il punto sulle cellule staminali



     
 
il manifesto - 12 Marzo 2003 
 
 
Una potenza geniale 
Dalla ricerca all'applicazione terapeutica, dalle speranze di guarigione ai
timori etici. Del futuro della medicina rigenerativa parla l'istologo
Giulio Cossu, direttore dell'Istituto per le cellule staminali del San
Raffaele e tra i maggiori esperti italiani del campo
LUCA TANCREDI BARONE
Parlare di ricerca sulle cellule staminali, oggi, suscita sempre grandi
speranze. Ma spesso ci si dimentica che dietro alla possibilità di future
applicazioni terapeutiche ci vogliono lunghi anni di studi. E soprattutto
che ci sono ancora molte cose da imparare. Con sempre meno fondi pubblici e
con i privati che incalzano, puntando al brevetto a tutti i costi, i
ricercatori e i pazienti, soprattutto quelli dei paesi poveri, si trovano
schiacciati fra annunci roboanti che provocano false speranze e i timori
etici di chi invece vede le ricerche in questo settore come pericolosamente
vicine a poter mettere le mani sul «mistero della vita».

E forse vale la pena di menzionare che molte delle ricerche più
all'avanguardia in questo settore in Italia possono andare avanti soltanto
grazie a sponsor privati come Telethon, che ogni anno riescono a
raccogliere molti miliardi da privati cittadini.

Dalle cellule staminali si originano i diversi tipi di cellule adulte che
costituiscono i vari tessuti degli organismi adulti. Ovvio che, una volta
compresi i meccanismi di funzionamento di queste preziose cellule, le
applicazioni mediche potrebbero essere innumerevoli: per la cura di molte
malattie, sostituire le cellule appare come la soluzione più promettente.

Giulio Cossu, medico, direttore dell'Istituto per le cellule staminali del
San Raffaele di Milano e professore di istologia a La Sapienza di Roma, è
uno dei maggiori esperti italiani del campo. Lo abbiamo incontrato a
margine di uno dei molti seminari che tiene ai colleghi per illustrare i
risultati del suo gruppo di ricerca, stretto fra una lezione all'università
e due riunioni nel nuovo laboratorio del parco scientifico di Castel Romano.

«Ci sono tre campi dove le cellule staminali - spiega Cossu - hanno già
delle applicazioni cliniche, anche nel nostro paese. Non dimentichiamo che
l'Italia ha una grande tradizione, riconosciuta a livello internazionale,
nell'ematologia e sono molte decine di anni, ancora prima che fosse chiaro
il meccanismo di funzionamento delle staminali, che viene trapiantato il
midollo osseo. Questo ha salvato già moltissime vite umane. Poi ci sono i
trapianti di epidermide, indispensabili nel caso per esempio dei grandi
ustionati, che non possono sopravvivere senza pelle. In questo campo sono
in corso sperimentazioni cliniche anche per curare le malattie genetiche
della pelle: dopo essere state isolate e manipolate geneticamente, le
staminali vengono ritrapiantate sul paziente. Si tratta di un tipo di
terapia genica, che però è meno rischioso dei trial clinici che sono stati
bloccati nei mesi scorsi in seguito a tre casi di decessi sospetti. Infine,
sono in fase clinica anche i trapianti di epitelio, cioè i tessuti di
rivestimento (come ad esempio la cornea)».

Spesso però dai giornali sembra dietro l'angolo la cura per molti altri
tipi di malattie, soprattutto quelle neurologiche oppure quelle del cuore.

Gli studi che ho menzionato sono tutti in fase clinica o preclinica. In
tutti gli altri casi si tratta di «corse in avanti» cliniche. Qualche volta
si ha l'impressione che alcuni medici si facciano prendere dall'entusiasmo,
e con la filosofia dell'«armiamoci e partiamo», spesso non si sappia
esattamente cosa si sta facendo. Penso ad esempio ai casi dei trapianti di
staminali nel cuore: non sappiamo come, ma effettivamente certe volte
funzionano. Solo che dai nostri esperimenti sui topi non riusciamo ancora a
capirne bene il perché: le cellule generate dalle staminali che ritroviamo
sono troppo poche per spiegare la guarigione. E ci deve essere un
meccanismo che ancora non ci è chiaro, forse indiretto.

Allora è rischioso provare su pazienti umani tecniche ancora troppo poco
comprese...

Diciamo che può essere azzardato. Ma alcuni miei colleghi medici dicono
anche che se si ipotizza che la tecnica possa funzionare, e verificato che
non sia tossica, loro si sentono obbligati a provare a fare del proprio
meglio per salvare la vita ai propri pazienti. E io li capisco, è un
problema di deontologia professionale serio: ma c'è bisogno di fare una
riflessione. I cardiologi stanno riflettendo se non sia il caso di fermarsi
e cercare di comprendere meglio quello che sta succedendo.

I tempi di attesa per avere il via libera per un trial clinico sono spesso
molto lunghi.

È vero, si può arrivare anche a otto anni. Ma è giusto che la terapia
genica, una terapia nuova e potenzialmente rischiosa, sia sottoposta ai
parametri di sicurezza più stringenti che mettano in conto tutte le
possibilità, anche le più remote. Peccato però che talvolta la sensazione
degli addetti ai lavori sia che poi tutto questo non abbia sempre un
corrispondente altrettanto accurato nella pratica clinica.

Invece quali sono i campi in cui si è ancora alla fase di studio?

I campi dove si sta lavorando di più sono quelli delle cellule nervose per
la cura delle malattie neurodegenerative, quello delle cellule cardiache, e
anche quello della distrofia muscolare, su cui anche il nostro gruppo sta
compiendo studi, per ora sui topi. I risultati sembrano incoraggianti. Ci
basiamo sui mesoangioblasti, delle staminali che abbiamo scoperto noi
l'anno scorso all'interno della parete dell'aorta. Queste producono muscolo
scheletrico, liscio cardiaco e endotelio (il tessuto che ricopre l'interno
dei vasi). La speranza è di dimostrare di poterle controllare e di renderle
utilizzabili per la cura della distrofia.

Quali sono i «punti critici» perché queste ricerche possano raggiungere la
fase clinica?

Innanzitutto, identificare le cellule staminali e isolarle. Poi bisogna
imparare a crescerle, per avere il numero sufficiente del tipo cellulare
che ci interessa. Il passo successivo, nel caso di malattie genetiche, è
quello di imparare a correggerne il difetto geneticamente: quindi per
esempio trovare i «vettori» più adatti a trasportare il Dna all'interno
della cellula. Un altro punto critico è quello che gli americani chiamano
targeting: riuscire a indirizzare le cellule staminali all'organo o alla
zona che ci interessa, senza che vadano disperse o, viceversa, che alcune
parti malate non vengano raggiunte. E poi vogliamo che almeno il 90 per
cento di queste staminali una volta raggiunto il sito si differenzino nelle
cellule che vogliamo noi, e che imparino a comportarsi come tutte le altre
in maniera permanente. In un cuore, ad esempio, vogliamo che creino le
connessioni con le altre cellule, che si muovano allo stesso modo. Insomma
vogliamo essere sicuri che quel paziente possa guarire definitivamente.

Come vede, c'è ancora moltissimo da studiare: ogni sei mesi viene scoperto
un nuovo tipo di cellula staminale, magari in animali diversi. E bisogna
lavorare molto per capire come sono legate fra di loro, quale sia il loro
albero genealogico.