kyoto:usa dopo l'11 settembre



da boiler.it di domenica 28 ottobre 2001

 
Usa: dopo Osama, nubi sul futuro

di Claudia Giammatteo  


 AI NEGOZIATI DI MARRAKESH ci saranno. Ma una cosa è sicura: non faranno
come gli altri. Si sono rincorse nelle ultime due settimane le voci di una
“consistente delegazione americana” a Marrakesh, sufficienti a fare nascere
le speranze di vedere tornare Bush al tavolo dei negoziati per il
protocollo di Kyoto. Ad alimentarle è stato perfino un piccolo giallo
numerico: mentre fonti ufficiose prevedevano una presenza di “massimo dieci
persone”, al Mansour Dahbi Hotel, vicino al Palazzo dei Congressi di
Marrakesh, risultavano 120 stanze riservate a nome del Dipartimento di
Stato americano. A moltiplicare le speranze è stato il ministro
dell’Ambiente marocchino Mohamed Elyzghi, che presiederà i negoziati di
Marrakesh. «Ci auguriamo», ha dichiarato qualche giorno fa, «che una volta
chiariti gli ultimi dettagli del trattato gli Stati Uniti possano decidere
di ritornare sul tavolo delle trattative». Il premier inglese Tony Blair si
è addirittura spinto oltre: «Speriamo che in questa nuova atmosfera
diplomatica creata dagli attacchi agli Stati Uniti, il presidente Bush
abbracci trattati internazionali come gli accordi di Kyoto». A spegnere
ogni più flebile speranza, è stato il portavoce della delegazione americana
a Marrakesh, Harlan Watson: «Gli Stati Uniti non hanno intenzione di
ratificare il Trattato di Kyoto», ha spiegato ai giornalisti, «ma non
intendono bloccare i paesi che vogliono andare avanti nei negoziati. Siamo
presenti come paesi firmatari della Convenzione mondiale sul clima del
1992. Ratificare o meno il protocollo è una decisione che ogni paese dovrà
prendere singolarmente».


Alternativa “casalinga” degli Usa? Da escludere

Una novità, anche se negativa, c’è. A meno di sorprese dell’ultima ora
sembra scontata la mancanza di un’”alternativa casalinga” al protocollo di
Kyoto, sbandierata al mondo da Bush dallo scorso inverno, al G8 di Trieste.
Un’assenza spiegata ufficialmente dalla drammatica crisi internazionale, e
dall’improvviso e inaspettato riordino delle priorità nazionali seguito
agli attacchi dell’11 settembre. Ma le cose, in realtà, starebbero
diversamente. Già a giugno un sondaggio pubblico del Washington Post
bocciava la politica ambientale di Bush e l'abbandono dai negoziati sul
clima, appoggiati invece entusiasticamente dall'industria. Il Senato
invitava quindi Bush a tornare al tavolo dei negoziati multilaterali di
Marrakesh, portando una proposta tale da «assicurare la partecipazione
degli Stati Uniti a una versione riveduta e corretta del trattato di Kyoto
o a futuri negoziati sul clima». Già in tempi non sospetti la task force –
guidata dal Vicepresidente Cheney – incaricata dello sviluppo di una
politica alternativa al trattato di Kyoto veniva accusata da entrambi i
rami del Congresso di “eccessiva lentezza” per probabili “disaccordi interni”.



Un’importante segnale della sostanziale “anarchia” degli Stati Uniti in
tema di clima emerge da un fattore inquietante: dodici Stati americani
hanno intrapreso volontariamente una politica di riduzione delle emissioni
che ricalca il trattato di Kyoto. Dal Vermont, alla California, la parola
d’ordine è “il riscaldamento globale esiste e va combattuto”. Ad aprire la
strada è lo Stato della California, in cui il 12 per cento dell’energia
elettrica proviene da fonti rinnovabili. Sei stati del New England e cinque
province canadesi hanno firmato un accordo per tornare ai livelli delle
emissioni del 1990, da ridurre di un ulteriore 10 per cento entro il 2020.
A firmare l’accordo, i governatori di Massachussets, Connecticut, Rhode
Island, New Hamphsire, Vermont e Maine, di provenienza politica opposta:
tre repubblicani, due democratici, un indipendente.


Il Congresso è spaccato

Una conferma della spaccatura tra Casa Bianca e Congresso sulla politica
americana riguardante il cambiamento climatico viene dalla mancata
approvazione di un progetto di legge presentato dal partito repubblicano al
Senato prima dell’11 settembre come “la risposta degli Stati Uniti al
trattato di Kyoto”. Tre i punti salienti del disegno di legge: lo
stanziamento decennale di due miliardi di dollari in nuove tecnologie per
ridurre le emissioni di gas serra, un miliardo di dollari per trasferimenti
di tecnologie a paesi in via di sviluppo – Cina e India in testa – e un
registro nazionale delle industrie a favore di una riduzione volontaria
delle proprie emissioni di “gas serra”. Firmatari del disegno di legge tre
consiglieri di Bush: Chuck Hagel, senatore del Nebraska e capo della
Commissione Affari Esteri, Frank Murkowsky, senatore dell'Alaska e capo
della Commissione Energia e Commercio, e Larry Craig, senatore dell'Idaho.
«I risultati del disegno di legge», aveva dichiarato Craig in un incontro
con la stampa, «porteranno guadagni sull'impatto globale dei gas serra
maggiori di quelli ottenuti seguendo il trattato di Kyoto».



Il testo del disegno di legge si allontana esplicitamente dal testo del
trattato di Kyoto, e in particolare dai punti più controversi all'origine
del ritiro di Bush del marzo scorso. Nessun riferimento, in particolare, a
tagli obbligatori delle emissioni di anidride carbonica a carico
dell'industria – ritenuti troppo onerosi per l'economia americana – mentre,
al contrario, è sottolineata l'importanza del coinvolgimento dei paesi in
via di sviluppo nella riduzione – escluso dai negoziati di Kyoto –,
ritenendolo “indispensabile per trovare una soluzione globale alla
questione dei gas serra”. Chiara, netta, la presa di posizione a favore del
nucleare: «Il difetto principale degli accordi di Kyoto è non avere colto
l'importanza strategica dell'energia nucleare, che non ha impatto sul
riscaldamento globale», ha sottolineato uno dei firmatari del disegno di
legge, Frank Murkowski, che preannunciava l’apertura di nuove centrali
nucleari entro i prossimi tre anni. Sarebbero le prima dopo l’incidente
alla centrale di Three Mile Island, in Pennsylvania, nel 1979.