i guerrieri just in time



     
 
il manifesto - 05 Marzo 2003 
 
Le armate dei guerrieri just in time 
La volontà imperiale degli Stati uniti di difendere un modello di sviluppo
e la crescita di un movimento globale di protesta contro l'annunciata
guerra contro l'Iraq. Parla lo storico e urbanista statunitense Mike Davis 
Nel Golfo saranno impiegati nuovi sistemi di armamento e vedremo all'opera
piccole e autonome unità di combattimento dotate di sofisticati gadget
elettronici per elaborare in tempo reale il flusso continuo di informazioni
e così modificare gli obiettivi militari
STEFANO SENSI
La galassia americana di fronte alla vigilia di una guerra che rappresenta
uno shift epocale sia per quanto riguarda le stategie e le tecnologie
militari che verranno impiegate, ma anche per il passaggio senza indugi ad
una politica «imperiale» da parte del presidente George W. Bush dopo il
periodo soft rappresentanto da Bill Clinton. Allo stesso tempo gli Usa sono
il paese in cui si manifesta un movimento di «resistenza» che vive una fase
di prodigioso successo. Cosa si agita in queste due «Americhe»
apparentemente sempre più distanti a causa della «guerra al terrorismo»? Ne
abbiamo parlato a Los Angeles con Mike Davis, lo storico e urbanista noto
per alcuni saggi dedicati allo sviluppo metropolitano - La città di quarzo
(manifestolibri) e Geografia della paura (Feltrinelli), dedicati entrambi a
Los Angeles, e il non ancora tradotto Dead Cities -, nonché di studi sulle
politiche repressive dell'immigrazione da parte dell'establishment - I
latinos alla conquista dell'America (Feltrinelli) - o di grandi affreschi
sulla nascita delle politiche imperialistiche - Olocausti vittoriani
(Feltrinelli). Ed è quindi ovvio che il punto di partenza dell'intervista
non possono che essere le manifestazioni contro la guerra del 15 febbraio.

Cosa pensi di questo movimento pacifista?

Sono affascinato dalla potenza espressa da questo movimento. Non mi
riferisco solo alle dimensioni raggiunte ma anche, e soprattutto,
all'eterogeneità e diversità che esprime. Impressionante é la sua
diffusione capillare. Sono appena tornato dall'Arizona dove ho assistito ad
incredibili manifestazioni in piccoli centri sperduti. A Flagstaff, per
esempio, ci sono stati, sabato 15 Febbraio, migliaia di dimostranti in
piazza, una cifra che considerato il numero totale di abitanti di questa
piccola città ne fa probabilmente uno dei posti a più alto tasso di
«resistenti» di tutto il pianeta. Persino qui a Los Angeles, nei sobborghi
opulenti di Orange County, capitale mondiale del conservatorismo
repubblicano e uno posti più conformisti di tutti gli Stati uniti,
assistiamo a forme di dissenso diffuso che sorgono nei posti più
inaspettati. Mi riferisco, ad esempio, alle peace walks all'interno dei
centri commerciali che mettono magicamente insieme centinaia di attivisti
ed incuriositi consumatori. Un fatto ampiamente ignorato dai media é la
risonanza delle tematiche pacifiste all'interno del mondo sindacale. La
maggior parte dei quadri, e questo vale anche per i sindacati che contano
milioni di iscritti, si è infatti schierata decisamente contro la guerra.

C'é poi la dimensione globale, transnazionale, di questo movimento. Stiamo
assistendo all'affermarsi del più grosso movimento globale di protesta mai
esistito nella storia dell'umanità.

Il «New York Time» ha scritto che dal 15 febbraio ci sono due superpotenze
nel mondo: gli Usa e l'opinione pubblica mondiale. Sei d'accordo con questa
analisi?

