il modello italia fine di un ciclo



da repubblica.it
lunedi 20 ottobre 2003

Spiega Gros Pietro: "Noi sappiamo solo innovare, ossia prendiamo un
prodotto già esistente e lo modifichiamo, vi aggiungiamo qualcosa. Insomma,
assembliamo cose che esistono già. Nella ricerca, che è il futuro, siamo a
zero"

Il modello Italia ha finito il suo ciclo

GIUSEPPE TURANI

«Se non si cambia strada, le imprese italiane, e quindi il sistema Italia
nel suo complesso, corrono seri rischi. In sostanza, fino a oggi siamo
andati avanti facendo innovazione senza fare ricerca. Ma sappiamo che questo
modello non paga, c'è il pericolo di finire fuori gioco». Il professor
Gianmaria GrosPietro, presidente di Autostrade e professore di Economia
manageriale all'Università di Torino, non è un allarmista, ma uno studioso
pacato che ama mettere in fila numeri e fatti. Solo che secondo lui questa
volta i fatti sono contro di noi.
Che cosa significa innovazione senza ricerca? Sembra quasi una
contraddizione.
«No, nessuna contraddizione. Risulta dai dati ufficiali della Commissione
europea. L'Italia è al primo posto, fra i 15 paesi europei, per quota di
fatturato derivante da prodotti di nuova commercializzazione. Ma poi è
all'undicesimo posto (insomma, in fondo in fondo ...) per numero di brevetti
a alta tecnologia per milione di abitanti. Quindi siamo in testa per le
innovazioni e in coda per quanto riguarda la ricerca in alta tecnologia».
Continuo a non capire molto...
«E' molto semplice. Quando si tratta di "inventare" dei prodotti nuovi (un
nuovo tipo di scarpa, un nuovo tipo di doccia, un nuovo tipo di vestito,
ecc.) siamo bravissimi. I nostri imprenditori non li batte proprio nessuno,
almeno in Europa. Ma quando si tratta di fare ricerca seria, di base,
sull'alta tecnologia, praticamente non esistiamo».
Non si può nemmeno dire che copiamo. Che cosa facciamo esattamente?
«Quello che ho appena detto: innoviamo i prodotti. Aggiungiamo nuove
funzioni, introduciamo, se è il caso, l'ultima elettronica, miglioriamo il
design. Questo facciamo. E, ripeto, siamo bravissimi».
Ma perché siamo così "limitati"?
«In realtà è molto semplice. Noi siamo il paese delle piccole e medie
imprese e questo spiega già tutto. Aziende di questa dimensione non hanno le
risorse per fare ricerca importante, di base. Allora si muovono in un altro
modo. Si cercano una nicchia di mercato (che può essere le macchine per fare
i gelati o le macchine per fare una certa lavorazione tessile o altro
ancora). Poi vanno in giro per il mondo e comprano la miglior tecnologia
disponibile, assemblano il tutto e fanno "macchine" (o altro) che sono
certamente prodotti competitivi e interessanti. Ma tutto si ferma lì».
E questo non va bene?
«No. E almeno per due motivi. Da una parte è chiaro che si tratta di un
lavoro che può fare qualunque paese che abbia raggiunto un certo livello di
sviluppo. Insomma, è facile copiarci. Inoltre, è ovvio che questo lavoro di
"applicazione" delle tecnologie esistenti non attira i giovani talenti, che
preferiscono andare a lavorare altrove, e quindi perdiamo intelligenze
importanti».
Ma stiamo davvero perdendo quote di mercato a favore di altri?
«E' stata fatta da Prometeia una ricerca sui tredici settori produttivi nei
quali abbiamo perso più di quattro punti di quote sul mercato mondiale fra
il 1990 e il 2001, con l'elenco dei paesi che invece in quegli stessi
settori hanno avuto grandi progressi. Eccolo: Cina, Messico, India, Spagna,
Stati Uniti, Indonesia, Polonia, Belgio, Francia, Taiwan. E' un elenco che
parla da solo».
Siamo messi così male?
«Forse stiamo anche un po' peggio di quanto la gente non pensi».
Cioè?
«C'è un grafico che spiega molto bene come è la situazione italiana. In
questo grafico sulle ascisse (la linea orizzontale) compare la quota media
dell'Italia sul mercato mondiale nel periodo 19972000. Sulla linea
verticale, quella delle ordinate, c'è invece la crescita media delle
esportazioni mondiali nello stesso periodo. Sul grafico infine sono
collocati i vari settori. E lì si vede subito che noi siamo molto forti
soprattutto in quei settori (calzature, vetro, macchine agricole, ecc.) che
contano poco sui mercati mondiali e che crescono anche pochissimo. Siamo
invece molto poco presenti nei settori importanti e che crescono. Pochissimi
esempi. Nelle calzature abbiamo quasi il 15 per cento del mercato mondiale,
ma questo settore non cresce nemmeno dell'1 per cento all'anno. Nel
vetroceramica abbiamo quasi il 13 per cento, ma il settore cresce dell'1 per
cento all'anno. Il settore Information Technology cresce fra il 45 per cento
all'anno, ma noi lì abbiamo meno dell'1 per cento come quota di mercato.
Siamo dove non c'è molto futuro, ma non siamo dove il futuro è importante».
E allora?
«Se il grafico che le ho appena illustrato fosse riferito non a un paese ma
all'insieme dei prodotti di un'azienda, il consiglio di amministrazione si
riunirebbe e licenzierebbe l'amministratore delegato, accusandolo appunto di
essere presente soprattutto dove non c'è futuro commerciale (e dove la
concorrenza è più facile) e di essere assente invece dai settori dove
