[TESTIMONIANZE] - Questo non e' un sogno



Questo non è un sogno.
E’ un racconto, vissuto dai e con, i miei occhi. E’ la storia di una festa, gioiosa, colorata, ma anche determinata e ferma, finita in tragedia. E tristezza. E’ la storia di una giovane vita spezzata, assassinata dalla protervia e dall’arroganza, dalla certezza dell’impunità. E’ la cronaca di un giorno di follia, cui ne seguiranno altri, che sarebbe giusto definire di follia se non fosse per la sua scientifica programmazione. Eravamo partiti di notte, mercoledì 19, intorno alle ventitré, alla volta di Genova, per essere puntuali il giorno dopo, alle otto, orario di appuntamento con gli altri di “Un Ponte per…” per preparare la nostra partecipazione alla manifestazione del 20 Luglio, indetta dai sindacati di base ma, soprattutto, per portare il nostro contributo nelle piazze tematiche, vero e proprio clou dell’ anti G8, dove saremo presenti con le nostre iniziative all’interno del variegatissimo mondo del movimento anti globalizzazione.

Il vento ci sposta il pulmino, decisamente anche lui No Global, con la sua targa napoletana, la scarsa tenuta di strada, le ammaccature varie che ci fanno temere fermi e sequestri molto prima di Genova. Non si va più di ottanta all’ora. Quando sembra finire tutto, una sventagliata di acqua e vento ci investe e ci fa perdere un attimo il controllo. Ma che siano tutti tentativi per scoraggiarci? Restiamo calmi e andiamo avanti, Genova arriverà. E arriva, Genova, senza fermi, senza controlli tutto apparentemente normale. Ci spostiamo con gli altri che troviamo al centro sportivo Sciorba, per andare a Piazza Rossetti, davanti la Fiera. Li iniziamo il nostro lavoro. Distribuiremo datteri iracheni importati illegalmente per via dell’embargo che, in dieci anni, ha causato, anche se in tempi di globalizzazione sarebbe più corretto dire prodotto… quasi due milioni di morti. Laggiù, davvero il G8 se lo ritrovano tutti i giorni, a tavola quando manca il cibo, nelle farmacie quando mancano le medicine, fra le braccia di una madre e lo sguardo impotente di un padre, quando muore un loro figlio. Ed è proprio quello che dico distribuendo i nostri volantini “Fermiamo il massacro in Iraq”. Sembra fantascienza, oppure una presa in giro… Fermare un massacro mangiando datteri? Ebbene è proprio così ed è per questo, cominciamo a pensare, che c’è tanta polizia, tassativamente in assetto guerresco, che la città è deserta, che le serrande dei negozi ma pure delle finestre sono abbassate. Perché attraverso gesti semplici e quotidiani, ma dettati da scelte di fondo, che si mettono in crisi i grossi poteri economici delle multinazionali contro le quali, a parole, tutti sono contro, salvo legittimarle ogni volta cvhe si sceglie anche solo un semplice prodotto alimentare. La situazione è irreale, per comprare un giornale si fanno chilometri, per un bar manco a parlarne, tranne qualche temerario. Ma temerario, perché? Stanno per calare i barbari, o sono già arrivati da un pezzo? Il nostro pulmino è visibile, coi suoi datteri, i ventagli, le magliette con la scritta “Contrabbandiere Etico”, i manifesti che annunciano le prossime iniziative contro l’embargo. Siamo pronti. Partiamo, in prima, piano piano, alla volta della prima delle piazzette tematiche che intendiamo raggiungere. Cominciamo da Piazza Carignano, vicino a Piazza Dante. C’è già molta gente, iniziamo la distribuzione, qualcuno lascia sottoscrizioni, non ci avevamo pensato e così un cesto lo attrezziamo per i soldi e si riempie subito. Chi mille, chi diecimila, ognuno per quello che può, se può, altrimenti è lo stesso. La solidarietà la si coglie negli sguardi curiosi di chi chiede, di chi si informa, nella telecamera di uno dei registi impegnati nel girare il film sul movimento anti G8. Inizia il corteo verso la famigerata zona rossa, e ci accodiamo per fermarci un poco prima, anche perché un attivista di Attac, movimento non violento francese ma con tante sedi anche in Italia, ci consiglia di fermarci e girare il furgoncino per essere pronti a una eventuale fuga, sempre da mettere in conto. Gli diamo retta, anche se tutto sembra tranquillo, ognuno calato nel suo ruolo, nella sua parte. Passano gli ottoni, intonano Bella Ciao, e poi musiche di Bregovic, l’Internazionale, la Tammurriata Nera. E’ tutto molto colorato e davanti a quelle ridicole inferriate, e oscene, va in onda uno spettacolo di fantasia e leggerezza che è un piacere. Si incontra ‘O Zulù, dei 99 Posse, si canta e si balla. Nel nostro volantino si fa il verso a Manu Chao, ricordando le nostro campagne… Jugoslavia, clandestina! Palestina, clandestina! Kurdistan, clandestino! Dattero Iracheno, ILLEGAL!!! Poi, arriva il tempo di andare via. C’è stato lo sfondamento, adesso le uniformi sono schierate e si teme un attacco più pesante delle scariche di acqua che provocano bruciore sulla pelle. Ce ne andiamo. La strada è in salita e a metà, due persone ci chiedono di accompagnare una anziana signora. Lo facciamo volentieri, il suo volto mi è noto, la sua lingua… è argentina, è nel movimento, poi quelle parole… sono la presidente… Madri de Plaza de Majo… Stiamo dando un passaggio a Hebe de Bonafini! Siamo commossi, io la tocco, come fosse un’icona e lo è, ma è vivente! Quando scende l’abbraccio forte, spero di non aver esagerato. Lei ringrazia e se ne va. Ma madre Hede due parole le ha dette, pure. “C’è molta polizia in borghese, bisogna stare attenti”. E lei se ne intende… Cominciano ad arrivare notizie di scontri. La nostra prossima tappa è Piazza Manin, ma per arrivarci ci rendiamo subito conto che sarà un bel problema. Non abbiamo radio, le uniche notizie che circolano sono i tam tam nel movimento. Cominciamo a scendere da Piazza Carignano per ripassare a piazza Rossetti, ma ci sono vie bloccate. Via via che avanziamo, il paesaggio lunare della mattina ci appare in tutta la sua devastazione. Eppure da quelle parti non doveva passarci nessun corteo, come mai tutta quella distruzione? Vetrine spaccate, auto coi vetri rotti, cassonetti dati alle fiamme. Sembra un assaggio, perché l’atmosfera è quella del passaggio di un uragano che deve essere andato oltre. E oltre, è dove ci dirigiamo noi. Per piazza Manin è impossibile passare. Ci dirigiamo, allora, verso viale Gastoldi, dovremmo incrociare uno spezzone del corteo dei Cobas e delle tute bianche che, in realtà, per l’occasione hanno dichiarato che avrebbero dismesso le tute, quasi a voler rimarcare la loro completa adesione a un movimento che diventa sempre più importante e composito.

