Quello che Fassino non sa, e dovrebbe sapere, sull'America Latina



di Gianni Minà

 

   
Martedì 30 Marzo 2010
Non mi stupisco che l’onorevole Fassino, ex segretario di coloro che si dicevano comunisti, sia stato il primo ad aderire all’appello di Pierluigi Battista sul Corriere della Sera perché venga intensificato l’assedio che gli Stati uniti, continuando la linea decisa da Bush Jr, hanno recentemente inasprito nei riguardi di Cuba, usando l’ambiguo argomento dei diritti umani.
Fassino, come buona parte di quella che era la sinistra italiana, non ha mai capito molto dell’America latina, nè dei diritti delle popolazioni del Sud del mondo e delle loro battaglie per la sopravvivenza, per scrollarsi di dosso la prepotenza del mondo occidentale.
Quando nell’ottobre del 2003 guidò la delegazione italiana  al congresso dell’Internazionale socialista  a San Paolo del Brasile, la prima cosa che Fassino fece, per esempio, prima ancora di proporre una strategia di indipendenza e di riscatto per i Paesi del Sud del mondo, fu quella di sollecitare un documento di critica alla rivoluzione cubana. Fece una figuraccia, perché fu lo stesso Lula Inacio da Silva, padrone di casa perché eletto un anno prima presidente del Brasile, a dire: “Non se ne parla nemmeno. Cuba, per noi latinoamericani è stata ed è, pur fra tante contraddizioni, un esempio di resistenza e dignità in un continente dove il neoliberismo ci costringe a lottare per la sopravvivenza.”
Fassino d’altronde si era solo adeguato alla logica perdente del suo partito, quello dei democratici di sinistra. Una logica ben incarnata, tre anni prima, dal perspicace Massimo D’Alema che a una riunione di partiti socialdemocratici messa in piedi in pompa magna a Firenze, invece di invitare Lula, allora da quasi vent’anni leader di 50 e più milioni di brasiliani che votavano progressista, scelse di far venire Fernando Enrique Cardoso, ex sociologo della sinistra diventato nel frattempo il presidente eletto del centrodestra brasiliano, cioè anche dei latifondisti e delle loro guardie bianche che assassinavano sindacalisti, sem terra o estrattori di caucciù. Non fu, evidentemente, una scelta lungimirante.
Nel frattempo, infatti, Lula non solo è stato eletto per due mandati alla presidenza del Brasile e ha finalmente affrontato, con il piano Fame Zero, l’endemica indigenza di 60 dei 200 milioni di suoi concittadini che ora hanno garantiti tre pasti al giorno. Il presidente ex operaio ha addirittura rilanciato come potenza economica internazionale il suo Paese, arrivando perfino a ottenere l’organizzazione dei Mondiali di calcio del 2014 e delle Olimpiadi del 2016, e ha anche recentemente sconfitto gli Stati uniti in una fondamentale controversia sorta nell’Organizzazione mondiale per il commercio [Wto]. Questa vittoria, non a caso ignorata dai mezzi di informazione italiani, sancisce il pieno diritto del governo di Brasilia ad applicare sanzioni commerciali contro gli Usa, rei da sempre di assistere indebitamente la propria industria e in particolare la propria agricoltura, falsando i mercati mondiali con l’ipocrisia del libero commercio. Ora il Brasile avrà il diritto di aumentare i dazi su prodotti come automobili, cotone, frutta fresca o latte in polvere fino al 50%, e nel caso del cotone, prodotto nevralgico per i coltivatori del Sud degli Stati uniti, addirittura del 100%.
Non c’è quindi solo la Cina ad avere la forza economica e politica per scegliere il proprio cammino e a disegnare un mondo multipolare dove gli Usa non sono più in grado di imporre sempre la propria volontà.
