desiderio alla sua cecita', di comprenderne in primo luogo la dinamica.
Ci sarebbe molto da dire su questo, per esempio sottolineando le evidenti
convergenze tra il discorso spinoziano e le analisi freudiane nel rilevare
le possibili derive distruttive e depotenzianti del desiderio.
Ma il punto che vorrei sottolineare e' il seguente: acquisire potenza
significa si' valorizzare il desiderio in funzione della propria felicita',
ma anche comprenderne i percorsi e le dinamiche, sottoporli ad un processo
ermeneutico, per liberarli dalla loro opacita', e dunque dalla loro
illimitatezza; riconoscendone con indulgenza le ambivalenze, le patologie, i
risvolti chiaroscurali, per tornare ad orientarli in modo che essi agiscano
da fattore potenziante della soggettivita', restituendole la sua capacita'
di porsi attivamente, e non passivamente, rispetto alla propria vita
emotiva.
Si potrebbe allora dire che la potenza emerge quando si incrina
l'onnipotenza del desiderio.
La potenza, intesa non come potere-dominio e neppure soltanto come
"autonomia" in senso liberale e moderno, ma come sviluppo delle energie
positive, come "fioritura" del Se', potremmo dire con Martha Nussbaum, si
configura laddove riusciamo a porci criticamente rispetto all'onnipotenza
del desiderio.
Ora, cio' su cui vorrei portare l'attenzione e' che la necessita' di questo
atteggiamento critico riguarda anche le donne. Dal momento in cui esse
acquistano cittadinanza, dal momento in cui si fanno soggetti sia
nell'ambito della sfera privata che in quello della sfera pubblica, le donne
sono anch'esse esposte all'illimitatezza e all'onnipotenza del desiderio.
L'acquisizione di potenza diventa allora cio' che consente di opporsi, di
"resistere", direbbe Foucault, al potere dei discorsi; che vuol dire oggi in
particolare opporsi, soprattutto per le donne, al potere tecnologico inteso
come potere sulla vita, come bio-potere.
Il bio-potere e' infatti attualmente una delle piu' inquietanti
configurazioni del potere dei discorsi, in quanto esso si esercita sui corpi
e lo fa in maniera pervasiva, globale, capillare, colonizzando la sfera
stessa del desiderio, ottenendone la complicita' attraverso tecniche
persuasive e invisibili di seduzione.
Le donne, in quanto soggetti capaci di generare, di dare la vita (perlomeno
fino a quando lo strapotere della tecnica non le avra' espropriate anche di
questo), sono i primi soggetti investiti dal bio-potere, le prime potenziali
vittime della sua forza seduttiva, le prime possibili complici della sua
vocazione all'illimitatezza.
Allora, potremmo dire, la complicita' col bio-potere si spezza quando esso
non riesce piu' a far presa sui desideri delle donne, quando le donne
riassumono un rapporto attivo e consapevole verso la loro vita emotiva,
sottraendola ad ogni pretesa di sacralita'; quando esse, dunque, oppongono
la loro potenza al potere seduttivo ed espropriante del discorso
(bio)tecnologico.
*
5. Ma quand'e' che si incrina l'onnipotenza del desiderio? Che cos'e' che
mette in discussione l'illimitatezza del desiderio?
E' qui che entra prepotentemente la figura dell'altro.
Ancora una volta Spinoza ci da' un'indicazione preziosa, quando afferma che
felicita' e virtu', vale a dire realizzazione di se' e attenzione all'altro,
sono indissociabili. Rovesciando un topos della filosofia morale moderna,
Spinoza dice addirittura che non e' la virtu' che e' fonte di felicita', ma
e' la felicita' che e' fonte di virtu': dove "virtu'" indica appunto la
capacita' di tener conto dell'altro. Cio' vuol dire che la potenza e' quel
tipo di potere che coniuga insieme questi due aspetti, e' un potere che si
forma si' a partire dalla necessita' di soddisfare il proprio desiderio di
felicita', di dare voce alle proprie aspirazioni, di aderire alle proprie
passioni, ma che lo fa tenendo conto dei desideri dell'altro.