Ma anche li non si passa. Si vede tanto fumo, laggiù in fondo al vialone, la strada è sbarrata, c’è un andirivieni di ambulanze. Qualcuno di noi telefona a casa, anche per sapere cosa succede. Arrivano le prime notizie, si parla di due ragazzi morti, uno travolto da un blindato della polizia, un altro ammazzato da un colpo di pistola. Col tempo, sapremo che erano la stessa persona. Un ragazzo poco più che ventenne, Carlo Giuliani, romano residente a Genova, è stato ammazzato. Cominciamo a girare cercando strade per continuare la nostra opera, coscienti che siamo qui per dare voce agli invisibili, emarginati dal mondo che li schiaccia con scelte infami ma infinitamente redditizie per il grande potere economico. No, non ci sentiamo ridicoli a distribuire datteri in mezzo a gente che è appena stata massacrata di botte da altra gente pagata, non so quanto e non mi interessa, per farlo. Anzi! A ridosso di piazza Manin ci infiliamo in mezzo a tanti ragazzi con gli occhi gonfi, la pelle irritata, qualcuno pestato. Stanno scendendo verso piazzale Kennedy, il ritrovo del GSF. Sono impauriti, molti di loro fanno parte di quell’associazionismo cattolico che ha deciso di starci concretamente, dalla parte degli oppressi e contro gli oppressori. Ci viene spontaneo, ci fanno tenerezza, sono giovani, noi siamo tutti intorno ai quaranta, chi più chi meno. Scendiamo, li chiamiamo, vengono intorno, hanno bisogno di sicurezza, diamo loro datteri, addolciscono la bocca, abbiamo anche acqua che questa città, tranne un bar con lo stemma di Rifondazione e un quadro di Fabrizio De André che ha resistito alla chiusura, in viale Gastoldi e che, comunque, l’acqua aveva esaurito, ha loro negato, negandosi. Per la paura di una vetrina infranta, o di un esproprio, insomma… del proprio giardino insozzato. Ma non insozzano nessuno, questi ragazzi, guardateli come sono belli nella loro stanchezza, nella loro voglia di andare avanti, di farsi cacciare da una porta per rientrare dalle finestre della vostra coscienza! Sono infiniti, sono tenaci, non li disperderete mai coi vostri lacrimogeni, perché sanno piangere anche lacrime vere, perché hanno la sensibilità che la vostra ipocrisia non ha mai conosciuto. La vostra ipocrisia che ha paura dei loro passi leggeri, del loro battito d’ali, aquiloni al vento, ipocrisia che si sente rassicurata da uniformi come marziani schierate coi fucili spianati, coi loro passi ritmici e pesanti come macigni. Statevene pure rintanati, voi si, come topi, scappate pure in vacanza, come vi hanno consigliato per settimane, non vi unite a noi, che sennò verrete appestati. Di sensibilità, di amore per la propria coscienza, di rabbia per chi opprime, di solidarietà per chi è oppresso. E queste, sono malattie davvero incurabili.

