Antigone e la legge che smarrisce il diritto



Antigone e la legge che smarrisce il diritto
di Gustavo Zagrebelsky ("La Repubblica", 25 giugno 2003)

Il testo che qui pubblichiamo sarà letto oggi alle 11 a Montecitorio (Sala
della Lupa) dal professor Gustavo Zagrebelsky, vicepresidente della Corte
costituzionale, in occasione del quarantennoledell'opera Leggi d'Italia
(DeAgostini). Interverranno il presidente della Camera PierFerdinando
Casini e il ministro Roberto Castelli.

L'intera vicenda storico-spirituale e concettuale della legge nel corso dei
venticinque secoli di cui siamo figli altro non è che il mutevole rapporto
con il diritto: lex eius . Una duplice definizione sarebbe necessaria. Ma,
forse, quel che segue la renderà superflua.
Pollà ta deinà dà inizio al celeberrimo primo stasimo diAntigone, nel quale
Martin Heidegger vedeva la sintesi profetica e premonitrice del sorgere e
declinare della civiltà occidentale. Molte cose mirabili e, al tempo
stesso, orribili sono gli esseri umani e le loro opere, quando si
prefiggono di dominare con artifici la natura delle cose - per esempio,
solcando il mare in tempesta - o di affaticare la terra, piagandola con
l'aratro e spossandola della sua energia. Ogni trasformazione comporta
divisioni e separazioni e queste, a loro volta, violenza e dolore. L'
Angelus novus di Paul Klee, che Walter Benjamin portava nel suo bagaglio, è
sospinto nelle ali spiegate dal vento incessante e irresistibile del
progresso, della modernizzazione e del nuovo e si volge indietro restando
impietrito per le cose che vede, tutte in una volta: così è restituita
l'immagine del deinòs sofocleo e, al tempo stesso, se ne dà !a traduzione
fedele in un linguaggio universale.
Il testo fondativo della nostra civiltà giuridica - Antigone, appunto - è
una riflessione sulla legge come deinòs (l' "Ungeheuer" - il meraviglioso e
orrifico della traduzione di Friedrich Hölderlin). Solo così inteso, si
comprende il significato del canto corale sull'uomo e le sue conquiste,
collocato all'inizio dell'azione tragica e destinato a gettare sulla legge
stessa una luce spaventosa di ambiguità.
Conosciamo abbastanza dell'Atene del V secolo per comprendere che dietro il
contrasto tra il diritto di Antigone e la legge di Creonte stava un
conflitto tra resistenze arcaicizzanti e tensioni modernizzanti nel governo
della città. La piccola fanciulla dall'incontaminata fede nella santità dei
vincoli di sangue, che vìola il bando di Creonte, il re, per rendere gli
onori funebri al fratello, pur caduto da traditore portando le armi contro
la propria patria, non è propriamente l'eroina della giustizia, della
coerenza morale assoluta e della ribellione al sopruso, come tutti noi
l'abbiamo vista, nel tempo, alieno da compromessi, della nostra giovinezza.
Non astratta contesa tra norma morale e legge del potere. La lotta mortale
di Antigone e Creonte metteva i cittadini di Atene, riuniti nella
rappresentazione teatrale, di fronte al non risolto contrasto politico che,
a quel tempo, divideva gli animi e le fazioni. Da una parte, le radici
tradizionali della città, lo ius "non scritto e non mutabile, che non è di
ieri né di oggi, ma da sempre, di cui è ignota la rivelazione"; lo ius che
vale per le cerchie umane vincolate da comunanza di sangue con al centro la
famiglia, che si richiama perciò alla struttura gentilizia originaria della
polis, è radicato nei legami vitali e quindi nel culto dei morti ed è
cementato dal senso dell'onore e della fedeltà particolare, di cui è
depositario l'elemento femminile della società.
Dall'altra parte, la forza innovatrice di una società-stato proiettata a
divenire potenza egemone del mondo greco, fondata su leggi proclamate
vittoriosamente alla luce del sole ("raggio di sole, luce, la più bella che
apparve a questa Tebe dalle sette porte") per valere universalmente; leggi
che esigono ubbidienza uniforme e incondizionata, spezzano l'unità dei
legami interpersonali e familiari, travolgono eros, amore coniugale,
sentimento paterno, fraterno e filiale, ignorano la contiguità del sangue e
sono garantite dall'elemento maschile della società, il re, unico e supremo
legislatore.
Questa tragedia della realtà divisa - nel giudizio di Hegel, "una delle
opere d'arte più eccelse e a ogni riguardo più perfette di tutti i tempi" -
assurge così a simbolo dell'esito funesto generato dal reciproco
disconoscimento di ius elex , del diritto profondo e stabile dei legami
sociali, impersonato da Antigone, e della artificiale e mutevole legge
pubblica dello Stato, impersonata da Creonte: esito radicale di morte
fisica per Antigone e di morte spirituale - noi diremmo: totale
"delegittimazione" - per Creonte, rigettato dai suoi concittadini e
ripudiato perfino in casa propria, del quale alla fine "resta un nulla".
Antigone rappresenta un inizio. La legge affacciava appena la sua pretesa e
la sua legittimità era fortemente contestata. Il poeta tragico, nei passi
affidati al coro degli anziani, parla per la città in uno dei suoi luoghi
sacri - il teatro -. Egli insiste sulla follia e l'assurdità della santa
intransigenza di Antigone, ribelle alla legge, e la sfiora perfino con un
motto di disincantato dileggio per l'inanità della sua ribellione. Però,
manifestamente, parteggia per lei e così - si può supporre - anche i suoi
concittadini, partecipi dell'azione tragica, parteggiavano per lei.
Oggi, la parabola sembra conclusa con il totale rovesciamento dei punti di
partenza. Conosciamo solo più leggi scritte e mutevoli, che sono di ieri,
