treni i cento pezzi inglesi



 
il manifesto - 12 Maggio 2002 
 
Treni, i cento pezzi inglesi
Viaggio nel welfare inglese al tempo di Blair, prima puntata. Intervista a
Andrew Murray, autore di un'analisi documentata e spietata della
privatizzazione di British rail, le Fs inglesi
MARCO D'ERAMO
LONDRA
Sono sceso dall'Eurostar a Waterloo Station. Mentre nella pianura francese
il treno filava come una pallottola e il tunnel sotto la Manica è stato
percorso in soli 20 minuti, in Inghilterra il convoglio ha rallentato così
brutalmente da ricordare una battuta di François Mitterrand: «Le ferrovie
inglesi ti lasciano tutto il tempo che vuoi per ammirare la campagna».
L'anno scorso ho perso l'aereo a Gatwick perché il treno per l'aeroporto si
era fermato all'improvviso nel bel mezzo di questa campagna e vi aveva
riposato per un'oretta. Ormai nel Regno Unito arrivi in stazione e scopri
che il tuo treno è stato cancellato. Perciò il mio viaggio nel welfare
britannico sotto il governo del New Labour lo inizio nel nord di Londra da
una palazzina fine `800 dagli interni foderati in legno scuro, che ospita,
tra l'altro, l'Aslef (Associated society of locomotive engineers and
firemen, «associazione dei macchinisti e fuochisti» che, in
quest'espressione, ricorda la sua nascita in era vittoriana, al tempo delle
locomotive a vapore). L'Aslef ha 16.000 iscritti, la quasi totalità dei
conducenti di treno inglesi.

Qui incontro Andrew Murray, sulla quarantina - un (lontano) passato come
redattore del giornale comunista Morning star - che dell'Aslef è portavoce
e che ha scritto il libro più completo sul disastro delle ferrovie
britanniche: Off the Rail: Britain's Great Rail Crisis. Cause, Consequenses
and Cure (Verso, 2001: «Deragliamento: la grande crisi delle ferrovie
britanniche. Cause, conseguenze e cure»). In effetti la privatizzazione di
British rail (Br) si è rivelata un tale disastro (e non solo in senso
metaforico: per l'incuria si sono infatti moltiplicati letali disastri
ferroviari) che perfino l'alfiere del liberismo, il settimanale The
Economist ha scritto a suo tempo che le ferrovie inglesi sono l'esempio da
manuale di come una privatizzazione non deve essere fatta.

Il governo conservatore giustificò infatti la privatizzazione di Br con due
ragioni, una di carattere economico: i sussidi alle ferrovie creavano un
buco senza fondo alle finanze pubbliche; ma è curioso che nessuno si
lamenti perché lo stato finanzia a fondo perduto le strade che noi
percorriamo con le nostre automobili: anche il mantenimento delle vie
asfaltate crea buchi come quello delle vie ferrate. E poi c'è la ragione
addotta a ogni privatizzazione, la concorrenza che - secondo i teorici del
libero mercato - ridurrebbe i costi e aumenterebbe l'efficienza: effetti
tutti da verificare, alla luce di Lealtà, defezione e protesta, quel grande
libro in cui Albert Hirschman mostra come la concorrenza privata al
servizio pubblico ne abbia spesso diminuito, e non accresciuto,
l'efficienza, semplicemente perché, via via che il servizio pubblico si
degrada, nessuno più protesta, ma passa (defeziona) direttamente al
concorrente privato.

Ma il problema peculiare della ferrovia è che essa è intrinsecamente
monopolista: non ha senso costruire binari paralleli per far viaggiare
ferrovie concorrenti e che - sullo stesso binario - la concorrenza è
puramente nominale perché le due compagnie si devono accordare tra loro per
orari e quindi tariffe. Privatizzare significa solo sostituire un monopolio
privato a un monopolio pubblico. Per evitare questa ovvia critica, i
conservatori di John Major sbriciolarono Br a tal punto che Murray intitola
il suo primo capitolo «La ferrovia in cento pezzi».