Per quanto io stesso, come ho detto, sia estasiato dalla dimensione di
questo movimento, penso che l'analisi del New York Times ne sopravvaluti il
reale peso. Fino a che non riusciremo ad inceppare la macchina di guerra,
la seconda superpotenza di cui parla il Times ha i piedi d'argilla. Certo,
manifestazioni come quelle del 15 hanno un incredibile effetto nel
catalizzare la scesa in campo di un sempre maggior numero di forze, ma se
non si passa, come mi sembra stia succedendo in Europa, ad una fase di
intensa attività di disobbedienza civile di massa, siamo destinati ad
incidere solo in maniera marginale. Ma è in Europa che si sta giocando una
delle partite più importanti. Se il movimento della pace riuscisse a far
entrare in crisi uno dei tre governi - quello inglese, l'italiano o lo
spagnolo - che sostengono Bush allora sì che si scatenerebbe un effetto
domino con implicazioni importantissime. In Inghilterra mi sembra che i
presupposti ci siano, visto l'opposizione sempre più articolata e imponente
che sta crescendo contro Blair, persino all'interno del Labour party . Il
movimento italiano sta mostrando un'incredibile creatività e determinazione
con la campagna di boicottaggio dei «treni della morte» e chissà ...

E' una situazione fluida e dagli esiti imprevedibili. Forse non saremo in
grado di evitare l'inizio della guerra, ma ne possiamo però condizionare la
durata. Bush e Rumsfeld sperano ad esempio che quella contro l'Iraq sarà
una guerra lampo. Nella loro lucida follia, si illudono che in pochi giorni
sconfiggeranno l'esercito iracheno e che le truppe americane saranno
accolte a braccia aperte dai festosi iracheni liberati. Sperano cioè in un
«miracolo» che possa mettere a tacere il dissenso rispetto alle loro
politiche espansioniste. Quello che è ragionevole supporre è invece che chi
ha manifestato contro la guerra in questo periodo ritorni a casa così
facilmente.

Parlando delle nuove tecnologie che verranno impiegate nella guerra, hai
recentemente parlato di una vera rivoluzione in corso ....

Non sono io a dirlo. Sono gli strateghi del Pentagono che affermano che la
prima guerra del Golfo, nonostante l'incredibile campagna mediatica sui
bombardamenti «chirurgici», non è stata la prima guerra «moderna», quanto
l'ultima guerra combattuta secondo uno schema tradizionale. Curiosando fra
quello che le think-tanks militari hanno elaborato negli ultimi tempi ci si
accorge che tutti gli anni `90 sono stati attraversati da una fondamentale
ridefinizione di tattiche e strategie che ha portato a quella che Rumsfeld
ha, appunto, definito «la rivoluzione». La guerra in Iraq dovrebbe
rappresentare il banco di prova di questo cambio di paradigma. La novità
non viene solamente dall'ulteriore salto tecnologico delle armi che saranno
impiegate - bombe che, grazie alla tecnologia laser, sono in grado di
colpire con precisione millimetrica, l'utilizzo di micronde e campi
elettromagnetici per mettere ko comunicazioni o, infine, l'uso di aerei
telecomandati. No, il cambiamento viene da un mutamento di paradigma che
sposta l'organizzazione militare verso un modello a rete, un modo di fare
la guerra che viene definito network centric warfare. Si applicano cioè
alla macchina bellica i paradigmi che sono alla base dell'economia
postfordista.

Infatti, il modello di riferimento, proposto dalle teste d'uovo del
Pentagono è proprio quello leggero e «minimalista» che governa un colosso
della distribuzione americana come la catena Wal-Mart. Si importano cioè
quelle strategie, il just in time ad esempio, che regolano l'odierna
produzione nella new economy. Ci si avvale infatti di quei principi di
sincronizzazione, in real-time, dei processi produttivi e distributivi che
fanno si che l'operatore di cassa, con la semplice lettura ottica del
codice a barra di una merce qualsiasi, intervenga in maniera istantanea su
produzione e stoccaggio dell'articolo venduto. Tradotto in termini
militari, i rivoluzionari del Pentagono pensano di creare unità di
combattimento leggere, ri-assemblate in tempo reale, che somministrino
potenza letale commisurata a quelle che sono le immediate contingenze del
campo di battaglia. Tale modello é reso oggi possibile grazie all'immensa
potenza in termini di capacità di flusso di informazione delle reti
moderne, coniugata con un esteso uso di tecnologie di videosorveglianza e
monitoraggio tramite l'uso di una nuova generazione di gadgets elettronici
come sensori miniaturizzati e minuscole videocamere robotizzate.

