gli economisti e la felicita'



da repubblica

DOMENICA, 06 GENNAIO 2002 Stampa questo articolo 
  
  
Gli economisti e la felicità  
  
  
  
  
FEDERICO RAMPINI  

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La ricchezza produce felicità? La domanda può sembrare retorica. Ma non è
banale se diventa il tema del congresso nazionale degli economisti
americani, oggetto di studi statistici e ricerche scientifiche raffinate, e
conquista la prima pagina del Wall Street Journal. Per di più in un'America
dove l'11 settembre ha avuto un effetto sui valori collettivi: l'aumento
della pratica religiosa, la riscoperta della solidarietà, la crisi del
materialismo sfrenato degli anni Novanta. 
L'economia americana è ancora in recessione, la disoccupazione sta salendo,
i profitti delle imprese sono depresse, ma la Borsa già è certa che una
ripresa ci sarà entro la primavera (non si sa quanto forte): questi sono i
temi che dominano l'attualità, e sarebbe stato naturale che di queste cose
si occupasse l'American Economic Association, riunita ad Atlanta da venerdì.
Perché mai il congresso degli economisti ha scelto di affrontare il tema
della felicità, anziché discutere la politica monetaria di Alan Greenspan?
E' un segno dei tempi? L'offensiva terroristica sferrata nel cuore della
finanza di Wall Street, preceduta dal movimento di Seattle che contestava
l'americanizzazione consumistica del pianeta, seguita dalla crisi Argentina
che smentisce la validità di ricette ultraliberiste: tutto questo fa massa
critica, induce gli americani a rimettere in discussione il loro modello di
sviluppo e di società. Si riscopre così un filone antico della ricerca
economica, quello che contesta l'efficacia del Prodotto interno lordo come
misuratore del benessere sociale (perché, per esempio, non calcola i costi
dell'inquinamento o della criminalità).
Così i più autorevoli economisti americani riuniti ad Atlanta hanno
discusso per due giorni delle ricerche che un tempo avrebbero interessato
psicanalisti e sociologi. La conclusione a cui sono giunti è decisamente
«di sinistra», per un Paese che è il regno della libertà di mercato,
governato da un'Amministrazione repubblicana che riduce la pressione
fiscale sui ricchi. La felicità, stabilisce l'American Economic
Association, non è un fatto puramente individuale. Cresce — di solito —
insieme con la ricchezza. Però il grado di soddisfazione offerto dal denaro
si attenua con la crescita delle nostre aspettative; o per effetto della
«invidia» altrui provocata da un eccessivo livello di diseguaglianze sociali.
A queste conclusioni i migliori economisti Usa non sono giunti sulla base
di ragionamenti astratti o di intuizioni psicologiche. Hanno usato fior di
ricerche demoscopiche e indagini sul campo, compiute negli Stati Uniti e in
Europa, le due aree del mondo a più alto reddito pro capite. Del resto il
ramo dell'economia che si occupa di misurazione della felicità ha ormai una
robusta storia alle spalle: fu fondato da un economista della California,
Richard Easterlin, ben 25 anni fa. Studiando l'opulenta società
californiana da un boom economico all'altro, Easterlin aveva notato per
primo che i conti non tornavano: le inchieste sugli individui indicavano
che la loro vita non li soddisfaceva più di prima.
Un altro economista, Andrew Oswald dell'università di Warwick, ha fatto una
scoperta apparentemente contrastante dedicandosi allo studio delle
recessioni. Il nesso tra denaro e felicità, qui risulta eccome: nei periodi
di crisi economica la depressione psicologica dilaga. Ma il dato più
interessante è un altro. Nelle recessioni i problemi psichici non
colpiscono solo chi perde il posto di lavoro o subisce un impoverimento nel
tenore di vita. L'infelicità contagia categorie di persone che non
rischiano niente. E' la riprova che l'uomo è un animale sociale, la sua
felicità è minacciata quando egli si sente accerchiato dall'invidia o
dall'ostilità degli altri. Lo stesso Oswald ha dimostrato che la crescita
della felicità legata all'arricchimento individuale è debole, se avviene
mentre intorno tutti gli altri si arricchiscono ancora di più: scatta il
meccanismo dell'emulazione o invidia sociale. La situazione economica
ideale per avere il massimo di felicità individuale, si potrebbe definire
così: una crescita del mio reddito superiore alla media, ma in un contesto
sociale senza troppe diseguaglianze, in cui vi sia una buona distribuzione
collettiva del benessere. 
E' una chiara indicazione in favore di un sistema fiscale progressivo, che
redistribuisca dai ricchi ai poveri, unito ad una società mobile e
flessibile che non scoraggi il successo individuale.
Daniel Kahneman, docente di Princeton e candidato al Nobel per i suoi
lavori che uniscono l'economia alla psicologia, ha una visione leggermente
più pessimista. Nella ricerca della felicità, sostiene, gli individui
finiscono spesso in una specie di trappola delle aspettative crescenti. Via
via che guadagnano di più, e possono offrirsi piaceri e lussi prima
irraggiungibili, essi tendono a spostare il livello dei desideri sempre più
in alto. «Quel che chiediamo dalla vita — dice Kahneman — è sempre un po'
di più di quello che il nostro reddito attuale ci consente di comprare».
Di certo il materialismo americano degli anni Novanta è contestato, e non
solo tra gli economisti. Il 2001 si è chiuso designando come eroi nazionali
i vigili del fuoco di New York, non Bill Gates e George Soros. Patria
famiglia e religione hanno dominato le feste di fine anno, molto più dello
shopping. C'è chi vede in questo un ritorno alle origini: in fondo
l'America è nata dal puritanesimo, i suoi presidenti giurano su Dio, ed è
l'unico paese al mondo la cui Costituzione sancisce come un diritto
fondamentale del cittadino The Pursuit of Happiness, la ricerca della
felicità.