Sviluppando questa indicazione, si potrebbe dire che e' la presenza
dell'altro, la resistenza dell'altro - che ci chiama all'attenzione, al
rispetto e alla cura - cio' che puo' interrompere la spirale di
illimitatezza del desiderio.
Non si tratta dunque di porre un limite, in senso quantitativo, ai propri
desideri, vale a dire di non incorrere nell'eccesso e nell'esagerazione, di
non varcare la soglia di cio' che e' eticamente lecito. Perche' il limite
non puo' essere che un concetto eminentemente qualitativo, che scaturisce
non da forme doveristiche di autocontenimento o di adesione alle regole
morali, ma dal nostro stesso desiderio di fare attenzione all'altro,
soprattutto all'altro in quanto "significativo", potremmo dire con Mead, e
in quanto presenza concreta nel percorso della nostra biografia.
Il limite, vorrei proporre, e' dato dalla passione per l'altro, dal
riconoscimento dell'altro come dimensione ineludibile, costitutiva della
propria identita' e della propria chance di felicita'.
Il limite, in altri termini - e vengo qui all'ultimo lemma su cui voglio
richiamare la vostra attenzione - e' dato dalla volonta' di prendersi cura
dell'altro.
Ora, e' noto che sulla "cura" c'e' stato un enorme dibattito, che ha avuto
origine dal libro di Carol Gilligan, Con voce di donna, un libro forse
sopravvalutato, ma che evidentemente ha toccato un punto nevralgico.
Partendo di qui, la mia proposta e' quella di riassumere con forza il
concetto di cura, curvandolo pero' in una diversa prospettiva. Premetto
subito che questo e' un punto nodale su cui sto lavorando da tempo, anche
nell'ambito delle mie ricerche sulle trasformazioni dell'Io nell'eta'
globale. Percio' mi limitero' qui a fornire solo alcuni spunti per la
discussione, cosi' da cominciare ad aprire nuove prospettive per una
riflessione sulla cura che e' evidentemente tutta ancora in progress.
Cio' che propongo e' di disidentificare il concetto di cura da una
prospettiva "maternalistica", in cui in parte ricade anche la riflessione a
partire da Gilligan in poi. Vorrei insomma svincolare il concetto di cura da
quell'accezione inevitabilmente altruistica e oblativa che esso finisce per
assumere se resta legato alla dimensione materna.
Vorrei, in altri termini, suggerire un'accezione di cura che scaturisce
intimamente dalla mia nozione di soggetto contaminato e che dunque mi
permette, in ultima istanza, di ricollegarmi alle premesse iniziali di
questa mia riflessione.
In questa prospettiva, la cura non e' da intendersi come qualcosa che deriva
dall'attitudine a privilegiare l'altro, peculiare di una psicologia materna,
ma come la risposta ad un bisogno stesso dell'Io: di un Io, appunto, esposto
alla contaminazione.
La cura, in altri termini, e' la risposta di un soggetto cosciente della
propria ferita (per riprendere il lessico bataillano), della propria
apertura, della propria vulnerabilita' e dipendenza. Mi piace molto, a
questo proposito, un termine che traggo da Martha Nussbaum, che e' quello di
"neediness", bisognosita'.
Il soggetto ferito e' un soggetto bisognoso e cosciente della propria
bisognosita' e carenza; ed e' capace di cura solo in questo senso, cioe'
solo a partire dal fatto che si riconosce esso stesso bisognoso di cura.
E' qui che si instaura quel circuito di reciprocita' (su cui mi ero
soffermata sopra a proposito del dono), che ci consente di superare ogni
dualismo tra egoismo-altruismo, desiderio-cura, Io-altro, prefigurando un
soggetto capace di coniugare insieme aspetti tradizionalmente opposti.