Ma il modello postfordista fornisce anche lo schema organizzativo dei
processi decisionali. Nel nuovo paradigma leggero, le unità di
combattimento sarebbero organizzate secondo un modello a reti orizzontali
in uno stato di fluida ricombinazione permanente. Unità autonome che hanno
potere decisionale immediato senza coinvolgimento della tradizionale catena
di comando.

Si parla anche di nuovi approcci tattici..

E' previsto un utilizzo della forza non più secondo un modello lineare,
fatto di incrementi progressivi. Si farà infatti uso di una strategia shock
and awe, che procede attraverso l'erogazione di inaudita potenza
distruttrice a sbalzi. Un modello in cui da una parte si isola il nemico
polverizzando le infrastrutture della comunicazione e dall'altra si
incrementa il caos del teatro di guerra procedendo ad una sistematica
terrorizzazione della popolazione civile. E' ovvio che, al di là di
qualsiasi considerazione etica, queste strategie pongono problemi di ordine
logistico. Unità leggere ed autonome, così criticamente dipendenti dalla
stabilità del flusso informazionale locale/globale, sono anche ovviamente
assai vulnerabili. Cosa, infatti, potrebbe succedere se nel bel mezzo della
battaglia tali networks venissero hackerati da terroristi, o molto più
semplicemente da qualche brufoloso quindicenne del Midwest? In realtà il
Pentagono affianca a questo schema «leggero» un segreto backup (piano di
emergenza) «pesante»: il nucleare. Di fatto, è questo, il poco
pubblicizzato obbiettivo reale che muove la crociata dei rivoluzionari.
Rompere il tabù nucleare, far passare cioè nell'opinione pubblica, la
legittimità di un uso sempre più routinario delle armi nucleari. Siamo di
fronte ad un drammatico shift di paradigma, una escalation in cui l'uso del
nucleare non è più la estrema ratio a cui ricorrere.

C'é infine un ulteriore terrificante scenario. Un analisi di quanto
pubblicato negli ultimi anni sulla letteratura scientifica del settore,
rivela come la ragione intrinseca per cui il governo americano ha
attivamente sabotato la creazione di un trattato internazionale per la
limitazione dello sviluppo di armi biologiche é perchè gli Usa stanno
appunto lavorando alacremente alla messa a punto di un sempre più potente e
devastante biological warfare.

Quale sarà il ruolo della «guerra di propaganda» in questo mutamento delle
strategie militari?

Anche su questo versante i rivoluzionari del Pentagono si accingono ad
operare un sostanziale salto di paradigma. Stiamo assistendo in questi
giorni all'addestramento militare, un vero e proprio combat training, di
centinaia di giornalisti dei principali media nazionali. Questa volta
dunque, i media saranno presenti sul campo di battaglia. Una gigantesca
operazione di public relation da parte del Pentagono. E' ovvio che dobbiamo
farci ben poche illusioni su quelli che saranno i livelli di obbiettività
offerti da questi operatori mediatici con l'elmetto.

E cosa accadrà negli Stati uniti?

Per prima cosa va registrata l'assenza dalla scena pubblica dell'area
liberal del partito Democratico. A differenza di quanto succedeva negli
anni `60, il movimento della pace non ha saputo ancora catalizzare, come
avvenne allora, quelle forze della sinistra del partito democratico che
fecero del rifiuto alla guerra la piattaforma per la candidatura di
Kennedy. La cosa grave non è che la maggior parte dei repubblicani si sono
persi dietro a questo folle avventurismo dell'amministrazione Bush, ma è
che il partito Democratico ha perso qualsiasi contatto con la propria base.

Inoltre, negli Usa stiamo assistendo ad involuzione autoritaria senza
precedenti. Dico senza precedenti, non perchè gli Stati uniti non abbiano
nel passato conosciuto fasi di repressione di pari intensità. Da un punto
di vista strettamente giuridico, le incredibili limitazioni alle garanzie e
libertà personali contenute nell'Usa Patriot Act non sono certo peggiori di
quanto accadde negli anni `20 o '50. Oggi ci troviamo di fronte a forme
pervasive di controllo sociale che puntano a prevenire e repimere forme di
dissenso sociale e politico. Le leggi approvate prima e dopo l'11 settembre
rendono più sofisticati le forme di controllo sociale già operanti, ad
esempio, nelle grandi metropoli. Basti pensare al sempre più pervasivo uso
della videosorveglianza o alla definizione dei gruppi sociali a rischio su
cui contentrare le operazioni di polizia.

