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Comunicato Stampa Rete Lilliput

Sviluppo sostenibile, decrescita, sobrietà
Firenze, 9 aprile: convegno organizzato da Rete Lilliput presso Terra Futura

A Firenze presso Terra Futura sabato 9 aprile Rete Lilliput organizza “Sviluppo sostenibile, decrescita, sobrietà” (Fortezza da Basso, Palazzina Lorenese 2° piano Sala A, ore 14.30 – 16.15). Modererà l'incontro GABRIELE BOLLINI, referente tematico Ambiente della Rete Lilliput, interverranno GIANFRANCO BOLOGNA, WWF Italia; MAURO BONAIUTI, Reti di Economia Solidale; FRANCUCCIO GESUALDI, Centro Nuovo Modello di Sviluppo; BEPPE GAMBA, Coordinamento Agende 21 Locali Italiane; ALBERTO TAROZZI e SALVATORE AMURA, Rete Nuovo Municipio.

Per interviste 339/6675294
In allegato l'intervista a Serge Latouche apparsa oggi sull'Unità sul tema della decrescita.


Serge Latouche "Impariamo dalle catastrofi"
La crescita infinita non è possibile eppure la vogliamo e distruggiamo il mondo.
La «pedagogia» dell’economista francese? Solo un disastro potrà renderci consapevoli e farci cambiare

di Chiara Vergano

Per l’Occidente, «bolide che corre all’impazzata senza autista e senza freni», c’è forse ancora una ricetta, una via d’uscita. Serge Latouche, a Bologna per una conferenza, parla di «pedagogia della catastrofe». Una catastrofe - prossima, futura - che sarà ancora più grande delle precedenti: solo allora, forse, la gente saprà risvegliarsi, reagire e costruire una società diversa, giusta, rispettosa dell’ambiente. Perfino pacifica. Negli ultimi venticinque anni Serge Latouche ha contribuito alla chiarificazione e alla maturazione dei concetti intorno a cui si sono costruiti i movimenti new global. Nato a Vannes, in Bretagna, nel 1940, è economista di formazione e antropologo per esperienza. Negli anni settanta ha trascorso molto tempo in Africa occidentale, e qui ha maturato una svolta del suo pensiero, che dalle posizioni marxiste tradizionali lo ha portato a una critica radicale delle ideologie del «progresso» e dello «sviluppo», anche nella loro versione di sinistra. Nell’81 ha fondato con Alain Caillé il MAUSS (Movimento AntiUtilitarista nelle Scienze Sociali), e l’omonima rivista di cui Bollati Boringhieri pubblica l’edizione italiana. La stessa casa editrice ha pubblicato in Italia i suoi libri più importanti.

Professore, questa crisi profonda in cui vive l’Occidente si riflette nella struttura stessa di tante città, delle metropoli «esplose» e sovraffollate. Lei è appena tornato dall’Africa; cos’ha visto?
«Ero stato a Dakar l’ultima volta cinque anni fa, la mia impressione è che anche qui il caos nel frattempo sia aumentato. Il traffico è terrificante, ci vogliono ore per spostarsi dalla periferia al centro. Bus e taxi sono molto vecchi, bruciano carburante che causa, a livello urbano, un inquinamento enorme. Non c’è più Stato; ovunque c’è solo la polizia, che non fa il suo lavoro. In passato avevano previsto di costruire alcune autostrade, ma il denaro stanziato è scomparso. Una cosa, però, è rimasta identica così com’era cinque anni fa: la gioia di vivere della gente, i tantissimi giovani che incontri nelle strade».

In un mondo ormai al collasso, si parla sempre più di sviluppo sostenibile. È un riferimento obbligato per i politici e i cittadini?
«È un ossimoro, nient’altro. Lo sviluppo non può essere sostenibile: tutti questi danni - ambientali, climatici - vengono dallo sviluppo. Il problema è che non siamo capaci di rinunciare alle nostre comodità, vogliamo avere, come si dice in Francia, “il burro e il denaro del burro”. Il nostro modo di vivere non conosce futuro: vogliamo produrre di più, depredare di più, crescere di più. Ma una crescita infinita non è possibile in un pianeta finito».