Mi pare, per concludere, che questa prospettiva possa produrre almeno tre
conseguenze fondamentali: la prima e' quella di considerare il materno non
come il "fondamento" dell'attitudine alla cura, ma come una, e soltanto una,
delle sue possibili epifanie, liberando le donne da ogni aprioristica
identificazione con un ruolo secolare. La seconda e' quella di estendere la
possibilita' della cura anche ai soggetti maschili, laddove essi siano
disposti a riconoscere la loro bisognosita' e dipendenza. La terza, last but
not least, e' quella di aprire i confini della cura, tradizionalmente
relegata, in virtu' della sua identificazione col materno, alla sfera intima
e privata; e di concepirla come una pratica capace di investire anche la
sfera pubblica e politica, la quale, come appare drammaticamente evidente,
sembra avere un gran bisogno della disponibilita' all'attenzione, della
sapienza del legame, delle pratiche di reciprocita'.
*
Bibliografia
- Bataille Georges, Sur Nietzsche, in Oeuvres Completes, Gallimard, Paris
1973; trad. it. Su Nietzsche, Cappelli, Bologna 1980.
- Benhabib Sheyla, The Concrete Other and the Generalized Other, in Benhabib
Sheila, Cornell Drucilla, Feminism as Critique. On the Politics of Gender,
University of Minnesota Press, Minneapolis 1987.
- Blanchot Maurice, La communaute' inavouable, Minuit, Paris 1983; trad. it.
La comunita' inconfessabile, Feltrinelli, Milano 1984.
- Boccia Maria Luisa, Zuffa Grazia, L'eclisse della madre. Fecondazione
artificiale, tecniche, fantasie e norme, Pratiche, Milano 1998.
- Boccia Maria Luisa, La differenza politica. Donne e cittadinanza, Il
Saggiatore, Milano 2002.
- Botti Caterina, Bioetica ed etica delle donne. Relazioni, affetti e
potere, Zadig, Milano 2000.
- Braidotti Rosi, Soggetto nomade. Femminismo e crisi della modernita',
Donzelli, Roma 1995.
- Braidotti Rosi, In metamorfosi. Verso una teoria materialista del
divenire, Feltrinelli, Milano 2003.
- Butler Judith, Gender Trouble: Feminism and Subversion of Identity,
Routledge, New York 1990.
- Cavarero Adriana, Tu che mi guardi, tu che mi racconti, Feltrinelli,
Milano 1997.
- Cigarini Lia, La politica del desiderio, Pratiche, Parma 1995.
- De Lauretis Teresa, Soggetti eccentrici, Feltrinelli, Milano 1999.
- Dominianni Ida, Il desiderio di politica, in Cigarini, op. cit.
- Esposito Roberto, Communitas. Origine e destino della comunita', Einaudi,
Torino 1998.
- Foucault Michel, La volonte' de savoir, Gallimard, Paris 1976; trad. it.La
volonta' di sapere, Feltrinelli, Milano 1978.
- Foucault Michel, Microfisica del potere, Einaudi, Torino 1977.
- Gilligan Carol, In a Different Voice, Harvard University Press, 1982;
trad. it. Con voce di donna, Feltrinelli, Milano 1987.
- Godbout Jacques, L'esprit du don, La Decouverte, Paris 1992; trad. it. Lo
spirito del dono, Bollati Boringhieri, Torino 1993.
- Griffin Gabriele, Braidotti Rosi (eds.), Thinking differently. A Reader in
European Women's Studies, Zed Books, London and New York, 2002.
- Haraway Donna J., Manifesto cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del
corpo, Feltrinelli, Milano 1995  (ed. orig. Routledge, New York - Free
Association Books, London).
- Levinas Emmanuel, Totalite' et infini, Nijhoff, La Haye 1961; trad. it.
Totalita' e infinito, Jaca Book, Milano 1977.
- Muraro Luisa, L'ordine simbolico della madre, Editori Riuniti, Roma 1991.
- Nussbaum Martha, Upheavals of Thought. The Intelligence of Emotions,
Cambridge University Press, Cambridge 2001.
- Pulcini Elena, L'individuo senza passioni. Individualismo moderno e
perdita del legame sociale, Bollati Boringhieri, Torino 2001.
- Pulcini Elena, Il potere di unire. Femminile, desiderio, cura, Bollati
Boringhieri, Torino 2003.
- Spinoza Benedetto, Etica (1677), Utet, Torino 1972.
- Taylor Charles, Sources of the Self, Harvard University Press, Cambridge
Mass. 1989; trad. it. Radici dell'Io, Feltrinelli, Milano 1993.