Infine, sempre sul piano interno, pessime notizie vengono dal mondo del
lavoro, dove siamo di fronte ad una fase di ripiegamento dell'offensiva
sindacale. Ho già detto che molti quadri sindacali si sono pronunciati
contro la guerra contro l'Iraq, ma uno degli effetti della guerra
permanente al terrorismo é stato la riduzione del numero di vertenze
sindacali. L'attuale clima di isteria xenofoba sta infatti avendo pesanti
ripercussioni nel mondo del lavoro. Si pensi a quanto succede qui a Los
Angeles dove il 40 % della forza lavoro é composta di latinos che la guerra
al terrorismo ha messo nel mirino di tutte le agenzie dell'inquietante
Department of Homeland Security. Una prodigiosa stagione di rivendicazioni
spesso vincenti si é arrestata e dal giorno alla notte l'organizzazione di
lotte operaie e sindacli é diventata molto difficile.

Su piano internazionale questo governo ha prodotto una profonda e
probabilmente irreversibile frattura con il passato. l'attuale
amministrazione ha rotto con il modello soft che ha segnato la presidenza
di Bill Clinton. Erano quegli gli anni in cui il capitalismo mirava ad
arginare i devastanti effetti della sua espansione a livello globale
attraverso una gestione basata sul consenso. Clinton, dal posto di comando,
operava con una gestione illuminata, magnanima, volta a non umiliare troppo
i partners minori. Bush jr. opera, al contrario, secondo una strategia
primordiale, sanguigna. Probabilmente, fra cento anni gli storici
leggeranno questo periodo come la disperata risposta di un' insensata
oligarchia alle tragiche contraddizioni eco-sistemiche poste dal modello di
sviluppo capitalista. Una risposta feroce che impone il dominio americano
sul pianeta al fine di tutelare, il più a lungo possibile, un insostenibile
modello di sviluppo. Prima ancora dell'11 settembre, prima ancora
dell'Iraq, questa amministrazione si è posta come obbiettivo ultimo quello
di mantenere ad ogni costo l'egemonia americana nel mondo. Gli integralisti
che occupano oggi la Casa Bianca vogliono prevenire l'avvento di una
seconda superpotenza mondiale. In questo senso lo showdown finale sarà, non
ora, con il mondo islamico ma bensì fra qualche decennio con l'oriente. Il
vero target di questa svolta «imperialista» é la Cina.

Cosa fare dunque?

Non credo che la rivoluzione sia possibile ma (ride), credo che, a questo
punto, sia assolutamente necessaria. Dobbiamo recuperare la convinzione che
esiste una reale alternativa a questo modello di sviluppo. In questa
ottica, da studioso dei fenomeni urbanistici, io credo che un aspetto
fondamentale venga dal ripensare il ruolo della città moderna. Una radicale
ridefinizione della idea di città è infatti, secondo me, la chiave di volta
per cominciare a costruire una società realmente basata su principi di
giustizia sociale ed eguaglianza. Il segreto é li'. Siamo in una fase in
cui la maggior parte dell'umanità vive in ipertrofiche aree metropolitane,
megalopoli che si estendono a macchia d'olio e come un cancro
metastatizzano e divorano ogni risorsa disponibile. Dobbiamo invertire
questa tendenza e recuperare stili di vita che incoraggino un uso razionale
delle risorse. Dobbiamo privilegiare modi di vivere gli spazi urbani che
favoriscano prassi di scambio ed un maggior utilizzo, in comune, delle
risorse. Non ho in mente niente di frugale, al contrario. Siamo in un
periodo in cui le moderne tecnologie e l'incredibile ricchezza materiale
che ci circondano ci permettono di vivere con livelli di agiatezza
straordinari. Dobbiamo solo arrivare ad una razionalizzazione, affinché
questo incredibile livello di benessere sia possibile per tutti.