Fassino tutto questo non lo sa o fa finta di non saperlo. Pierluigi Battista, inguaribile paladino dei diritti dei più forti e delle cause più arroganti, infatti, gli ha solo fatto sapere che incredibilmente Lula, il giorno dopo il summit a Cancun dei paesi del continente latinoamericano, ha fatto tappa a l’Avana, come avevano fatto nel corso dell’anno passato tutti i capi di stato latinoamericani [tutti evidentemente simpatizzanti per i tiranni] e si è fatto fotografare tanto con Fidel che con Raul Castro. E questo proprio nei giorni della campagna mondiale, sollecitata dalla potente lobby cubana di Miami e dal gruppo Prisa, editore dello spagnolo el Pais, dopo la morte di Orlando Zapata, detenuto per reati comuni che da qualche tempo si era avvicinato alle Damas en blanco.
Queste rappresentanti della sparuta dissidenza cubana sono state cantate ancora recentemente, nei nostri media, sempre su suggerimento di el Pais [un giornale vicino ai socialisti in casa, ma con tentazioni neocoloniali quando parla di America latina], come paladine della democrazia, dopo una manifestazione per le strade del centro de l’Avana dove erano state insultate da una folla di “fans del regime”.
Sarebbe facile liquidare tutto in questo modo. Sono 50 anni che la grande stampa occidentale lo fa, evidentemente senza successo, ma la realtà è che lo scontro non è più ideologico, anche se Pigi Battista o addirittura Mario Vargas Llosa (che periodicamente detta a El Pais la linea sull’America latina) tentano pateticamente di sostenerlo. Lo scontro, ormai, è di principio, di giustizia, di elementare diritto a scegliere. Perché, infatti, un grande Paese che lo fa da cinquant’anni, gli Stati uniti, dovrebbe continuare ad avere il diritto di sovvenzionare, a suon di milioni di dollari, una strategia della tensione continua in un altro Paese, un’isola come Cuba? E tutto questo solo perché la stessa isola, a un certo momento della sua storia, ha commesso il peccato di aver scelto di amministrarsi in un modo diverso da come vorrebbe il vicino più potente, infastidito dal messaggio di indipendenza che il Paese più piccolo ha trasmesso e trasmette a un continente che si sta affrancando da una storica dipendenza.
Cosa diremmo noi se, per esempio, la Spagna di Zapatero o la Gran Bretagna di Gordon Brown sovvenzionassero un’eversione in Italia contro il governo di Berlusconi, con 140 milioni di euro, ridotti quest’anno a 55 milioni solo per la crisi, ma non cancellati?
Certo, molti di questi soldi, come ha confermato un’indagine interna ordinata dal presidente Obama, vengono rubati da questi cosiddetti comitati per la libertà a Cuba, ma molti sono invece investiti nel progetto di cambiare faccia all’isola e sicuramente sono impegnati ad accendere malessere e tensioni.
La maggior parte dei “dissidenti” incarcerati nel 2003 quando il governo Bush tentò la spallata finale contro Cuba favorendo tre dirottamenti aerei e persino il sequestro del ferry boat di Regla carico di turisti per far rotta verso Miami, sono persone condannate per aver preso dei soldi dal governo di Washington, elargiti direttamente dall’Ufficio d’interesse degli Stati uniti a l’Avana.
Questo, a parti invertite, negli Stati uniti procurerebbe un arresto e un’accusa di alto tradimento con diversi anni di carcere. Qualunque giornalista minimamente serio lo sa, anche se nelle nostre cronache sui “giornalisti” arrestati a Cuba nel 2003 si insiste sul fatto che sono stati puniti per presunti reati d’opinione e si elude il fatto che, invece, sono stati ingaggiati e retribuiti dal nemico storico che tiene l’isola sotto embargo da cinquant’anni.