- Vegetti Finzi Silvia, Volere un figlio. La nuova maternita' fra natura e
scienza, Mondadori, Milano 1997.

4. RIFLESSIONE. WERNER WINTERSTEINER: FORMARE ALLA PACE
[Ringraziamo Francesco Pistolato (per contatti: fpistolato at yahoo.it) per
averci messo a disposizione il seguente testo, estratto da: Wintersteiner,
Werner, Friedenskompetenz als universitaere Aufgabe, in: Wintersteiner,
Werner et al. (a cura di), Wissenschaft Frieden. Friedenspaedagogik in der
Lehrerinnenbildung, Drava Verlag, Klagenfurt 2005, pp. 279-306).
Francesco Pistolato, studioso, docente, lavora all'Universita' di Udine; e'
tra i promotori di un programma di cultura di pace all'interno delle
universita' e delle scuole della macroregione Alpe Adria, comprendente il
Friuli-Venezia Giulia, la Carinzia e la Slovenia; e' altresi' impegnato
nell'Associazione Biblioteca Austriaca di Udine, che ha tra l'altro
realizzato una mostra fotografica itinerante sulla Resistenza, gia' esposta
in vari luoghi, tra cui la Risiera di S. Sabba di Trieste, e che e a fine
2005 andra' nella Gedenkstaette des Deutschen Widerstands di Berlino, ed e'
visitabile in rete nel sito: www.abaudine.org/virtunascosta/virtu.htm
Werner Wintersteiner e' nato nel 1951 a Vienna e insegna Didattica del
tedesco all'Universita' di Klagenfurt. Da venti anni si occupa di educazione
alla pace. Promotore di molteplici iniziative in questo campo, membro di
comitati internazionali, fondatore dell'Eured e promotore del Centro per le
ricerche sulla pace e l'educazione alla pace, ha curato l'edizione di varie
riviste e pubblicato circa 150 contributi sull'educazione alla pace. Qui ci
limitiamo a citare le sue monografie: Paedagogik des Anderen. Bausteine fuer
eine Friedenspaedagogik in der Postmoderne. Muenster: Agenda 1999; "Haetten
wir das Wort, wir braeuchten die Waffen nicht". Erziehung fuer eine "Kultur
des Friedens", Innsbruck-Wien-Muenchen: Studien Verlag 2001; Poetik der
Verschiedenheit. Literatur, Bildung, Globalisierung. Klagenfurt: Drava 2005
(in corso di stampa); Transkulturelle literarische Bildung. Die "Poetik der
Verschiedenheit" in der literaturdidaktischen Praxis. Innsbruck: Studien
Verlag 2005 (in corso di stampa)]

"Alla base della professione di medico, di assistente sociale e della nuova
figura dell'operatore di pace, sta l'esigenza di unire la sensibilita' del
cuore e il sapere della testa in un'idea di professione in cui il lavoro sia
sempre basato sulla conoscenza specialistica e abbia lo scopo di migliorare
le condizioni dell'esistenza umana" (Johan Galtung) (1)

1. La politica di pace ha bisogno di una ricerca sulla pace a livello
accademico
Chi critica il fatto che violenza e guerra siano le forme di relazione
sociale prevalenti, tanto nelle relazioni interne che internazionali, si
sente rispondere che la causa va ricercata nella "natura dell'uomo" o "nelle
costrizioni della politica internazionale", contro le quali "purtroppo -
cosi' si sostiene - si e' impotenti".
A prescindere dal fatto che questa argomentazione  non regge in nessun modo
ad un esame scientifico (si veda ad esempio la Dichiarazione di Siviglia
sulla violenza (2), essa serve anche a nascondere i fatti. Infatti, cio' che
con queste sbrigative affermazioni scompare dalla visuale, e' il fatto che
per il riarmo, per le strategie di guerra e di manipolazione della
popolazione a sostegno della guerra e degli atti di violenza perpetrati
dallo Stato, si spendono somme enormi.
