lavoro, cococo tutele e futuro



dal corriere.it 9 ottobre 2003
UNA RIFORMA GIACOBINA

Co.co.co.: più tutele
di PIETRO ICHINO

Contro il decreto del ministro Maroni che attua la «legge Biagi» - entrerà
in vigore proprio in questi giorni - la Cgil invita allo sciopero
denunciando il provvedimento come un passo verso la «liberalizzazione
selvaggia» del mercato del lavoro. Ma, paradossalmente, la norma della quale
oggi nelle aziende tutti discutono (e che interesserà il maggior numero di
persone) accoglie proprio una rivendicazione assai incisiva della Cgil
(delibera del Direttivo del 7 maggio 2002, seguita da proposta di legge di
iniziativa popolare): cioè il divieto del contratto di collaborazione
autonoma continuativa.
In altre parole, la messa al bando di quelli che ci eravamo abituati a
chiamare co.co.co.: nessun nuovo contratto di questo tipo potrà essere più
stipulato. E i contratti già in corso non potranno durare più di un anno
dall'entrata in vigore del decreto. Il divieto investe molte centinaia di
migliaia di posti di lavoro che hanno finora assunto questa forma: tecnici
informatici, redattori e correttori di bozze di case editrici, merchandisers
e promoters , «letturisti» dei contatori della luce e del gas,
telelavoratori, addetti a call centre , intervistatori, contabili, taxisti,
pony express , infermieri, impiantisti, e molti altri ancora; cui si
aggiungono tutti i consulenti aziendali non iscritti a un albo
professionale. A tutti questi e ai loro datori di lavoro la nuova norma
impone di trasformare il vecchio rapporto in contratto di lavoro subordinato
ordinario, assoggettato per intero al diritto del lavoro e alla
contribuzione previdenziale normale, con un aumento del costo per
l'azienda - a parità di retribuzione per il lavoratore - di oltre il 30 per
cento. La sola alternativa possibile è quella del contratto di «lavoro a
progetto», cioè a termine. Ma come si fa a fingere credibilmente un
«progetto» e un lavoro a termine quando la prestazione è stata fin qui
continuativa e di fatto continuerà a esserlo? E poi, scaduto il termine e
completato il primo «progetto» (se si è riusciti a inventarne uno), come si
fa a stipulare un altro contratto «a progetto», e poi un altro ancora, senza
che dall'anagrafe tributaria o da quella dell'Inps risulti evidente il
caratter e sostanzialmente continuativo del rapporto? Molte aziende, mal
consigliate, chiedono ai propri co.co.co. di «aprire la partita Iva» e d'ora
in poi farsi pagare emettendo fattura, per fingersi liberi professionisti;
ma se il lavoratore non è iscritto a un albo professionale, non basta certo
cambiare il regime fiscale della retribuzione per cambiare il carattere
sostanzialmente continuativo della prestazione di lavoro. D'ora in poi
questa è la sola cosa che conterà. Il carattere effettivamente «autonomo» o
«subordinato» della prestazione non avrà più importanza, per questo aspetto:
il giudice controllerà soltanto se essa potrà considerarsi «a progetto»,
cioè «a termine», oppure sostanzialmente continuativa. Intendiamoci, in
linea di principio l'idea che sta alla base della nuova norma è giusta. Il
fenomeno dei co.co.co. si è diffuso in Italia dagli anni '70 in poi come una
valvola di sfogo, come via di fuga legalizzata da un sistema di protezione
del lavoro troppo rigido e da un sistema previdenziale troppo costoso.
Meglio del lavoro nero, d'accordo, ma pur sempre un'ipocrisia e
un'ingiustizia ai danni di questi «lavoratori di serie B», almeno nella
maggior parte dei casi. Il fatto è che per correggere questa stortura
occorre gradualità, se non si vogliono perdere centinaia di migliaia di
posti di lavoro regolari. E occorre un diritto del lavoro meno rigido e
costoso nel suo nucleo centrale; questo decreto, invece, dopo due anni di
scontri paralizzanti, ne lascia intatto il nucleo centrale, intervenendo
soltanto ai margini del sistema.

Pietro Ichino