Amartya Sen: Democrazia export



Ricevo e inoltro.

Shalom, tonio

Si può esportare la democrazia?
La domanda è stata rivolta ad Amartya Sen.
Potete leggere la sua lapidaria risposta, unitamente ad un articola di Naomi
Klein, nell'allegato.
Un Abbraccio a tutti
Aldo
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Esportare la democrazia
Si può esportare la democrazia?
"Io posso esportare qualcosa che io ho e tu no. Dire che noi come
"Occidente" esportiamo la democrazia è un comportamento arrogante, significa
appropriarsi di qualcosa che non è solo nostro, significa "rubare" la
democrazia, un valore che è un'eredità mondiale. Nel nono, decimo e
undicesimo secolo c'era più democrazia e tolleranza a Cordoba, dominata dai
musulinami, che non in "occidente". Nel dodicesimo secolo il filosofo ebreo
Maimonide fu costretto a fuggire da un'intollerante Europa e trovò benevola
accoglienza alla corte dell'imperatore Saladino, quello stesso Saladino che
combatté per l'Islam contro i crociati. E le crociate le hanno "inventate"
in Occidente. Quando Giordano Bruno venne messo al rogo a Roma l'imperatore
moghul Akbar proclamava in India la necessità della tolleranza e apriva il
dialogo tra genti di fedi diverse: indù, musulmani, cristiani, parsi,
jainisti e persino atei".
(Risposta di Amartya Sen a Alberto Flores d'Arcais - La Repubblica 11-03-04)

Naomi Klein (da "Internazioanale" 12-2-04)

Se date retta alla Casa Bianca, il futuro governo iracheno viene scelto in
Iraq. Se credete agli iracheni, viene scelto dalla Casa Bianca. Tecnicamente
nessuna delle due cose è vera: il governo iracheno è assemblato in un
anonimo centro ricerche del North Carolina.
Il 4 marzo 2003, ad appena 15 giorni dall'invasione, l'agenzia statunitense
per lo sviluppo internazionale ha chiesto a tre società americane di
candidarsi per un compito eccezionale: una volta invaso e occupato l'Iraq,
un'azienda sarebbe stata incaricata di costituire 180 consigli locali e
provinciali sulle macerie del paese. Era un nuovo territorio imperiale per
società abituate alla "collaborazione fra pubblico e privato" cara alle
organizzazioni non governative, e due delle tre aziende decisero di non
candidarsi.
Il contratto per il "governo locale" - 167,9 milioni di dollari il primo
anno e fino a 466 milioni di dollari in totale - andò al Research triangle
institute (Rti), un'organizzazione non-profit nota soprattutto per le sue
ricerche farmaceutiche. Nessuno dei suoi dipendenti andava in Iraq da anni.
All'inizio la missione dell'Rti in Iraq non ha attirato l'attenzione
dell'opinione pubblica. Rispetto all'incapacità della Bechtel di far
funzionare l'elettricità e ai prezzi folli della Halliburton, quelle
dell'Rti sembravano iniziative valide. Non è più così: si è scoperto che i
consigli cittadini costituiti dall'Rti sono il cuore del piano americano per
consegnare il potere a ristrette commissioni regionali nominate dall'alto -
un piano a cui gli iracheni sono così ostili che rischia di mettere in
ginocchio l'occupazione.

La settimana scorsa ho incontrato il vicepresidente dell'Rti, Ronald W.
Johnson, direttore del progetto iracheno. Johnson insiste nel dire che la
sua squadra si occupa di cose pratiche e non ha nulla a che vedere con lo
scontro epico su chi governerà l'Iraq. Ma i consigli formati dall'Rti sono
molto criticati. Lo stesso giorno in cui Johnson e io abbiamo discusso le
questioni più sottili della democrazia locale, il consiglio regionale
nominato dagli Usa a Nassiriya, circa 300 chilometri a sud di Baghdad, è
stato circondato da uomini armati e manifestanti infuriati.
Il 28 gennaio ventimila abitanti della città hanno preso d'assalto gli
uffici del consiglio chiedendo elezioni dirette e le dimissioni di tutti i
consiglieri, accusati di essere ostaggi degli occupanti. Povero Rti: la fame
di democrazia degli iracheni continua a correre più velocemente dei
laboriosi piani per la "costruzione di capacità" messi a punto prima
dell'invasione.
A novembre il Washington Post ha scritto che quando l'Rti è arrivato nella
provincia di Taji, munito di diagrammi di flusso e pronto a istituire
consigli locali, ha scoperto che "gli iracheni avevano formato propri
consigli rappresentativi nella regione mesi prima, e molti erano stati
eletti, e non nominati come propongono le forze occupanti". Johnson sostiene
che l'Rti si limita ad "assistere gli iracheni" e non decide al loro posto.
Forse è vero, ma non aiuta che Johnson paragoni i consigli iracheni a "un
municipio del New England" e citi un altro consulente dell'Rti, secondo cui
le sfide in Iraq "sono le stesse che ho affrontato a Houston".

È questa la sovranità irachena - ideata a Washington, appaltata in North
Carolina, modellata su Houston e imposta a Bassora e a Baghdad?

Adesso che ha accettato di tornare in Iraq, l'Onu, deve fermare la rapina in
corso: il tentativo americano di sottrarre alla futura democrazia irachena
il potere di prendere decisioni importanti. E tutto dipende dai poteri del
governo di transizione. Washington vuole che abbia i poteri di un governo
sovrano, capace di imporre decisioni che il governo eletto erediterà. In
altri paesi che hanno da poco vissuto la transizione alla democrazia - dal
Sudafrica alle Filippine all'Argentina - è in questo intervallo tra regimi
che si sono consumati i tradimenti più devastanti: accordi segreti per
trasferire debiti illegittimi, impegni per "la continuità macroeconomica".

Sempre più spesso i popoli appena liberati vanno alle urne per scoprire che
è rimasto poco per cui votare. Ma in Iraq non è troppo tardi per bloccare
questo processo. La chiave è limitare il mandato di qualunque governo
provvisorio alle questioni relative alle elezioni: censimento, sicurezza,
tutela delle donne e delle minoranze.
Ed ecco la cosa davvero sorprendente: potrebbe davvero succedere. Perché?
Perché tutte le ragioni di Washington per entrare in guerra sono svanite;
l'unica scusa rimasta è il profondo desiderio di Bush di portare la
democrazia in Iraq. È una bugia come tutto il resto, ma è una bugia che
possiamo usare. Possiamo approfittare della sua debolezza per pretendere che
la bugia della democrazia diventi realtà, che l'Iraq sia davvero sovrano:
senza i debiti, il peso dei contratti ereditati, le cicatrici delle basi
militari americane, e con il pieno controllo delle sue risorse.