Interi eserciti di scienziati vengono fatti lavorare e pagati per questo,
cioe' per produrre una condizione di "cultura della violenza" e per
mantenerla al massimo livello, dall'alto del quale si afferma, con falsa
compassione, che questa e' la "condizione naturale" dell'uomo. In stridente
contrasto con questo spiegamento di mezzi stanno le piccole somme spese per
l'indagine delle cause e delle condizioni della pace. Non puo' esservi alcun
dubbio che una ricerca sistematica sulla pace potrebbe dare un contributo
alla pace pari almeno a quello che la ricerca bellica fornisce oggi per la
guerra.
*
2. La pace ha bisogno di una formazione alla pace
Lo studio pubblicato da Jacques Delors, "Nell'educazione un tesoro" (3), si
pone come scopo la ridefinizione della formazione a fronte delle sfide del
ventunesimo secolo, l'indicazione delle tendenze globali e l'elaborazione
dei principi decisionali su cui dovra' basarsi la politica della formazione.
Tra le affermazioni piu' importanti contenute nello studio vi e' quella
secondo cui la formazione deve essere intesa come permanente, dato che le
esigenze sono sempre soggette a mutamento. Inoltre lo studio afferma che il
concetto di formazione andrebbe rivisto, emancipandolo dalla mera
prospettiva "commerciale".
Lo scopo prioritario della formazione e' molto di piu': l'abilitazione alla
partecipazione alla vita sociale, l'autorealizzazione, lo sviluppo di tutti
i talenti della persona, la capacita' di dialogo e la convivenza pacifica. I
principi di questo nuovo apprendimento vengono riassunti in quattro
dimensioni: imparare a essere, a conoscere, a fare e a vivere insieme.
Il punto di partenza e il cardine di tutte le riflessioni sulla formazione
sono i cambiamenti a livello mondiale, quelli che noi oggi contrassegniamo
come "globalizzazione". Essi ci "costringono" a concepire la formazione come
educazione alla convivenza pacifica nella societa' mondiale: "Gli ampi
cambiamenti negli stili di vita tradizionali ci obbligano a cercare di
capire meglio gli altri esseri umani e il mondo nel suo insieme. Sono
richieste comprensione reciproca, scambi pacifici e naturalmente armonia;
proprio di queste cose difetta maggiormente il nostro mondo oggi" (4).
Sempre in cooperazione con l'Unesco, il sociologo e filosofo francese Edgar
Morin ha riassunto "I sette saperi necessari all'educazione del futuro" (5).
Questo testo, che costituisce una sintesi del pensiero complessivo di Morin
sull'educazione, ha come obiettivo la preparazione della giovane generazione
a vivere in "un'era planetaria" (un concetto chiave in Morin). L'educazione
alla pace viene esplicitamente definita scopo educativo essenziale, che
pero' puo' essere raggiunto solo quando verra' sviluppata "un'etica del
genere umano": "L'educazione non deve contribuire solo a una presa di
coscienza della nostra patria, la Terra, ma anche far si' che questa
consapevolezza generi la volonta' di realizzare la cittadinanza della Terra"
(6).
Ancora piu' concreto e' Oskar Negt (7), che distingue cinque "competenze
chiave della societa'", di cui dovrebbero essere forniti gia' gli
adolescenti:
- Competenza dell'identita': imparare a convivere con le minacce alla
propria identita' e con la perdita dellí'identita', una competenza che, in
un'epoca di  assoluta "flessibilita'", costituisce la premessa per  lo
sviluppo della personalita'.
- Competenza tecnologica: comprendere gli effetti sociali della tecnologia,
per non cadere ne' in una cieca fiducia in essa, ne' in una conformistica
condanna delle conquiste tecnologiche. Cio' significa sviluppare una
facolta' di discernimento, che consenta di distinguere le tecnologie
negative dal semplice uso sbagliato di tecnologie utili.
- Competenza della giustizia: acquisire sensibilita' per i fenomeni di
espropriazione, per  il giusto e l'ingiusto, per l'uguaglianza e la
disuguaglianza. La sensibilita' naturale per la giustizia rischia di andare
persa nelle societa' moderne. Non si tratta di una qualita' caratteriale,
bensi' di un sapere che serva a orientarsi nel mondo di oggi, altrettanto
importante quanto il saper leggere, scrivere e far di conto.