Molti di questi gruppi, come le stesse Dame in bianco, erano e sono tenuti in piedi da terroristi come Santiago Alvarez che recentemente, in un processo in Florida dove è stato condannato a due anni e mezzo di carcere per possesso di esplosivi e armi che secondo lui dovevano servire per attentati nell’isola, ha rivelato che proprio Michael Parmly, ex capo dell’ufficio di rappresentanza Usa a Cuba, si era offerto di anticipare le sovvenzioni alle Dame nei mesi in cui lo stesso Alvarez sarebbe stato presumibilmente in galera.
Anche Battista dovrebbe convenire che è difficile assegnare la dignità di dissidenti a gruppi come questi, ed è evidente che una politica simile, sostenuta da tutti i Fassino d’Italia e d’Europa, non possa produrre libertà e democrazia.
Eppure perfino il Fatto quotidiano, che non risparmia il sarcasmo alle posizioni berlusconiane del vicedirettore del Corriere della Sera, si allinea alle sue teorie quando tuona contro Cuba, Venezuela e America latina che cambia.
Recentemente, dopo aver elevato alla gloria degli altari la bloguera Yoani Sanchez che informa il mondo sui malesseri della società cubana aiutata da un server tedesco con un’ampiezza di banda 60 volte più grande rispetto a qualunque altra utilizzata a Cuba dagli utenti internet, proprio il Fatto ha pubblicato un articolo di El Pais che si domandava candidamente perché il Paese di Zapatero non criticasse adeguatamente il regime cubano.
A volerla dare davvero, la risposta sarebbe stata semplice. José Maria Aznar, predecessore di Zapatero alla guida del governo spagnolo quando era in mano al Partito popolare, oltre ad aver avuto sovvenzioni per la sua campagna elettorale dai famigerati dirigenti della Fondazione cubano-americana di Miami, fautori del terrorismo contro Cuba e con i quali si è fatto anche fotografare, è da sempre uno dei membri di quelle ambigue associazioni che si riuniscono ciclicamente, col patrocinio magari della Fondazione Adenauer, per decidere, senza nessun imbarazzo, le strategie di ingerenza nella vita di Cuba e fare lobby ogni volta che alla Comunità europea sono in piedi iniziative per rendere più aspro l’isolamento e l’esclusione della Revolucion. E’ una questione di mentalità e di concezione della democrazia.
Non a caso nel 2002 il governo spagnolo di Aznar fu il primo, per esempio, ad approvare pubblicamente il colpo di Stato tentato e poi fallito in Venezuela contro il presidente Chavez, prima ancora degli Stati uniti di George W Bush. E’ stato lo stesso Miguel Angel Moratinos, attuale ministro degli Esteri spagnolo, a rendere pubblico quest’estemporaneo “atto di democrazia” di Aznar, una vergogna che ancora adesso giustifica la diffidenza della nuova America latina verso molte scelte della Comunità europea. Un organismo spesso ipocrita, disposto a concedere la patente di democrazia alla violenta Colombia di Uribe, ma pronto a condannare “l’intransigenza” di Cuba senza mai chiedere agli Stati uniti la ragione di un embargo e di un assedio che dura da mezzo secolo e ha già ricevuto 18 condanne di seguito dall’Assemblea delle Nazioni unite.
Sarebbe più coerente chiedere al Corriere della Sera e al Fatto perchè non abbiano mai chiesto la liberazione dei cinque componenti dell’intelligence cubana, da dodici anni in carcere negli Usa dopo un giudizio farsa del tribunale di Miami, smentito cinque anni fa dalla Corte di appello di Atlanta. Perchè l’unica colpa dei cinque è quella di aver smascherato le centrali terroristiche che dalla Florida preparavano gli attentati a Cuba.
Così questi esseri umani, detenuti senza diritti, sono ancora in carcere solo perché il Dipartimento della giustizia degli Stati uniti, prima sotto Bush, ma purtroppo anche sotto Obama, non ha ancora trovato il tempo di inviare ai giudici competenti per la sicurezza nazionale i dossier raccolti dalla Cia sull’argomento. Forse perchè l’agenzia di intelligence  spesso ha protetto quegli attentati?
Dov’è l’etica in tutta questa storia?