È lecito, a questo punto, sperare che ci sia una qualche possibilità di salvezza all’orizzonte?
«Gli uomini non diventeranno certo tutti ragionevoli dall’oggi al domani. Il fatto è che, a un certo punto, saremo più o meno costretti a rivedere il nostro modo di vivere. Per quanto tempo avremo ancora petrolio a buon mercato? Non lo sappiamo. Ma quando non ci sarà più non vedremo aerei volare in cielo, né automobili sfrecciare nelle nostre metropoli. Allora, tutto il sistema andrà ripensato, necessariamente. I tempi non sono troppo lontani: fra pochi anni dovremo, per amore o per forza, rivedere il nostro modo di vivere, di funzionare. Tanto più che già oggi noi - intendo l’Occidente, bolide che corre all’impazzata senza autista e senza freni - viviamo male. Non siamo felici: potremmo stare molto meglio, distruggendo meno l’ambiente. In Africa, invece, nonostante tutti i problemi, la gente ha ancora un’incredibile capacità di fabbricare gioia di vivere».

Nei suoi scritti, più volte lei auspica per la società una «decrescita». Di cosa si tratta, precisamente?
«È un termine per indicare la necessità e l’urgenza di un’inversione di tendenza rispetto al modello dominante. Dobbiamo ricostruire un’altra civiltà: abbiamo conosciuto la civiltà dello sviluppo, ora è tempo di uscire dall’economia, ritrovare la dimensione sociale, politica. La rifondazione del sociale e del politico passa per la decrescita. Dobbiamo imparare a ricostruire i legami».

Quanto può contribuire a questo processo la società civile?
«Società civile è un’espressione usata e abusata. Penso alla Francia, dove più che di società possiamo parlare di un gruppo di individui che si muovono qua e là. Certo, esistono anche dei movimenti, come quello contro la globalizzazione. E sono proprio i movimenti che dovranno farsi carico della ricostruzione. Al tempo stesso, però, è questa stessa società civile, se vogliamo chiamarla così, che deve “decolonizzare” il suo immaginario, cioè liberarsi dai falsi miti dell’economia, dello sviluppo, del progresso. Bisogna fare resistenza e dissidenza, come igiene di vita. In teoria tutti sono d’accordo: ci vuole più giustizia, bisogna vivere meglio, ci deve essere meno inquinamento. Ma in Francia, quando il prezzo della benzina era un po’ più alto, tutti sono scesi in piazza a protestare. A questo punto, non mi resta che pensare alla “pedagogia della catastrofe”».

Ovvero?
«Quando le catastrofi non sono troppo gravi per distruggere tutto, ma lo sono abbastanza per far prendere coscienza alla gente del rischio che si corre, ecco, a quel punto hanno un ruolo pedagogico. La gente si risveglia. Penso a Chernobyl, che ha convinto gli italiani a dire “no” al nucleare. Nei prossimi anni ci aspettano sempre più catastrofi; praticamente, siamo impegnati in una gara tra cambiamento e catastrofe. Ed è davvero importante prepararsi a cambiare strada».

In questo scenario, la pace è destinata a rimanere un’utopia?
«Se fra alcuni anni ci sarà, come penso, una profonda crisi di questo sistema, allora ci saranno anche le condizioni per ricostruire un mondo davvero pacifico. Adesso sembra impossibile, con quanto sta accadendo. Gli Stati Uniti, dopo l’11 settembre, potevano scegliere tra due strade: capire che non potevano più funzionare come potenza imperialistica, oppure impegnarsi in questa guerra senza fine. Hanno scelto la seconda opzione, ora ne vediamo le conseguenze. Il neo-conservatorismo di Bush incoraggia l’integralismo, non solo islamico. Fa crescere il risentimento, anche perché gli Stati Uniti sono difensori di un modello che genera sempre più disuguaglianza, a livello planetario. La miseria cresce, e favorisce la frustrazione, la disperazione. Fa il gioco dei movimenti fanatici, integralisti, nutre il terrorismo. Vincere gli Stati Uniti sul piano monetario non è possibile; ma loro stessi dovranno fare i conti con il sistema che hanno creato, da cui verranno, prima o poi, inevitabilmente paralizzati».
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