Lei parla sempre di «cento pezzi» per descrivere lo smembramento di Br, ma
quanti sono esattamente questi cento pezzi?

In realtà sono di più. La zona grigia è costituita dai subappalti. Il
governo Major smembrò Br in cinque grandi categorie: 1) materiale
viaggiante, la cui proprietà fu divisa fra 3 compagnie, 2) rotaie e
stazioni che però non poterono essere suddivise e furono mantenute sotto il
controllo di un'unica compagnia, Railtrack; 3) il settore merci merci
spartito in 7 società; 4) l'infrastruttura e la manutenzione affidate a 13
compagnie: 5) le compagnie che operano i treni, 25 all'inizio poi
consolidatesi. Dalla privatizzazione a oggi c'è stato un processo di
concentrazione da un lato (sulle 25 compagnie che gestiscono treni, le
quattro più grandi controllano il 70% del traffico) e di ulteriore
suddivisione dall'altro. La frammentazione è così complicata che fa la
gioia degli avvocati perché moltiplica all'infinito le spese legali nella
stipula dei contratti e nelle cause civili per la non osservanza, tutte
spese che si ripercuotono sui costi e quindi sui prezzi del biglietto o
sulla qualità del servizio, o su ambedue. Inoltre, in questo smembramento,
le compagnie «operanti i treni», come la Virgin, diventano società
puramente virtuali, mere marche (brands), visto che non possiedono niente,
né i treni né i binari né le stazioni. Ma il più grave è che, per aumentare
i profitti e i dividendi ai propri azionisti, la società che possedeva
binari e stazioni, Railtrack, tendeva a risparmiare sulla manutenzione (da
qui i disastri ferroviari): da notare che il servizio per gli utenti si
degradava, i dividendi per gli azionisti aumentavano. Anche le imprese di
manutenzione hanno sempre lesinato, e hanno evitato le riparazioni che
costavano più care anche se più urgenti, sempre in nome del profitto. Per
tornare alla sua domanda, è difficile dire il numero esatto delle società
in cui è stata frazionata Br perché nel conto rientrano ditte piccolissime
che si occupano dell'introduzione di tecnologia informatica o che
assicurano la componentistica per le ruote. Ma in tutto sono più di cento.

Secondo l'Economist, la privatizzazione è fallita anche perché le
concessioni sono state attribuite per un periodo troppo breve per
ammortizzare gli importanti investimenti necessari per migliorare le ferrovie.

Non è vero. Alcune concessioni erano a corto termine, ma altre erano a
lungo termine, alcune erano per 5 anni, altre per 20 anni: e con queste
ultime non è andata affatto meglio. Il problema vero è che il capitalismo
inglese, la City di Londra come Wall Street, è interessato solo agli utili
e ai dividendi a brevissimo termine, a tre mesi, indipendentemente dalla
durata della concessione. È la ragione per cui è impossibile rastrellare il
capitale necessario per investimenti a lungo termine. Per esempio, mettere
insieme i fondi per costruire la tratta ad alta velocità nella parte
inglese dell'Eurotunnel si è rivelato molto più difficile che nel resto
dell'Europa.

Il suo libro è uscito a ottobre. Cosa è cambiato nelle ferrovie inglesi nel
frattempo?

È cambiato che il governo ha dichiarato in bancarotta Railtrack, la società
che possiede le stazioni e i binari e le infrastrutture, e ha deciso di
farla rilevare da una società non-profit, Network Rail, che agirà sotto la
supervisione dell'Authority per i trasporti e in cui saranno rappresentati
i passeggeri. Il passaggio di proprietà è finanziato dal governo per un
costo di più di 7 miliardi di sterline (11,4 miliardi di euro), di cui 6,5
miliardi andranno ai creditori e 650 milioni per rilevare le azioni.

Perché non semplicemente rinazionalizzare?

