le news a buon mercato



     
    
 
il manifesto - 07 Gennaio 2003 
 
Le news a buon mercato 
La moltiplicazione delle fonti informative segue la logica della produzione
in tempo reale dove ogni lettore o telespettarore è ridotto al rango di
cliente 
La produzione e il consumo informativo nell'era delle tecnologie
informatiche analizzate nel volume dello studioso di mass-media Carlo
Sorrentino
SEBASTIANO TRIULZI
Quando la posta non arriva e i giornali non escono - scriveva Eugenio
Montale in una poesia del Diario del `71 e del `72 - viene a determinarsi,
anche solo momentaneamente, un sentimento di ansia, come la percezione di
un vuoto; e ciò accade perché si ha l'impressione che l'ingranaggio del
tempo si sia per così dire inceppato. Quasi un secolo e mezzo prima che
comparisse il Diario montaliano, Hegel aveva paragonato il laico esercizio
della lettura del giornale a una «preghiera del mattino», proprio perché
tale esercizio poteva essere considerato un vero e proprio rito quotidiano,
seppure inteso come una riflessione sui costumi e sulle abitudini sociali.
Queste due asserzioni ci ricordano che i media, in quanto interpreti e
traduttori del reale, incidono profondamente sulle nostre emozioni,
assolvendo al rassicurante compito di scandire, simili a metronomi, il
ritmo regolare dell'esistenza. In tale contesto, la consuetudine mediale, e
la sua costante riproduzione, disvolgono proprio l'importante funzione di
attribuire significati e di proporre valori, di fornire in sostanza quella
conoscenza necessaria per muoversi all'interno della società. Entrambe
offrono al singolo costantemente alla ricerca di preziose conferme sulla
propria identità e altrettanto preziose risposte sul proprio destino, un
luogo ove entrare in relazione con gli altri, ove «costruire appartenenze».
Questa funzione sociale dei mezzi di comunicazione, e più propriamente
l'interdipendenza che lega un medium come la stampa al proprio pubblico di
lettori, è alla base di un recente lavoro di Carlo Sorrentino (Il
giornalismo: che cos'è e come funziona, Carocci editore, ? 16,50, pp. 229),
docente di Teoria e tecnica delle comunicazioni di massa all'Università di
Firenze e attento osservatore delle strategie mediali nelle campagne
elettorali. Un lavoro questo di Sorrentino che, sia detto per inciso, ben
rappresenta lo stato della ricerca accademica in Italia e la sua liaison
dangareux con l'editoria, là dove la produzione critica pare eccessivamente
intenta a coltivare il dono della sintesi e assai poco interessata, invero,
alla costruzione e apertura di nuovi mondi, quasi fosse la stretta logica
dell'esame universitario il suo unico ambito di riferimento.

Recuperando quelle che sono le linee esegetiche degli studi sul newsmaking,
Sorrentino osserva come ogni atto della comunicazione possa essere
considerato alla stregua di una incessante negoziazione fra emittente e
ricevente; nella quale ciascuno dei protagonisti interviene e partecipa
portandosi appresso un bagaglio contenente le proprie esperienze personali,
i propri modi di pensare, i propri sentimenti e le proprie idee. In questa
dimensione, definita da un reciproco coesistere e influenzarsi, i media non
possono essere più intesi come il risultato di un rispecchiamento della
realtà: al contrario, «riconoscere la centralità della relazione come
chiave di volta dell'agire umano» significa appunto statuire il carattere
riscotruttivo proprio dei media, almeno nella misura in cui risultano
essere prodotti culturali che traducono la realtà giovandosi di una
interazione costante fra i vari attori sociali. I quali a loro volta
ridefiniscono e rielaborano in continuazione ciò che conoscono e ciò che
apprendono, proprio perché ogni nuovo sapere, per quanto piccolo esso sia,
si va ad aggiungere a un universo molteplice di conoscenze, espressioni e
«rappresentazioni sociali preesistenti».

Questo processo circolare - continua Sorrentino - è la spia di un sempre
crescente bisogno di comunicazione derivato dalla necessità, propria di
ogni individuo, di vedere soddisfatta la personale richiesta di
informazioni e di costruzioni di senso: elementi questi di cui, tra
l'altro, ciascuno necessita per addentrarsi nei molteplici meandri della
quotidianità e per «assumere peculiari prospettive culturali». La
conseguenza è che i media, accentuando così la propria naturale
disposizione alla narratività, sempre più accolgono un maggior numero di
eventi, di storie, di situazioni, di soggetti: e ciò anche su esplicita
pressione dell'opinione pubblica che vuole vedere rappresentata l'intera
gamma sociale, dal momento che la moltiplicazione di ruoli e mondi in atto
nella nostra tardomodernità «rende necessario ampliare il repertorio delle
informazioni utili per muoversi all'interno di tali mondi e per rendere
adeguata l'interpretazione di nuovi ruoli».

