energia: spremi il carbone esce l'idrogeno




il manifesto - 16 Luglio 2004


Se spremi il carbone esce l'idrogeno

Alla ricerca di un futuro pulito e produttivo per le miniere del Sulcis
Non è solo dal parco geominerario sardo che dipende il lavoro del futuro. Il
carbone, depurato dallo zolfo, potrebbe avere una nuova vita e garantire
fonti energetiche non inquinanti, prima tra tutte l'idrogeno. E' una
scommessa, un progetto a cui lavorano aziende, Università e Regione

ANDREA FABOZZI
INVIATO A IGLESIAS

Passato remoto e futuro (speriamo) prossimo. Il combustibile più antico e
l'energia del domani. Provano a incontrarsi. Se ci riusciranno sarà nelle
viscere di una vecchia miniera. Non in un romanzo di fantascienza, ma nella
Sardegna di oggi. Nel suo cuore geologico, là dove la roccia ha più storia
da raccontare. Nel Sulcis. Troppo presto avevano dato per morto il carbone.
Odiato e benedetto, ricchezza e disgrazia di legioni di minatori e di pochi
imprenditori capaci. Attore, testimone e infine vittima dello sviluppo
economico dell'isola, ma il carbone sulcis aveva ancora un'altra risorsa.
Segreta. Ora vogliono tirargli fuori l'idrogeno. Pensano di riuscirci in
pochi anni. Sono già partiti. Un futuro pulito

Idrogeno. Energia pulita, motore di una nuova era industriale, macchine che
non inquinano, effetto serra addio. Si consuma molta retorica quando si
parla dell'idrogeno. La verità è che le speranze sono tanto grandi ma
altrettanto lontane. Cinquant'anni, dice l'Unione europea, per passare
dall'economia cresciuta sui combustibili fossili all'economia dell'idrogeno.
Intanto bisogna partire. E se sono già rodate le tecnologie per produrre
idrogeno dal carbone come risultato intermedio, per usarlo in processi
chimici come la produzione di metanolo, tutta nuova è l'idea che si sviluppa
in Sardegna: tirar fuori l'idrogeno dal carbone per farci energia elettrica.
Qui bisogna abbandonare la retorica e stare ai fatti.

Nessuno può farlo meglio di Eugenio D'Ercole, ingegnere, direttore generale
della Sotacarbo, società tecnologie avanzate carbone. E' una società di
interesse pubblico di cui sono soci l'Enea e la Regione Sardegna. Alla
ricerca, spiega D'Ercole, partecipano anche Ansaldo e Università di
Cagliari. L'obiettivo del progetto sta nel suo nome: «Sviluppo di tecnologie
per la produzione e il trattamento del syngas da carbone mirato
all'ottenimento e all'utilizzo di vettori energetici ad alta valenza
ambientale e all'idrogeno in particolare». Il progetto durerà cinque anni,
ha un costo totale di undici milioni e mezzo di euro, è stato finanziato dal
Ministero dell'istruzione, università e ricerca. Dal 2005 dovrebbe entrare a
regime.
Cos'è il syngas? Banalizziamo: è un gas combustibile che si ottiene
bombardando il carbone con vapore ad alta velocità. I problemi cominciano
allora, perché la croce del carbone sulcis è sempre stata quella di essere
ricchissimo di zolfo, che è fortemente inquinante. Per questa ragione e per
la decisione di un pool di banche di tirarsi indietro è ormai naufragato un
mega piano per la gassificazione cui era affidato il destino della
Carbosulcis (resta in piedi un contro piano del gruppo venezuelano Sardinia
Energy).
La strada tentata dal nuovo progetto è quella di pulire il syngas,
convertirlo per la produzione di idrogeno, separare e smaltire l'anidride
carbonica che ne risulta in modo da avere un motore pulito, in grado di
produrre all'inizio un piccolo quantitativo di energia elettrica sufficiente
a far andare il Centro ricerca. Che sta prendendo posizione nel vecchio
magazzino materiali della miniera Serbariu, a Carbonia. Scelta simbolica
quanto si vuole, ma soprattutto pratica. Perché l'obiettivo finale è quello
di dare un futuro alle miniere di carbone, e specialmente all'ultima che
ancora resta aperta, quella di Nuraxi Figus. Non per romanticismo, ma per
calcolo economico, di fronte all'aumento dei costi di trasporto del carbone
dell'est. L'idrogeno può essere la soluzione, nel frattempo si perfezionano
anche le tecnologie più sperimentate. Perché in Sardegna, strano a dirsi,
c'è il l'utilizzo medio di energia più alto del paese: da sole l'Alcoa e le
altre aziende del polo dell'alluminio (anche loro nella parte sud
occidentale dell'isola) assorbono il 30% dei consumi. E il carbone è ancora
il combustibile più conveniente, molto meno caro del petrolio, meno caro
anche del gas naturale. Così, oltre al sogno idrogeno la Sotacarbo non
trascura un progetto per una centrale a carbone di tipo tradizionale da 600
megawatt, ma «catalitica», in grado cioè di abbattere l'inquinamento del
carbone sulcis. Nel sottosuolo sardo, oltre a una storia mineraria che
secondo gli archeologi data 8 mila anni, potrebbe esserci anche un pezzo di
futuro.

