il buio oltre il logo



dal manifesto

    
    
 
    
 

08 Gennaio 2002 
  
 
   
Il buio oltre il logo 
Lo sviluppo del marchio è una tecnica anti-ciclica volta a contrastare la
tendenza alla caduta del saggio di profitto. La critica al logo non può
dunque limitarsi ad una dimensione morale. Necessaria è la critica
all'economia politica 
DOMENICO MORO 

Nonostante l'accelerazione dei fenomeni di internazionalizzazione
dell'economia e la centralità del ruolo che i brand vi ricoprono, secondo
un recente studio di AC Nielsen, sono soltanto 43 le marche del largo
consumo che possono essere definite effettivamente globali per la loro
presenza nelle principali aree economiche mondiali e perché realizzano
vendite annuali per almeno un miliardo di dollari.
Una analisi dell'assetto proprietario di questi brand, che complessivamente
fatturano 125 miliardi di dollari, rivela che dietro di essi ci sono appena
23 grandi multinazionali, che hanno sede soprattutto negli Usa e, in misura
minore, in Europa. Tra gli otto europei c'è Kinder, appartenente alla
italiana Ferrero. I mercati principali sono Nord America ed Europa, che,
compresa nell'Emea insieme al Medio Oriente ed all'Africa, rappresenta il
34% del Pil mondiale e costituisce il mercato principale per 16 brand. Gli
europei risultano meno internazionalizzati e con una maggiore presenza
nella loro area, ad esempio Guinness e Kinder concentrano in Europa il 90%
del loro fatturato e altri come Heineken il 70%. Il mercato nordamericano
rimane, invece, quello più importante per ben 24 brand.
La classifica per fatturato denota un notevole squilibrio tra le aziende
prese in considerazione. Coca-Cola e Marlboro, che superano i 15 miliardi
di dollari e Pepsi, posizionata con le sue tre marche tra i 5 ed i 15
miliardi, navigano ben più avanti di tutti gli altri, che oscillano tra 1 e
3 miliardi di dollari.
Il tasso di crescita medio dei 43 brand non è particolarmente alto, meno
del 10% annuo, specialmente se paragonato a quello del commercio
internazionale dei prodotti manifatturieri (14,5% nel 2000). Del resto, lo
sviluppo dei brand appare essere meno sostenuto e lineare di quanto spesso
ritenuto. Secondo The Economist, 41 dei 74 brand, che sono risultati nella
lista dei primi 100 negli ultimi due anni, hanno registrato un decremento e
nel loro insieme un calo del 5%. Anche il legame con le marche delle varie
classi di consumatori sembra essere sempre meno forte, non solo tra i
giovani fra i 20 e i 29 anni la cui fedeltà dichiarata alle marche più
conosciute ha subito una flessione dal 66% del 1970 al 59% del 2000, ma
anche tra i 60-69enni calati dall'86% al 59%.
Lo sviluppo dei brand non è comunque storicamente legato in modo diretto
alla globalizzazione, bensì all'affermazione del marketing nelle politiche
e nell'organizzazione delle aziende moderne. La nascita di una disciplina
specificamente orientata al mercato rispecchia i mutamenti avvenuti nel
modo di produzione capitalistico nella sua fase più matura iniziata negli
Usa durante gli anni '50-'60 e giunta ad una accelerazione negli anni '90.
L'enorme sviluppo delle forze produttive, legato all'applicazione delle
innovazioni tecnologiche e di organizzazione del lavoro alla produzione,
determina un aumento della produttività e conseguentemente una diminuzione
del valore della singola merce che, in tendenza, si traduce in una
diminuzione dei prezzi e, in ultima istanza, del saggio di profitto.
L'aumento della concorrenza e della concentrazione e centralizzazione dei
capitali, legate alla realizzazione di economie di scala, ha determinato
così la nascita di mercati oligopolistici, composti da poche grandi e
riconosciute aziende, che rappresentano il terreno classico di sviluppo del
marketing e dei brand. La necessità di mantenere i prezzi di vendita della
merce al di sopra di quelli di produzione e di contendere fette di mercato
ai competitor rimasti, in modo da saturare la propria capacità produttiva
ammortizzando gli investimenti effettuati, si concretizza nella
affermazione di una politica di marchio, tesa sia a giustificare prezzi
elevati sia a conquistare nuovi mercati sul piano merceologico,
generazionale, del canale distributivo, di segmentazione e, last but not
least, geografico.
Il marketing viene così a costituire una delle varie tecniche
anti-cicliche, tese a contrastare la tendenza alla caduta del saggio di
profitto, generata dal ricorrente presentarsi della sovrapproduzione di
capitale. Non è perciò da meravigliarsi se in occasione del manifestarsi
delle fasi acute di questo fenomeno si determina anche una crisi dei brand,
che però non ne cancella la funzione specifica, finendo al contrario per
esaltarla. D'altro canto non sono poche le aziende tra quelle più attive
nella internazionalizzazione, specialmente nel settore delle materie prime,
che non fanno del branding una delle proprie leve di espansione.
Sviluppo dei brand e del marketing, centralizzazione dei capitali,
spostamento della produzione all'estero, creazione del mercato mondiale,
crisi ciclica sono fenomeni strettamente collegati ed interdipendenti e
soprattutto sono caratteristici dell'imperialismo moderno, ovvero di una
nuova fase di maturità del capitale contemporaneo.
La marca non può che essere vista come rappresentazione della merce, a sua
volta espressione dei rapporti sociali storicamente determinati. La critica
alla marca non può, quindi, limitarsi ad una dimensione morale o etica,
fondata sull'accentuazione del contrasto stridente tra l'immagine patinata
del contemporaneo mondo delle merci e la cruda realtà di sfruttamento e
oppressione sottostante. Va,invece, sviluppata una critica politica,
intendendo questa come critica dell'economia politica, cioè dei rapporti di
produzione esistenti.