ricerca e innovazione in italia



il manifesto - 02 Settembre 2003

Alla ricerca della ricerca perduta

A parole, tutti sono d'accordo. Poi però i centri di innovazione sono
mortificati, i fondi tagliati, le risorse sprecate, le intelligenze
disperse. E guardare quello che fanno gli altri fa rabbrividire

MARIO PIANTA

Abbiate pazienza. Oltre allo sforzo di tornare a lavorare, studiare o a
cercare lavoro, dovreste ricordarvi in che condizioni è l'economia italiana:
non buone. Ma tutti quelli che hanno fatto quest'anno vacanze più brevi lo
sanno già.Siamo in recessione: il prodotto interno lordo (Pil) del secondo
trimestre 2003 è sceso dello 0,1% rispetto al trimestre precedente, mentre i
prezzi al consumo sono cresciuti a luglio del 2,7% rispetto ad un anno
prima, assai più in fretta che negli altri paesi europei. Sta frenando
soprattutto la produzione industriale, che nei primi sei mesi dell'anno è
dell'1,7% inferiore a quella del primo semestre 2002. Se guardiamo un po'
più indietro, ci spiega l'Istat, l'industria italiana oggi produce meno che
nel 2000. La novità importante è che anche le esportazioni perdono colpi.
Dopo anni di buoni risultati, la bilancia commerciale nei primi cinque mesi
del 2003 ha avuto i conti in rosso per 3,8 miliardi di euro, mentre un anno
prima c'era un avanzo di 1,2 miliardi di euro. Il buco è quasi interamente
dovuto agli scambi interni all'Unione Europea (con cui si era in rosso già
un anno fa). Se in passato le esportazioni nette italiane verso il resto del
mondo coprivano l'eccesso di importazioni dal resto d'Europa, adesso non
bastano più. E questo aiuta a spiegare le preoccupazioni estive del ministro
dell'economia sulla concorrenza «cinese» che toglie mercati ai produttori
italiani.Il risultato, prevedibile, è che cala l'occupazione nelle grandi
imprese - dell'1% tra maggio 2003 e maggio 2002 - e fatti 100 gli addetti
del 2000, oggi siamo scesi a 95,4. Il numero di occupati totali è invece
salito dell'1,4% rispetto all'aprile 2002, grazie a 150 mila occupati in più
tra i 50 e i 59 anni che lavorano nei servizi nel centro-nord del paese. La
disoccupazione resta all'8, 9%.

I guai anche nella bilancia commerciale sono seri perché la domanda estera è
stata negli ultimi anni lo stimolo maggiore per la produzione italiana (in
qualche misura, lo stesso vale per l'Europa). Compensava il ristagno della
domanda interna, fatta di consumi in crescita lenta (visto che i salari
reali diminuiscono da tempo), spesa pubblica ferma e investimenti in caduta.
Di qui i timori che la spirale della recessione si aggravi in Italia proprio
mentre la ripresa fa capolino nelle maggiori economie occidentali.Scopriamo
così che i guai non sono (solo) legati al ciclo economico negativo,
dipendono da che cosa produce, vende e compra l'Italia, e a quali prezzi:
dalla sua struttura produttiva e dalla sua competitività.

Ma ci sono due tipi di competitività: quella «cinese» dei prezzi bassi per
beni ordinari, e quella «europea» di prezzi alti per beni acquistati per la
loro qualità. Se per il modello «cinese» servono bassi salari e assenza di
tutele sul lavoro, per una competitività «europea» servono saperi, ricerca,
nuovi prodotti di qualità, e un sistema innovativo che funzioni bene. In
Italia la spesa per ricerca e sviluppo (R&S), esclusa quella universitaria,
era nel 2002 di 9,7 miliardi di euro, ed è diminuita in termini reali
rispetto al 2001.