Un passato di scorie

Il presente intanto è fatto anche di veleni. E' una storia paradossale
questa seconda che raccontiamo. Anche questa ha come sfondo il bacino
minerario del Sulcis Iglesiente. Storia paradossale perché la protagonista
sembra una montagna, ma invece è una discarica. Molto antica però, e si sa
che il tempo nobilita tutto. E' anche bella, niente da dire: un irripetibile
colore rosso, canyon che sembra di essere nel Far West. Ma sono fanghi
secchi. E sono tossici. Molto pericolosi, ormai intoccabili. C'è un vincolo
della sovrintendenza ai beni ambientali e anche la protezione dell'Unesco.
La montagna rossa le vedi dalla statale 126 che da Iglesias va a Carbonia.
Si fermano anche rari turisti, scattano foto. Siamo a Monteponi, intorno un
panorama di vecchie miniere ormai inattive: San Giovanni, Campo Pisano, San
Benedetto. In fondo il mare e lo scoglio «Pan di zucchero», più a sud
l'isola di San Pietro, Carloforte. Ancora più spettacolare quello che non si
vede: gallerie sotterranee per quaranta chilometri che uniscono le vecchie
miniere. Cento, duecento metri dentro la montagna per tirare fuori galena e
blenda. Minerali preziosi. Storia antica. Per cinquant'anni, dalla metà
degli anni Venti alla metà degli anni Settanta, per estrarre il piombo dalla
galena e lo zinco dalla blenda si è usato un impianto elettrolitico. I
fanghi residui, ricchi dei metalli pesanti, poco a poco hanno costruito la
montagna rossa. Claudio Parodi, un chimico che ha esperienza di inquinamento
industriale, ha lavorato anche a Marghera e vive a Portoscuso, ha trovato
tracce di piombo, zinco e cadmio nel rio San Giorgio, un fiume che fa da
impluvio per la valle delle miniere e arriva al mare. Ogni tanto, dopo i
giorni di pioggia, il mare si colora di rosso. Se c'è vento, invece, la
polvere rossa arriva nelle case della piccola frazione di Bindua, o
addirittura a Iglesias. E' molto tossica. «Il cadmio almeno 50 volte più del
piombo», spiega Parodi. Non ci sono studi sulla salute della popolazione, si
calcola però che la concentrazione delle sostanze tossiche dell'area superi
di 1.500 volte i limiti di legge, e si ricordano molti casi di saturnismo
tra gli operai della miniera.

Barricato in galleria

Monteponi è un buon riassunto di storia mineraria. Con l'asilo e le altre
palazzine razionaliste, gli impianti più vecchi a mattoncini, il giardino
davanti alla casa del direttore della miniera (oggi sede distaccata
dell'Università) e due profonde gallerie. In una di queste, la galleria
«villa marina», Giampiero Pinna, un geologo che ha fatto anche il
consigliere regionale ed è stato l'ultimo presidente dell'ente minerario
sardo prima della liquidazione, si è barricato per un anno, dal 5 novembre
2000 al 6 novembre 2001, prima da solo e poi con cinquecento lavoratori Lsu.
«Sono uscito - ricorda - solo quando venne il ministro Matteoli in miniera a
portare il decreto istitutivo del parco geominerario e anche la nomina
dell'organo provvisorio di gestione». Quella del parco geominerario è una
vecchia idea di Pinna, che nel `97 è riuscito a convincere l'Unesco che ha
dichiarato la rete delle vecchie miniere sarde «patrimonio dell'umanità». Ma
ancora oggi sono pochi i luoghi visitabili, e pochissimi quelli risanati.
Eppure i soldi ci sono. Stanziati tra il 1997 e il 1998: 50 milioni di euro
per il parco, altri 18 milioni per l'archeologia industriale, 3 milioni
l'anno per la gestione e quasi altri 2 milioni di euro solo per la bonifica
della montagna rossa. Per la quale l'Università di Cagliari aveva trovato
soluzioni compatibili con il vincolo della sovrintendenza: si potevano
incanalare le acque piovane e fermare le polveri con la ghiaia o attraverso
un sofisticato sistema di nebulizzatori automatici. La morfologia della
montagna e il panorama della valle sarebbero rimasti intatti. Ma nulla è
stato fatto. I lavoratori che avevano occupato la miniera con Pinna sono
stati sì assunti, ma non sono impiegati nella bonifica del parco. Il
comitato di gestione dell'ente parco in due anni si è riunito una sola
volta, alla fine dell'anno scorso, per nominare il consiglio direttivo. Alla
guida il ministro Matteoli e Mauro Pili - il presidente della Regione
sconfitto da Renato Soru il 13 giugno scorso - hanno sempre voluto un
fedelissimo, Emilio Pani, nonostante avesse già l'incarico di assessore
all'ambiente. Ricandidatosi alle elezioni, Pani è uno dei bocciati
eccellenti nel centrodestra. Adesso la nuova giunta dovrà sostituire i suoi
rappresentanti nel consiglio dell'ente parco. Poi toccherà a Soru far
presente al governo che quel presidente non è più gradito.