l'avvenire è più promettente, dove si muovono le cose. Accusandolo in
sostanza di aver fatto il contrario di quello che si dovrebbe fare».
Tutto questo, secondo lei, è un rischio per l'Italia?
«Sì. E molto grande. Con queste cose non bisogna scherzare. In questi
giorni, mentre infuriavano le polemiche sulla "concorrenza sleale" della
Cina (perché ha un costo del lavoro troppo basso), mi è tornata in mente una
storia, che vale la pena di conoscere. Nell'Ottocento l'Inghilterra era il
paese con il Pil/pro capite più alto del mondo, era il paese più ricco di
tutti, insomma. E questo perché era stata leader della prima rivoluzione
industriale, quella dell'industria tessile. Poi gli americani cominciano a
fare "concorrenza sleale" (allora avevano un basso costo della mano d'opera
perché erano all'inizio della loro industrializzazione). E in Inghilterra ci
sono grosse polemiche contro l'America, grosso modo come quelle che oggi si
fanno contro la Cina. Ebbene, prima della prima guerra mondiale l'America
raggiunge l'Inghilterra come reddito pro capite e oggi l'Inghilterra è al
sedicesimo posto nel mondo. Che cosa era successo?»
E' lei il professore.
«Gli americani non hanno battuto l'Inghilterra a forza di "concorrenza
sleale". L'hanno battuta perché l'Inghilterra non è stata leader della
seconda rivoluzione industriale, quella basata sull'auto, sull'energia
elettrica e sull'organizzazione del lavoro. In questo leader è stata
l'America, che quindi è passata in testa».
Per noi questo che cosa significa?
«Significa che alla fine vince non il costo del lavoro, ma vince chi sa
cavalcare le rivoluzioni tecnologiche. Questi paesi che oggi ci fanno una
concorrenza che noi riteniamo sleale possono cominciare in questo modo per
mettere su un sistema industriale, un'economia, ma poi possono anche tentare
di superarci se riescono a capire e a cavalcare il nuovo prima e meglio di
noi. Insomma, quelli che oggi ci fanno una concorrenza aspra sulle scarpe e
sui tessuti, domani potrebbero farcela su cose molto più serie. E questo
sarebbe davvero un guaio. Sarebbe un guaio perché di colpo potremmo trovarci
a avere una posizione molto marginale nel processo di produzione mondiale.
Insomma, rischiamo di essere spinti, anno dopo anno, ai margini. Anche
perché queste cose si muovono molto in fretta. Nel. 1870 gli Stati Uniti
avevano meno del 9 per cento del Pil mondiale, nel 1913 erano già arrivati
al 20 per cento. La Cina nel 1978 aveva meno del 5 per cento del Pil
mondiale, si stima che nel 2020 arriverà al 15 per cento. Come vede, c'è una
certa fretta, bisogna muoversi rapidamente».
Quindi lei è convinto che dovremmo fare più ricerca di base.
«Assolutamente. Alla fine quella che paga è la ricerca di base. Certo, è
quella più difficile da fare perché richiede molti mezzi e si corre il
rischio che si concluda in niente. Però, quando va bene, è quella che ripaga
davvero, che mette al sicuro. La cosa da capire è questa: non esiste
soluzione di continuità fra ricerca di base, ricerca applicata e sviluppo. I
l premio Nobel italiano Giacconi (che ha vinto per i suoi successi
nell'astronomia a raggi X) ha raccontato per che per fare la sua ricerca ha
dovuto inventarsi tutto, comprese le macchine per guardare il cielo. Dei
suoi collaboratori, poi, hanno preso questa ricerca molto innovativa,
l'hanno sviluppata e oggi queste sono le macchine con cui si ispezionano i
bagagli in tutti gli aeroporti del mondo. Ma si potrebbero fare moltissimi
altri esempi».
Ma, come ha spiegato lei prima, noi siamo soprattutto un paese di piccole e
medie imprese. Come si fa a lanciarsi nella ricerca di base?
«Intanto bisognerebbe cercare di rimuovere parte delle cause che impediscono
al sistema industriale italiano di diventare un po' più consistente».
Nell'attesa si può fare qualcosa?
«Sì, si deve».
Ma come?
«I soggetti interessati alla ricerca sono sostanzialmente tre: la ricerca
pubblica (università, laboratori, ecc.), le imprese e il sistema
finanziario. Oggi questi tre mondi in Italia sono tre mondi separati, ognuno
va per la propria strada. Bisogna invertire questo modo di comportarsi.
Bisogna che questi tre mondi comunichino. Bisogna che le persone che
lavorano in questi tre mondi possano circolare, scambiarsi posti e
esperienze. Bisogna, in sostanza, che questi tre mondi diventino un unico
mondo dentro al quale si fa ricerca di base. Questo comporta cambiare
abitudini, leggi, statuti, ecc. So bene che non è una cosa semplice, ma va
fatta e in fretta. Ripeto: l'azienda Italia si presenta oggi con una gamma
di prodotti talmente sbilanciata verso il "vecchio" per cui ci sarebbe da
licenziare subito il suo amministratore delegato. Ma, al di là della
battuta, bisogna rimettere in funzione il meccanismo della ricerca,
assolutamente».
Ma la "nuova" rivoluzione industriale intorno a che cosa gira?
«Cinque sono le cose importanti: la microelettronica, l'information
technology, le biotecnologie, le nanotecnologie e i nuovi materiali. Chi
resta fuori da queste aree di ricerca, chi non ha e non avrà niente da dire
in proposito, non potrà che avere una posizione marginale nel mondo dei
prossimi anni».