Perché il governo non voleva rifare un'azienda statale, ma anche perché ci
sono complicazioni legali, ci sono gli interessi dei piccoli azionisti da
garantire (i fondi pensione hanno investito in Railtrack), ci sono pretese
dagli amministratori che avevano operato un take-over al momento della
privatizzazione e che ora stanno cercando di offrire la compagnia a privati
(si era fatta avanti una banca tedesca, WestLB che poi si è ritirata, ndr).
In realtà il governo va verso una compagnia pubblica, ma non può dirlo,
neanche a se stesso.

La sua opinione sul governo Blair è ora molto diversa da quella, del tutto
negativa espressa nel libro.

Nei primi quattro anni, dal 1997, il governo non ha fatto nulla per le
ferrovie, ma poi i disastri si sono accumulati, Railtrack era coperta dai
debiti e qualcosa si doveva fare. Poi è stato nominato un ministro dei
trasporti più attivo...

Stephen Byers, che però è stato messo sulla graticola dai giornali...

Non per quello che ha fatto nelle ferrovie, ma per affaires che riguardano
i suoi funzionari. Non sappiamo se lui come ministro sopravviverà, ci
interessa che sopravviva la sua politica.

Ma Byers vuole privatizzare a tutti i costi la metropolitana di Londra, il
Tube, contro il parere del sindaco Ken Livingston.

La politica governativa sul Tube è stata decisa molto prima che Byers fosse
ministro e dipende interamente dal cancelliere dello scacchiere Gordon
Brown che è molto più potente di Byers, è potente quanto Tony Blair, e
forse anche di più per gli affari interni. Non è facile capire perché mai
Gordon Brown ci tenga tanto a privatizzare il Tube quando tutti gli esperti
internazionali di trasporti urbani dicono che è insensato, quando gli
utenti e i dipendenti sono contrari. Ma forse dipende dal fatto che Brown è
scozzese, non ha interessi elettorali a Londra e quindi non è molto
sensibile ad accontentare la base locale . E al primo ministro non
interessa molto.

Insomma il suo giudizio sul governo Blair è ora molto più positivo...

Non molto più positivo, ma sì, per un aspetto più positivo. Quando scrivevo
il libro, il governo non faceva niente per riportare le ferrovie nella
sfera pubblica, si limitava a elargire enormi sussidi a compagnie private
mal gestite e inefficienti. Adesso ha fatto un passo per riportare le
ferrovie sotto il controllo pubblico, anche se non basta riprendere il
controllo di Railtrack, ci vogliono altri passi. È inutile rinazionalizzare
tutto il settore, tipo la piccola manutenzione o il catering, ma solo i
grandi blocchi. Per quel che riguarda le compagnie virtuali che operano i
treni, quando scadrà il franchising sarà facile farle tornare nella sfera
pubblica. Il vero problema è la separazione tra proprietà dei treni e
quella di binari e stazioni: va reintegrata la gestione di questi due
settori, altrimenti il disservizio continuerà come prima. È solo un primo
passo perché sarebbe necessario reintegrare sotto la sfera pubblica gran
parte di quel che è stato sbriciolato e perché per migliorare realmente le
ferrovie britanniche ci vorrebbe un investimento di almeno 60 miliardi di
sterline (100 miliardi di euro). Comunque è la prima volta che il New
Labour è costretto a invertire rotta: è la prima privatizzazione a essere
rovesciata, anche se solo in parte finora. Ma di fronte a un simile
disastro persino Tony Blair che ama tanto il big business non ha potuto far
altro. Forse è il segno che il vento sta girando contro l'euforia per le
soluzioni di mercato a tutti i costi. Gli inglesi sono pragmatici, non
ideologici, e vedono che il privato non ha funzionato. Perché il problema
si pone non solo per le ferrovie, ma anche per altre privatizzazioni che
all'inizio sembravano un successo ma che ora sono in crisi, come il gas,
come British Telecom, British Airways, Birtish Steel.

Esco sotto una pioggerellina insistente: non tutte le altre persone con cui
discuterò del welfare britannico condivideranno il seppur moderato
ottimismo di Andrew Murray.