- Competenza ecologica: la relazione rispettosa con le persone, la natura e
le cose. Non si tratta solo della rimozione di danni ecologici, la quale
puo' essere concepita di nuovo come una faccenda tecnica. Competenza
ecologica vuol dire invece "riconoscere che esseri umani, natura e cose
hanno proprie leggi" rinunciare alla loro "sopraffazione", cioe' ad imporre
ad essi leggi a loro estranee (8).
- Competenza storica: capacita' di ricordare e capacita' di concepire
l'utopia. Nell'epoca della crescita tecnologica accelerata e della rapida
svalutazione delle cose, la tenacia e la capacita' di ricordare hanno scarso
valore, ma proprio queste qualita' sono la premessa per un sapere storico e
per la comprensione della storia, e con cio' della capacita' di prepararsi
al futuro. Infatti "la memoria sociale e la capacita' utopistica sono due
facce della stessa medaglia" (9).
*
3. La competenza di pace deve diventare per tutti una competenza di base
Cosa significa dunque competenza di pace? In base alle argomentazioni di
Delors o Negt, la si deve innanzitutto definire come "competenza chiave"
oppure "competenza di base", premessa di tutte le altre competenze.
Per questo motivo essa deve essere fornita gia' nelle scuole dell'obbligo e
in quelle superiori, oltre che nelle forme di educazione giovanile
extrascolastica e nella formazione degli adulti.
Si tratta di quelle conoscenze, capacita' e atteggiamenti di cui ogni
persona dovrebbe disporre, non solo per comportarsi in modo pacifico e
civile, ma anche per poter discutere e attivamente cooperare in modo
responsabile e competente all'interno della societa' e a livello politico,
contribuendo a orientare i valori nel senso della pace.
Fornire competenze di pace significa quindi collegare nell'educazione la
dimensione sociale a quella politica.
Le competenze di pace attengono al rapporto con la violenza in ambito
sociale e politico. Esse non hanno come scopo semplicemente di creare una
disposizione pacifica, non vogliono indurre a una generica mitezza o
gentilezza; al contrario, esse vogliono generare una capacita' a fornire un
contributo attivo alla pace all'interno della societa'. Le competenze di
pace debbono perlomeno comprendere:
- la gestione costruttiva dei conflitti (nei rapporti personali, tra gruppi
e a livello politico);
- la consapevolezza politica, intesa come "consapevolezza mondiale" (nozioni
di base dell'educazione politica, intesa come  educazione cosmopolita);
- la competenza interculturale (sensibilita' e rispetto nel rapporto con
"l'altro")
- insieme di valori, atteggiamenti, comportamenti e stili di vita che
rifiutino la violenza (violenza nella vita quotidiana, tra i sessi, nella
politica, nei rapporti internazionali: forme di violenza culturale,
strutturale e diretta).
Come si vede, qui si tratta da un lato di precise abilita' e capacita' nella
relazione personale, di disponibilita' ad attivarsi a livello personale; e
dall'altro di una metacompetenza, di un sapere circa le cause strutturali e
politiche di situazioni in cui la mancanza di pace e' conseguenza di
comportamenti voluti; come anche nella di comprendere quali siano le
indispensabili premesse della pace.
*
4. Necessita' della formazione degli insegnanti in materia di pace
Betty Reardon, fondatrice e da molti anni direttrice del Peace Education
Center presso il Teachers' College della Columbia University di New York,
spiega cosi' la necessita' della formazione degli insegnanti in materia di
pace: "Noi non dovremmo limitarci ad aspettare che gli insegnanti forniscano
i valori di una cultura della pace. Noi dobbiamo chiedere che essi vengano
preparati per questo, in modo determinato, esplicito e sistematico. La
formazione dei formatori e' il piu' importante settore della formazione
superiore, per quanto attiene alla possibilita' della nascita di una cultura
della pace" (10).
Sotto questo profilo la situazione appare ancora abbastanza carente,
nonostante i numerosi documenti internazionali che richiedono l'avvio di una
formazione degli insegnanti in materia di pace. Per questa ragione  nel 1999
e' stata lanciata una Global Campaign for Peace Education (11), in occasione
della conferenza sulla pace a L'Aia (esattamente cento anni dopo la prima
storica conferenza sulla pace dell'Aia).