L'intera spesa per R&S è ferma a poco più dell'1% del Pil italiano, mentre i
maggiori paesi europei spendono il 3%. Questo ritardo non è una novità, ma
mentre dieci anni fa spendevamo la metà dei nostri cugini europei, ora
spendiamo un terzo. Poco male, dicono alcuni, la ricerca conta poco per le
prestazioni delle imprese italiane, piccole, flessibili e presenti in
settori in cui è normale non farne. Vediamo allora quanta innovazione si fa,
con o senza ricerca, sulla base di una nuova importante indagine promossa da
Eurostat. Nel 2000 le imprese italiane hanno speso 6,2 miliardi di euro per
R&S, ma se calcoliamo anche la spesa per progettazione, formazione e
investimenti in macchinari e impianti innovativi arriviamo a oltre 25
miliardi, pari a 9300 euro per addetto nell'industria e a 3600 nei servizi.

E' vero che su questi dati la distanza rispetto ai maggiori paesi europei si
riduce un po', ma l'Italia resta nella parte bassa della classifica. I
risultati delle attività innovative mettono l'Italia nella stessa zona a
«rischio retrocessione». Tra il 1998 e il 2000 solo 38 imprese su 100 hanno
introdotto un'innovazione di prodotto o di processo in Italia, contro il 63%
della Germania e valori oltre il 40% per i maggiori paesi europei. Nei
servizi siamo al 24% contro il 53 della Germania e il 40 dei paesi del nord
Europa. Di quali innovazioni si tratta? Ad esempio, di nuovi prodotti che
creano mercati e occupazione, o di nuovi processi che ristrutturano le
imprese e riducono la forza lavoro? In Italia il 30% delle imprese che
innovano lo fanno solo con nuovi processi, più di quante innovino solo nei
prodotti (23% nell'industria, 26% nei servizi; il resto innova in entrambi);
già a metà degli anni `90 l'Italia, Spagna e Portogallo erano gli unici
paesi europei ad avere più imprese che innovavano nei processi di quante
introducessero nuovi prodotti. E i dati Istat ci mostrano che le innovazioni
di processo dominano i settori tradizionali - dal tessile al legno - e le
regioni del nord-est. Se aggiungiamo che la spesa per innovazione in Italia
è fatta per metà di acquisto di nuovi macchinari che permettono minori costi
e minore occupazione, troviamo che le imprese italiane hanno in mente una
competitività che va nella direzione di quella «cinese» più che verso quella
«europea». Dal modello europeo ci si è allontanati a grandi passi: l'ultima
grande scivolata della spesa per ricerca delle imprese ha coinciso con
l'ondata delle privatizzazioni: per prima cosa, in nome dell'efficienza, i
nuovi proprietari privati hanno tagliato i laboratori di ricerca e sviluppo.
E, quando si trattava di imprese straniere (come insegnano le vicende di
Italtel, Enichem, Nuovo Pignone) subito dopo sono state ridimensionate le
capacità produttive.Meno stato, meno ricerca, più efficienza? Che strano,
però, trovare nei rapporti di Mediobanca che ancor oggi i profitti più alti
li fanno le imprese semi o ex pubbliche. La paziente costruzione di
competenze tecnologiche e produttive nei mercati protetti dall'intervento
pubblico dà ancora frutti per gli azionisti di oggi. Sarebbe una buona
ragione per evitare la frettolosa liquidazione di capacità produttive
pubbliche e private che, una volta distrutte, è difficile ricostruire: una
lezione da ricordare a proposito della crisi della Fiat (e che viene
argomentata in uno speciale nell'ultimo numero della rivista Economia e
Politica Industriale). Lasciate da sole, le imprese italiane hanno mostrato
di non investire a sufficienza in nuove conoscenze, prodotti e mercati: non
decollano nuove produzioni, e quelle esistenti hanno il fiato corto.

In effetti, per una competitività «europea» servirebbe anche una struttura
produttiva fatta di imprese medio-grandi (che piace alla Banca d'Italia), un
rapporto stretto tra banche e imprese per finanziare l'innovazione e la
crescita delle imprese (che piace meno), la capacità di tenere la proprietà
in mani nazionali (che in Italia sembra non piacere a nessuno). E poi
(sorpresa, sorpresa) un ruolo forte dello stato, come negli altri paesi
avanzati, per guidare la formazione di nuove capacità e competenze di
imprese e lavoratori nelle direzioni in cui si rivolge la domanda,
individuale e collettiva, di nuovi beni e servizi.