il capitalismo italiano gioca solo in difesa



da repubblica di domenica 16 dicembre 2001

DOMENICA, 16 DICEMBRE 2001 Stampa questo articolo 
  

Il capitalismo italiano gioca solo in difesa  
  
  
  
I "capitani coraggiosi" degli anni Ottanta non ci sono più e i grandi
gruppi e le banche non tentano nemmeno di espandersi all'estero  
  
 

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Il capitalismo italiano è morto? O è sul punto di morire? Insomma, più di
là che di qua, come dicevano i nostri nonni? La domanda non è retorica e
non è inutile. Anzi, è di attualità, quando si vede che persino Umberto
Agnelli, parlando della «sua» Fiat (fondata da suo nonno e sempre rimasta
alla famiglia) dice: c'è un piano, aspettiamo i risultati. E allora, se
facciamo un giro (anche veloce) della cronache più recenti, scopriamo
diverse cose, e nessuna buona notizia.
Cominciamo con il primo punto. Fino a qual che anno fa c'erano quattro
gruppi nella pattuglia di testa del capitalismo italiano: Fiat, Montedison,
Pirelli, Telecom. Nel giro di pochi mesi questi quattro gruppi sono
diventati due: FiatMontedison e PirelliTelecom. Due operazioni sulle quali
ho poco da dire, anche perché ormai sono state fatte. Mi limito a osservare
che se prima avevamo quattro players, adesso ne abbiamo solo due. A me
sarebbe piaciuto passare da quattro a dodici players, non a due. Insomma,
il capitalismo italiano, nelle zone alte, si va impoverendo di
protagonisti. E questo non può essere un bene.
Ma, mi si dirà: sei troppo critico: con queste operazioni Fiat e Pirelli
sono cresciute. E questo è positivo. Certo, sarebbe stato molto meglio se
però Fiat e Pirelli fossero cresciute comprando qualcosa all'estero, per
una volta. Fino a quando le nostre aziende si comprano fra di loro, tutto
quello che succede è che diminuisce il numero di giocatori in campo e
quindi il numero di opportunità che abbiamo come paese.
Ma c'è di più. La Telecom di TronchettiBenetton sta vendendo (giustamente)
tutto quello che può vendere delle partecipazioni estere perché l'obiettivo
primario è tenere insieme i conti del gruppo. Ottimo, ma intanto si vende.
La Fiat, come si sa, ha da tempo venduto il 20 per cento di Fiat Auto a
General Motors. Forse c'entra poco, ma già che sono in argomento, aggiungo
che anche Prada, che sembrava l'unico soggetto italiano avviato a costruire
un polo del lusso, dopo aver comprato, adesso sta vendendo. E anche qui
l'obiettivo primario è quello di tenere insieme i conti, insomma non andare
sottoterra.
Ma vado avanti. Tutti e tre i gruppi che ho citato sono in una fase un po'
pericolosa. Nelle sale operative dei brokers italiani e stranieri si
scommette sul fatto che la Fiat sarà costretta a vendere, nel 2004, quel
che le resta dell'auto. Si scommette sul fatto che Tronchetti forse riesce
o forse non riesce a tenere insieme i conti del suo gruppo (appesantito da
parecchi debiti, come quello Fiat d'altronde, e anche come Prada). E si
scommette, ovviamente, anche su Prada: non farà mai il polo del lusso
italiano, ma forse si salverà o forse no.
Bene. Conosco un po' gli Agnelli e gli uomini della Fiat (da Paolo Fresco a
Paolo Cantarella), e dico che si salveranno. Conosco Tronchetti Provera e i
Benetton, e dico che si salveranno. Conosco Patrizio Bertelli, e penso che
si salverà anche lui.
Ma il problema vero è che qui abbiamo un capitalismo che, di fatto, sta
giocando tutto quanto in difesa: Non è un capitalismo che sta tentando di
espandersi all'estero, di mettere basi in Europa o nel mondo, di farsi polo
di aggregazione di qualche cosa. Negli anni Ottanta, come qualcuno
ricorderà, tutta la stampa mondiale si eccitò molti per i nostri «capitani
coraggiosi» (come li chiamavano allora), che sembrava volessero conquistare
il mondo. Di quei capitani non c'è più traccia. E, anzi, come abbiamo
appena visto, qui stanno giocando tutti in difesa: l'obiettivo non è quello
di conquistare nuovi spazi, ma difendere quello che si ha già.
Se poi dalle aziende passiamo alle banche il quadro diventa ancora più
tragico. Abbiamo grandi banche straniere determinanti negli assetti di
molte banche italiane. Non abbiamo nessuna banca italiana determinante
negli assetti proprietari di qualche banca straniera. E possiamo aggiungere
che poiché molte banche italiane hanno come soci «nazionali» le Fondazioni,
che però dovranno uscire e passare le azioni a non meglio precisate Sgr, al
momento molti istituti non sono nemmeno in grado di sapere quali saranno i
loro padroni di domani, quali strategie dovranno seguire, verso quali
eventuali nuovi accorpamenti dovranno puntare.
Insomma, come già denunciato altre volte, a quindici giorni dal debutto
ufficiale dell'euro, l'Italia arriva all'appuntamento con l'Europa nelle
condizioni peggiori. Con un sistema bancario che non sa più che cosa sarà e
che cosa deve fare e un sistema industriale che ha un vertice sempre più
piccolo e vari problemi da risolvere, da cui dipende la sua capacità di
sopravvivere.
A questo, ma è solo la pennellata finale, si aggiunga che il 2002 si
annuncia un anno modesto, per l'Italia. Con una crescita che probabilmente
sarà di poco sopra all'1 per cento. E nemmeno in futuro andrà molto meglio.
Ci sarà un guizzo verso l'alto nel 2003, e poi si tornerà di nuovo a remare
intorno a crescita economiche del 22,3 per cento.
Insomma, questo è il ritratto di un paese assonnato, con un capitalismo
quasi residuale, e un sistema bancario che sopravvive perché il Governatore
Fazio impedisce (fin che può) agli stranieri di comprarselo. Berlusconi
aveva promesso di slegare le mani ai nostri imprenditori, di liberare
insomma i loro «animal spirits» e di farci sentire il sapore di un nuovo
miracolo. Di tutto ciò, però, non si vede assolutamente nulla. Anzi,
qualche vecchia crepa si sta allargando.