se entra in crisi il commercio mondiale



da l'unità.it di lunedi 1 settembre 2003

Da l'Unità del 01.09.2003

 Se Entra in Crisi il Commercio Globale
di Walden Bello

Alla vigilia della sua quinta conferenza ministeriale, il Wto ­ World Trade
Organization ­ che alla sua costituzione nel 1995 fu visto come coronamento
di una governance economica globale, si trova praticamente in una situazione
di empasse. Il tentativo estremo esperito dall'Unione Europea e dagli Stati
Uniti di creare i presupposti per la ripresa delle trattative sulla
liberalizzazione del settore agricolo, giunte ad una fase di stallo, sembra
essersi ritorto loro contro, visto che i paesi in via di sviluppo hanno
criticato aspramente le due superpotenze commerciali per essere tornate
sulle posizioni che avevano ai tempi dell'Uruguay Round (1984-96), avendo
stipulato degli accordi sottobanco senza la partecipazione di alcuno degli
altri 144 paesi membri dell'organizzazione.
Brasile, India e Cina ­ Paesi volani dell'economia del mondo in via di
sviluppo ­ sono prontamente intervenuti con un documento in cui si chiede
che europei e americani la smettano di menare il can per l'aia e riducano
drasticamente la portata di quelle agevolazioni che consentono di immettere
sui mercati mondiali enormi quantità di cereali e di carni a basso prezzo,
escludendo così dai giochi centinaia di migliaia di agricoltori dei Paesi in
via di sviluppo.
Le trattative mirate a subordinare i diritti di proprietà intellettuale alle
esigenze di salute pubblica sono giunte a un punto morto, in quanto gli
Stati Uniti non intendono scostarsi dal principio secondo cui la parziale
liberalizzazione dei brevetti andrebbe limitata soltanto laddove si tratti
di farmaci contro Hiv-Aids, malaria e tubercolosi, in aperta sfida alla
dichiarazione della quarta conferenza ministeriale del Wto tenutasi nel 2001
a Doha, la quale privilegia chiaramente le questioni di salute pubblica
rispetto ai diritti di proprietà intellettuale.
Non si è registrato alcuno spostamento nelle trattative intese a portare
sotto la giurisdizione del Wto le questioni riguardanti gli investimenti, le
politiche di concorrenza, la trasparenza degli appalti pubblici, gli scambi
agevolati in ambito commerciale, che Bruxelles e Washington hanno
interpretato come centrali alla Dichiarazione di Doha. In effetti, a tutt'
oggi non si è giunti a un punto di accordo sul fatto se esistano o no i
presupposti formali per un avvio delle trattative.
Alcuni osservatori fanno notare come stiano venendo a galla quelli che sono
i tre fattori principali che hanno determinato il fallimento della terza
conferenza ministeriale di Seattle, del dicembre 1999: la crisi del settore
agricolo Ue-Usa è nuovamente in primo piano, i Paesi in via di sviluppo sono
più risentiti che mai, e la società civile si sta mobilitando. Il fattore
società civile non va assolutamente sottovalutato. Seppure non si disponga
di dati certi, non è escluso che a Cancun possa convergere da tutto il mondo
una folla che potrebbe raggiungere le 15mila persone. Senza escludere la
possibilità che un certo numero di Zapatisti, ovvero appartenenti all'
organizzazione di insurrezionalisti armati provenienti dalle comunità
paesane indigene del Chiapas, nel sud del Messico, possano aggregarsi alla
contestazione, trasformando così la conferenza in un'occasione di ampia
protesta nazionale.
La travagliata situazione che il Wto sta attraversando altro non è che il
prosieguo della crisi istituzionale apertasi a Seattle, nel dicembre 1991,
come conseguenza dell'opposizione espressa da alcuni gruppi della società
civile alla tendenza dello stesso Wto di subordinare gli aspetti più critici
della vita sociale agli interessi delle grandi realtà commerciali.
La conferenza di Seattle non ha visto realizzare alcuna riforma; c'è stata
soltanto, sulla scia degli eventi dell'11 settembre, una dichiarazione
imposta di fatto ai Paesi in via di sviluppo da Usa e Ue con cui si dava
mandato alla quarta conferenza ministeriale di Doha, Qatar, prevista per il
novembre 2001 di condurre una serie limitata di trattative. Comunque il
cosiddetto Doha Round è finito ben presto in un nulla di fatto. La crisi
istituzionale del Wto è di per sé un riflesso di una difficoltà ben più
profonda e generale, vale a dire quella del progetto globalista di un'
integrazione accelerata della produzione e dei mercati. La crisi finanziaria
asiatica del 1997 ha delegittimato uno dei capisaldi del progetto
globalista, secondo cui la liberalizzazione degli scambi commerciali avrebbe
dato impulso alla prosperità economica. Poi c'è stato il crollo dei mercati
azionari del marzo 2000, che ha avviato una fase recessiva e deflazionistica
di portata globale determinata sia dagli eccessi speculativi del capitale,
sia dalla superproduzione mondiale. Di fronte a una crescente disoccupazione
e a un rallentamento della crescita economica, le élite dell'economia
europea e americana hanno perso sempre più di vista il progetto di un'
economia globale integrata, per spostarsi verso politiche mirate a tutelare
gli interessi del capitalismo nazionale o regionale.
Con la sua sfacciata difesa dei capitali americani investiti in società
finanziarie, esemplificata dalla posizione assunta nei riguardi dei diritti
di proprietà intellettuale in un contesto commerciale nonché nel campo della
salute pubblica, l'economia unilaterale di Bush molto probabilmente
aggraverà sia la crisi del progetto globalista, sia quella delle istituzioni
multilaterali cui ci si era appoggiati per portare avanti il programma di
globalizzazione. Con l'Ue e gli Usa in disaccordo su tutta una serie di
tematiche, è diventato loro assai più difficile dare corpo a una strategia
coordinata finalizzata a dividere e intimidire, nell'ambito del Wto, i Paesi
in via di sviluppo sulle questioni di comune interesse per i due poli del
capitalismo, come ad esempio l'imposizione da parte dello stesso Wto di
quell'accordo sugli investimenti che i Paesi in via di sviluppo hanno così
strenuamente contrastato.
Nonostante le differenze tra Usa e Ue si facciano via via più marcate, è
sempre ancora possibile una loro convergenza mirata a convincere i Paesi in
via di sviluppo ad approvare a Cancun nuove iniziative nel campo degli
scambi commerciali e della loro liberalizzazione. Tutto induce a temere,
però, che assisteremo probabilmente a una conferenza ministeriale da cui non
uscirà alcun accordo che porti a compiere significativi progressi verso la
liberalizzazione degli scambi, e che riprodurrà la stagnazione seguita alla
conferenza di Ginevra.
Per i Paesi in via di sviluppo, cui si impone di aprire i propri mercati o
cedere il controllo a Washington e al Wto di aree fin qui àmbiti di
competenza esclusiva delle politiche nazionali ­ vedi investimenti e
concorrenza ­ l'esito migliore di una conferenza ministeriale sarebbe quello
di un suo fallimento o comunque di un suo scarso successo. Darebbe infatti
loro respiro per organizzare la propria manovra difensiva, e consentirebbe
sia a loro che alla società civile di invertire il corso di quel processo di
globalizzazione indotto dal mondo imprenditoriale che persino il portavoce
del libero scambio The Economist vede come minaccia più che concreta al
futuro del capitalismo a causa degli «eccessi» del capitale globale.
Walden Bello
docente di Sociologia e Amministrazione Pubblica presso la University of the
Philippines, e direttore esecutivo del Focus on the Global South con sede a
Bangkok