Continuiamo con loro. Alcuni ragazzi con degli strumenti musicali, le loro uniche armi, ci regalano delle belle suonate in cambio dei datteri. Proseguiamo fino a quando, al momento di svoltare per via Torino, ci si accorge che le schiere di uniformi sono già pronte alla guerra. Davanti c’è fumo, a destra ci sono i marziani, a sinistra c’è fumo, dietro, ancora marziani. Che fare? Fabio, il nostro presidente, vuole parlamentare coi marziani, ma non lo fanno avvicinare. Ci spostiamo col furgoncino per non intasare il traffico di auto che cercano un varco per guadagnare la strada di casa, verso sinistra. All’improvviso, sirene di ambulanza gettano tutti in apprensione. Poi, altre sirene, stavolta dei blindati in uniforme, si lanciano a folle velocità verso tutti noi. Ci spostiamo ancora per non farci travolgere, arrivano da laggiù, facciamo appena in tempo. Dal tetto dei blindati, qualche uniforme ostenta il suo fucile di precisione, altri i manganelli, agitandoli quasi a dire “Adesso veniamo!”. Qualcuno gli sputa contro dolce saliva di ragazzo, altri gridano tenere parole di rabbia, altri ancora carezze di bastone da scopa. Di violento c’è, davvero, solo ciò che si vede e che sta nei nostri occhi. E ciò che si vede viene da dentro ed è rabbia. Impotenza. Voglia di giustizia. Consapevolezza della sua inesistenza. Il corteo si disperde e arretra. E’ iniziata la carica. Hanno perso la testa, forse. O, invece, ce l’hanno ben salda. Ragazzi si fanno avanti a mani alzate, ma non trovano la forza per andare avanti. Hanno paura, abbiamo paura. La paura è sentimento nobile ed è nobile ammetterla. Non siamo eroi, nessuno qui è un eroe. Ma stare qui a frapporre i propri corpi, i propri volti davanti a tanta protervia, in nome di ideali nobili e così tanto concreti, come… azzeramento del debito per i paesi in via di sviluppo… destinazione di una cospicua parte del prodotto interno lordo per sviluppo e cooperazione, quella vera… lotta alle multinazionali che producono OGM, pesticidi, mucche pazze sempre e solo in nome del profitto, il loro… lotta al commercio di armi… lotta ai guadagni selvaggi in borsa… restituzione della dignità ai paesi più poveri… abolizione dei paradisi fiscali.. lavoro per tutti, senza sfruttamento… stare li per questo, beh… ti fa sentire forte.