La campagna consiste nel creare una  rete di pedagoghi della pace di livello
universitario, scolastico e interni alle ong, che disponga anche di numerosi
contatti con le istituzioni pubbliche competenti per la formazione. Questa
rete si estende a tutti i continenti; e a differenza di molte altre
iniziative, vi e' un'influente rappresentanza del "Sud globale".
Scopo di questa rete e' di realizzare l'educazione alla pace in tutti i
paesi e a tutti i livelli del sistema formativo.
La Global Campaign, in cooperazione con il Department for Disarmament
Affairs dell'Onu ha avviato al momento quattro progetti pilota pluriennali
per l'introduzione dell'educazione alla pace in societa' postbelliche,
esattamente in Albania, Cambogia, Niger e Peru' (12).
Inoltre la campagna ha pubblicato un manuale, "Learning to Abolish War"
(13), che e' appena stato tradotto in numerose lingue.
*
Note
1. Galtung, Johan, Friedensforschung als universitaeres Studienfach: wie
geht es weiter?, in: AA. VV., Arbeit am verlorenen Frieden. Erkundungen im
Spannungsfeld von Theorie und Praxis, agenda 1993, Muenster, pp. 161-2
2. Il 16 maggio 1986 e' stata formulata, da venti scienziati una
dichiarazione sul problema della violenza come contributo all'Anno
internazionale della pace 1986, sottoscritta anche dal biochimico spagnolo
Federico Mayor, che nel 1987 diventera' direttore generale dell'Unesco. In
essa si nega ogni giustificazione biologica della violenza e la guerra, e si
afferma al contrario: "La biologia non condanna l'umanita'  alla guerra...
cosi' come 'le guerre cominciano nella mente degli esseri umani', anche la
pace comincia nella nostra mente. La stessa specie che ha inventato la
guerra puo' inventare la pace. In questo compito ciascuno di noi ha la sua
parte di responsabilita'". La Dichiarazione di Siviglia e' stata finora
approvata da piu' di cento associazioni scientifiche nazionali e
internazionali, tra cui il Consiglio Internazionale di Psicologia
(International Council of Psychologists) e, negli Stati Uniti, le
associazioni nazionali di categoria per la psicologia, psicologia sociale e
antropologia (American Psychological Association; Society for the
Psychological Study of Social Issues; American Anthropological Association).
Il testo integrale della Dichiarazione di Siviglia in italiano e' in:
http://www.infolav.org/allegati/1/481_Dichiarazione_di_Siviglia.PDF
3. Delors, Jacques, Nell'educazione un tesoro. Rapporto all'Unesco della
Commissione internazionale sull'educazione per il ventunesimo secolo,
Armando Editore, Roma 1997.
4. Ivi (la citazione e' qui tradotta dal tedesco)
5. Morin, Edgar, I sette saperi necessari all'educazione del futuro,
Raffaello Cortina Editore, Milano 2001.
6. Ivi (la citazione e' qui tradotta dal tedesco).
7. Negt, Oskar, Kindheit und Schule in einer Welt der Umbraeche, Steidl,
Goettingen, 2002.
8. Ivi, pag. 243.
9. Ivi, pag. 245.
10. Reardon, Betty, Educating the Educators: the preparation of teachers for
a culture of peace, Peace Education Miniprints, n. 99, Malmoe, 1999.
11. http://www.haguepeace.org/index.php?action=pe
12. Peace and Disarmament Education. Changing Mindsets to Reduce Violence
and Sustain the Removal of Small Arms. New York: Hague Appeal for Peace
2005. Anche scaricabile dal sito
http://www.haguepeace.org/index.php?action=resources
13. Scaricabile in inglese dal sito di cui alla nota 12. La traduzione
italiana verra' curata dall'Associazione Biblioteca Austriaca di Udine e
sara' pronta, si spera, entro il 2006 (per informazioni:
fpistolato at yahoo.it).

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LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA
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Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 42 del 9 ottobre 2005

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