I media così assurgono nella globalizzazione a vere e proprie piazze
virtuali, simili a quei villaggi globali rintracciati da Marshall McLuhan,
dove appunto gli individui si incontrano, comunicano fra loro e fanno
esperienza dei propri simili e della società civile. Il rovescio della
medaglia è che, nonostante il numero sempre più elevato di soggetti e
situazioni sociali presenti sui media, e una sempre maggiore consapevolezza
delle ragioni e della presenza dell'altro, l'uomo in fondo sembra avere
«meno immediata conoscenza di chi sia e di che cosa voglia». In tale
contesto assolutamente straniante, ben si comprende come il giornalismo
abbia assunto negli ultimi anni un ruolo centrale all'interno della
cosiddetta società dell'informazione. In un certo qual modo si ha la
percezione che esso rappresenti lo strumento più adatto per dare voce a un
comune sentire, in grado allo stesso tempo di far luce, magari solo per
barlumi, su ciò che è altro da noi, su ciò che è lontano da noi. Proprio la
moltiplicazione dei punti di vista da cui osservare e ri-pensare il mondo,
determinata parimenti dall'aumento del numero di persone che chiedono di
accedere ai media e dalla loro maggiore competenza nell'uso dei media
stessi, come anche l'accresciuta compartecipazione alla costruzione
dell'opinione pubblica, sono tutti sintomi, secondo Sorrentino, di un
arricchimento dell'offerta informativa.

Dal momento che i destinatari stessi dell'informazione, che si chiamino
lettori, navigatori telespettatori o quant'altro, svolgono un ruolo
assolutamente rilevante, diviene necessario, se si vuole «entrare in
sintonia con i mondi da loro abitati», comprenderne sensibilità e gusti,
imparare a leggerne e interpretarne desideri e aspirazioni. Uno degli
effetti di questa negoziazione fra «sistema giornalistico» e sistema
sociale, è che i livelli di attenzione attribuiti a determinati temi dai
media sono sempre più strettamente collegati alle gerarchie di importanza
assegnate dal pubblico: attraverso questa funzione di agenda-setting, la
stampa definisce gli ambiti di riferimento su cui riflettere, seleziona
temi ed eventi sui quali poi si concentrerà l'opinione pubblica. La tesi di
Sorrentino dunque è che stia crescendo, con effetti sui contenuti e sulle
forme narrative, l'ascolto nei confronti delle esigenze del pubblico, non a
caso sempre più trattato alla stregua di un cliente. «Negli ultimi anni -
scrive l'autore - è prevalsa la dimensione del consumo informativo, ed è
aumentata l'attenzione al ricevente, considerato come consumatore di
informazioni da coinvolgere e interessare, anche per poter acquisire
risorse pubblicitarie».

Tuttavia, la rilevanza assunta dalle dinamiche di mercato e la conseguente
ricerca dell'autonomia economica per un giornalismo, quale quello italiano,
storicamente legato alla «benevolenza», con relative intrusioni, della
classe politica, non hanno certo determinato l'avvento di una maggiore
indipendenza. A tutt'oggi, quasi la metà del mercato editoriale è
controllato da 4 grandi imprese, e il futuro rischia di essere, se
possibile, ancor più fosco, dal momento che la scellerata proposta di legge
del ministro delle telecomunicazioni Maurizio Gasparri prevede la
soppressione della norma che vieta a uno stesso gruppo editoriale di
possedere sia reti televisive che testate giornalistiche; una proposta che
di fatto, qualora venisse approvata, favorirà la concentrazione del potere
mediatico in pochissime mani.

Così, appare difficile credere che il mercato sia di per sé la panacea
d'ogni male, o che la sola esistenza dei media comporti un automatico
«scardinamento dei monopoli informativi».

Ci si chiede allora se lo scopo del giornalismo sia effettivamente quello
di condividere con i propri destinatari i valori e gli interessi dei
destinatari stessi, e se dunque il giornalista debba tener conto, all'atto
dello scrivere, della precisa collocazione del proprio giornale nello
scacchiere del mercato. Ci si chiede inoltre se il destino
dell'informazione sia quello di divenire un prodotto in sostanza ritagliato
e confezionato in base alle esigenze dei singoli consumatori, votato
anch'esso all'inseguimento del motto di balzachiana memoria «dimmi che cosa
compri e ti dirò come la pensi». Questa «strategia della complicità» - per
altro già in atto trasversalmente su alcuni quotidiani nazionali - potrà
forse favorire, come scrive Sorrentino, «una più forte identificazione del
pubblico con la testata», ma somiglia molto a una resa dell'intelligenza
dinanzi a vincoli di carattere economico, politico e anche culturale. E'
necessario al contrario che riemerga, come da un porto sepolto, una
prospettiva di tipo umanistica, quella ricerca della verità etica delle
cose in grado di trovare risposte alle battaglie che riguardano i media, e
più in particolare il potere di gestire i significati e influenzare con
essi, il potere di vietare l'acceso e la partecipazione degli individui, il
potere di coinvolgere i nostri sentimenti. «Oggi nel mondo - ha detto in
una recente intervista concessa al settimanale argentino Ventitrés, lo
scrittore José Saramago - c'è un problema di controllo dell'informazione:
le parole più costruttive, le più limpide, possono anche non arrivare da
nessuna parte».