Solo che quando parte la carica, o sei veramente armato ma non come ci hanno raccontato, inebetendoci, i mezzi di informazione, chiamiamoli così, cioè con sassi, bastoni o altre stupidaggini del genere. O sei armato di bazooka e bombe a mano, oppure è meglio che te ne vai. Noi ce ne siamo andati, anche perché qualcuno cominciava ad avere davvero paura di finire in mezzo a quelle uniformi, che nulla di umano lasciavano presagire. E questa cosa, gli deve piacere tanto…

La sera, a piazzale Kennedy, c’è un atmosfera di rabbia e tristezza. E tanta tensione. Per arrivarci, abbiamo dovuto fare un giro lunghissimo, arrivando fino a Nervi dopo essere usciti dall’autostrada, percorrendo tutto il lungomare. Chissà perché, stasera il mare non mostra il suo solito aspetto seducente. Non mancano le provocazioni, come quell’elicottero che continua a volteggiare sul piazzale pieno di gente del Genoa Social Forum. Illumina chiunque, col suo fascio (fascio…) di luce, arrogante, provocatorio, insolente. Ai cancelli, si viene quasi alle mani. Passa una volante (ma proprio di la, deve passare?). Parte una bottigliata contro il fianco dell’auto in uniforme, parte un ragazzo all’inseguimento, forse è ubriaco, dove crede di andare da solo? Ma non è solo, la volante lo sa, perciò sgomma e schizza via, impaurita. Dal palco si invita a non uscire in gruppetti, potrebbe essere pericoloso, si rischia di essere caricati o portati via. Si decide di confermare la manifestazione per domani, come si potrebbe altrimenti?

C’è Gad Lerner, il giornalista, che cerca di iniziare una trasmissione straordinaria sugli accadimenti del giorno. Trova, con quel clima, il coraggio di sorridere mentre dice… Se però continuate a mandare affanculo l’elicottero, non si sente più niente! Dice che si collegherà con Ferrara, altro giornalista, perché si deve sentire anche chi la pensa in modo diverso. Ci sono boati di fischi. Diverso da chi? Diverso da cosa? C’è stato un ragazzo ammazzato, come si fa a pensare qualcosa di diverso da questo? Un ragazzo che stava li come tutti noi, che non ha accettato di stare a subire cariche e botte, che ha provato a difenderci, a difendere la sua, la nostra, la libertà di tutti e per questo è morto. E chi sostiene che era un violento, è in marcia malafede, perché sempre, la nostra società, vuole spiegazioni accettabili alle efferatezze che accadono. No, non c’è giustificazione, un ragazzo è morto mentre manifestava, costretto ad attaccare per difendersi, costretto a prendere in mano la prima cosa che ha trovato a terra per gettarla su chi non faceva distinzione di sorta nello sparare ad altezza d’uomo, nel tirare lacrimogeni ad altezza d’uomo, nel picchiare selvaggiamente chiunque gli si parasse davanti. Su chi da cielo, terra e mare, ha mostrato muscoli e li ha usati su gente inerme, forte solo della propria volontà e dei propri ideali. Ce ne torniamo a casa alla spicciolata, nonostante gli inviti del palco, nonostante dall’ospedale tanta gente sia stata portata via dalle uniformi ferita e sanguinante, senza neppure aspettare le cure mediche, coi medici impotenti a fermare l’ingiustizia. Perché non corriamo tutti la, per proteggerli? Sono nostri compagni e qui, c’è gente che mangia e beve birra. Perché, perché non corro la? Non dormiamo da due giorni, forse è arrivato il momento di farlo. In questa atmosfera che qualcuno definiva “cilena” , arriva qualche bottigliata sul palco allestito per l’occasione. Alla fine, la trasmissione non si farà. Troppa tensione, troppa rabbia. Lerner se ne va senza le sue domande da fare e le sue risposte da dare. Forse, stasera, c’è ben poco da capire. Forse, stasera, c’è solo da restare tutti, in silenzio. Ho dormito nel furgoncino, alla fine. Non ho voglia di lavarmi, non ho voglia di mangiare, solo di tornare in quelle piazze. Ho bisogno, abbiamo tutti bisogno di ritrovarci, di contarci. Saranno partiti in tanti per la manifestazione conclusiva di oggi? Mi telefonano degli amici, stanno già li, è una gioia sentirli. Sono venuti in tanti, sono qui per Carlo, gli canteranno Bella Ciao, a questo partigiano che, come si cerca di fare con tutti i partigiani, si cercherà di sporcare nella memoria. Ma non ci riusciranno, perché non lo sanno che essere partigiani significa il rispetto degli uomini e delle donne che hanno sempre combattuto per la libertà. Non lo sanno, perché per loro la libertà è avere una bella auto, una bella casa, spendere per cene e pranzi e feste, e fregarsene del prossimo. Perché per loro, un partigiano è un semplice idealista, nulla a che fare coi divertenti furbi che ci ha regalato il nostro bene amato paese. Sono questi, oggi, i nostri degni rappresentanti.

Andiamo verso il centro col nostro furgoncino, vorremmo passare in piazza Alimonda e portare un sacchetto di datteri a Carlo, solo per dirgli che non molleremo. Ma è difficile, c'è già tanta gente, notizie di scontri, schiere di uniformi dappertutto. Passiamo davanti a una questura, due uniformi ci indicano col dito. Avviso i mie compagni che ci stanno venendo dietro. Arrivano. Sono in tre, a sirene spiegate, ci fermano e urlano di scendere, come in preda a raptus di follia, per calmarsi un istante dopo, quando capiscono che non siamo noi ciò che stanno cercando. Perché questi non cercano persone, cercano cose. Per questi, tutto è impersonale, da trattare senza rispetto.

Fanno per rientrare in macchina, ma altri due furgoni arrivano sgommando e inchiodando. Ne scendono altre uniformi, altre divise, altra follia, la stessa. Urlano, sfoderano pistole che puntano alla tempia di Alessandro e Massimo che stanno davanti. Calmi, bravissimi, straordinari, i miei compagni si lasciano schiacciare a terra da ginocchia, pugni, braccia, stivali, pistole. Cervelli in uniforme… Davanti ad Adriana, si para in ginocchio un uniforme con pistola puntata contro. Altre divise gridano che "Non sono loro", ma queste nuove uniformi non sentono, cercano di aprire il portellone laterale, dove sono io e un altro compagno, ma non ci riescono. Grido che aprirò io, ma, ancora, d'incanto…
"Non sono loro, non sono loro! Andiamo via e voi, andatevene!"
Ripartono, fra sgommate e sterzate, in preda alla loro lucida, fredda, calcolata follia, davanti agli occhi di gente che assiste, incredula, allo spettacolo, riportandosi via ginocchia, pugni, braccia, stivali, pistole. E i loro cervelli in uniforme... Grido "Assassini!" ma, per fortuna, il rombo delle loro auto in uniforme è più forte della mia voce. Non sentono, non hanno sentito. Non sentiranno mai, nulla.

Arriviamo a piazzale Kennedy, dove abbiamo appuntamento con Marinella. Risaliamo il corteo che è già partito, non avendo retto alla spinta, sempre maggiore, della folla che, come un fiume in piena, ha bisogno di trovare il suo sbocco al mare. Ed eccolo qua, il mare, quello di Genova, quello cantato da Fabrizio De Andrè. Chissà cosa ne penserebbe di tutto questo e dell’infame uso strumentale che si continua a fare del termine anarchico. Ma cosa pensava ce lo ha raccontato. Lui, dalla parte delle minoranze c’è sempre stato e per davvero.

Ci sistemiamo col furgone e cominciamo il nostro lavoro. Otto scatole di datteri se ne vanno in oltre mille e cinquecento bustine di carta e bicchieri. Distribuiamo almeno cinquemila volantini, ottomila adesivi con la scritta “IO ROMPO”, riferita all’embargo all’Iraq. Incontriamo tanta gente, anche amici di altre città… Anche tu? Si, anche io! Mi commuovo incontrando un mio amico torinese, Roberto, partito nonostante tutto, come tanti, soprattutto dopo quello che è successo. Sono abbracci forti, veri, non c’è spazio per tentennamenti. Stiamo dalla stessa parte, è quella giusta, lo sentiamo dentro, è così. Mi compare davanti Michele, sorride, poi scoprirò che era il sorriso di chi ha vissuto momenti drammatici e per questo è felice di vederti. Anche io lo sono, è davvero bello starci.

Si rimane così, quando la passione ti fa fare delle scelte. Puri e semplici, come dovrebbe essere la vita di tutti, di ognuno e chi non è d’accordo, che se ne vada. Sulla luna o su Marte. E proprio da Marte sembrano provenire quegli elicotteri, minacciosi, quegli scafi e quei gommoni, che controllano, quegli scudi laggiù. Chiudiamo il furgone, l’aria si fa pesante, il corteo si blocca, comincia a indietreggiare. Continuo a volantinare, gridando di stare calmi, dicendo che in Iraq, questi hanno saputo fare di molto peggio, non facciamoci prendere dal panico che siamo qui per difendere anche chi non può nemmeno farlo. Mi ritrovo a cinquanta metri da quelle uniformi, partono i lacrimogeni, il corteo, già spezzato in due precedentemente, ora indietreggia, poi si arresta, prova a riorganizzarsi ma non ce la fa. C’è gente anziana, ragazzi coi fazzoletti sulla bocca, i limoni servono a poco. Si tenta di restare calmi, ma mentre mi volto, un’ondata di fumogeno mi investe ed è terribile. Sono nuovi, ti soffocano, ti fanno sentire un topo alla ricerca di aria, proprio non puoi resistere. Sto per svenire, lo sento, ora mi travolgono, penso, ora cado e resto per terra, preda delle uniformi. Con l’ultima energia possibile, metto un fazzoletto alla bocca, me lo ha regalato un turco, protestava per le decine e decine di prigionieri turchi che si sono lasciati morire in carcere di fame, quando non massacrati direttamente dalla polizia di un governo che se ne frega dei diritti umani, che ancora non fa parte del grande circo ma sta per entrarci con pieno diritto. Vestito da boia. Comincio a correre anche io, cosa che non ha fatto Carlo, ieri. Ma qui si rischia di restare travolti.

All’improvviso compaiono persone vestite di nero, gridano parole incomprensibili, corrono verso le strade laterali, portandosi dietro gente, mentre i megafoni urlano di non lasciare il lungomare, di arretrare ma di non ficcarsi nelle stradine laterali. Trovo un’oasi senza fumogeno, ho gli occhi che mi stanno uscendo, mi brucia tutto. Le lacrime non sono lacrime vere e si sente. Mi vengono in mente i miei due bambini e corro via. Più in la, sono state spaccate delle condutture dalle quali esce acqua in abbondanza. Ci si sciacqua, di corsa e si beve. Sarà buona? Non è che ci salviamo dalle uniformi e ci infettiamo con l’acqua? Genova, hai chiuso tutti i tuoi rubinetti, ma l’acqua te l’abbiamo presa ugualmente. Scusaci, ma ne avremmo davvero fatto a meno.

Ci siamo persi, il furgone è caduto in mani nemiche e i telefoni non funzionano. Si prova finché non incontro un amico di Milano, ma anche lui non ha più visto nessuno. Finalmente, ci ritroviamo. Tentiamo di riprendere il furgone e torniamo indietro. Ce la facciamo. Aspettiamo che si calmi anche la zona della stazione e poi proviamo a passare. Direzione Nervi, per il lungomare. Da li, autostrada e poi, Roma

Giungiamo nella zona di Recco. Abbiamo lasciato Genova da poco, attraversando il lungomare, riaperto dopo i blocchi. Elicotteri e gommoni, camionette e furgoni, schiere di uniformi in assetto di guerra, sono lontani da noi. Non negli occhi, però, ne nelle orecchie e, soprattutto, nell'animo.

Ci fermiamo in un ristorante per rilassarci prima del viaggio. E' un po' caro e ci arrangiamo. Due tavoli più in la, una bella ed elegante signora parla con altri commensali, di un altro tavolo. Aria snob, auto lussuosa al parcheggio, sbraita contro comunismo e dimostranti, tutti vandali e violenti, insozzatori della sua bella città, quasi se la fosse comprata o scelta, prima di nascere. E alla fine, il classico… "Han fatto bene a sparare!".

Cerco aria, proprio come qualche ora prima in mezzo ai lacrimogeni. Ma non riesco a trovarla e, alla fine, proprio uno non ce la fa più. Vado la davanti e dico… "Scusate, volevo solo tranquillizzare la signora. Ce ne stiamo andando, stia tranquilla, signora e scusi, davvero, ci scusi tanto se le abbiamo sporcato la città col rosso del nostro sangue. La prossima volta andremo a sporcare altrove e lei, non avrà più da preoccuparsi". In silenzio, si volta e riesce solo a prendere una boccata cancerogena dalla sua sigaretta, fumata con tanta eleganza.

Arriviamo di notte. Non sapevamo ancora che altro sangue avrebbe sporcato quella città.