di oggi e certamente non più di domani; sappiamo chi e quando le ha
proclamate, in quali circostanze,per quali interessi e con quali propositi.
La silenziosa sacralità del diritto è stata soppiantata dalla verbosa
esteriorità della legge. Lo Stato è da tempo una machina legislatoria .
Solo da questa fucina ci si aspetta che esca il diritto, senza sapere quale
potrà essere, poiché ciò dipende da chi, di volta in volta, riuscirà a
impadronirsi dei comandi di quella macchina.
La legislazione ha invaso tutti gli àmbiti dell'esistenza umana, perfino i
più privati e per lungo tempo refrattari a norme esteriori, come quelli
delle relazioni affettive tra le persone: la famiglia, la convivenza, i
rapporti tra genitori e figli. Lo straordinario e incessante sviluppo delle
applicazioni della tecnologia a manifestazioni della vita, un tempo
lasciate alle regole della natura e delle scienze naturali, concorre alla
moltiplicazione delle leggi: la procreazione, la lotta contro le malattie,
l'uso dei tessuti e degli organi umani, il contrasto delle forze
dell'invecchiamento, la morte - apre nuovi sterminati campi all'intervento
necessario della legge; così, ugualmente, le nuove tecniche della
comunicazione a distanza, della raccolta e dell'elaborazione dei dati
pongono problemi di protezione dei diritti personali che richiedono leggi
sempre nuove. La stessa madre terra, fino a non molti decenni fa
considerata creatura autosufficiente, base sicura della vita degli esseri
animati, necessita ora di reti giuridiche di protezione dei suoi equilibri,
seriamente minacciati dallo sviluppo distruttivo delle attività dei suoi
figli. Onde può dirsi che non c'è dimensione dell'esistenza che non sia
oggetto di cura da parte del diritto, nella forma della legge positiva. E
perfino per soddisfare l'esigenza, oggi particolarmente sentita, di
restituire all'autonomia delle scelte e delle responsabilità individuali e
sociali, settori dell'esperienza umana, come quelli dell'iniziativa
economica, occorre paradossalmente moltiplicare, non ridurre il numero
delle leggi. L'economia aperta di mercato è un'istituzione non meno
artificiale di una qualunque forma di economia guidata e, per essere
costruita e difesa, anche contro quel diritto 'privato' che è costituito
dai patti d'affari stipulati negli studi legali delle grandi imprese
commerciali e delle finanziarie internazionali, necessita anch'essa di un
castello di norme imponente. La non da oggi invocata e mai attuata, in
Italia come altrove, politica della riduzione e semplificazione legislativa
è contraddetta da sviluppi della legislazione esattamente opposti.
Se mai occorresse una conferma concreta di che cosa significa la metafora
della macchina legislativa , basterebbe gettare uno sguardo a Le leggi
d'Italia , di cui si celebra oggi il quarantennale della pubblicazione. La
prima edizione del 1963 (che la Biblioteca della Corte costituzionale ha da
tempo distrutto e sostituito, per consunzione dovuta alla nostra
quotidiana, indispensabile consultazione) era costituita da trentatré
poderosi volumi; ora è cresciuta a settantotto volumi. Aggiornamenti
mensili, contenuti in fogli opportunamente definiti "mobili", danno corpo
all'immagine di una bufera legislativa che mai non resta: leggi nuove;
modifiche alla vecchie, pro futuro e retroattive; leggi temporanee,
transitorie, di sanatoria, sperimentali, di 'interpretazione' autentica ed
errata corrige ; testi unici della più varia natura; sentenze
costituzionali con portata normativa: tutto ciò, moltiplicato perle molte
autorità normative, centrali, regionali, locali e sopranazionali, che
operano con l'intento che nulla sfugga alla più minuta regolazione
giuridica.
Il mondo del diritto è saturo di leggi. La legalità, quale corrispondenza
alla legge, è rimasta sola unità di misura giuridica e ha scalzato la
legittimità, quale rispondenza al diritto. Anzi, si è impadronita di essa,
come all'inizio del secolo scorso Max Weber aveva antiveduto, quando aveva
parlato di legalità come esclusiva forma di legittimità dell'epoca moderna,
un'epoca di comportamenti politici, economici e sociali tendenti alla
razionalizzazione, alla standardizzazione, alla pianificazione,
all'omologazione, rispetto ai quali lo Stato, a sua volta, sempre più
assume i caratteri di un'impresa tecnicizzata, funzionalizzata,
funzionarizzata e burocratizzata, per la quale la legge è l'equivalente del
flusso vitale in un organismo vivente. Il linguaggio comune, anche qui
sintomo infallibile di una condizione spirituale, ha registrato questa
traiettoria. Per dire che ho ragione secondo legge, definirò legittima, non
legale la mia pretesa, tradendo tuttavia con ciò la nostalgia per una
dimensione giuridica perduta - la legittimità del diritto, appunto - e
rendendole inconsciamente omaggio. E ciò accade anche per il linguaggio
specialistico: con l'espressione Stato di diritto, dall'Ottocento in poi,
si designa in realtà uno stato di leggi, uno stato meramente legale.
Questa nostra condizione di individui legalizzati ci appare perfettamente
naturale e non pensiamo neppure che sia stata possibile un'altra
condizione; preferiamo ignorare che la condizione originaria non è affatto
questa e non ci sfiora il dubbio che, forse, neanche ora, a ben pensarci,
sia esattamente così.
I secoli che separano noi da Antigone sono stati un confronto a fasi
alterne tra il diritto e la legge. Il dominio della legge sul diritto, anzi
la fagocitazione monopolistica dei secondo a opera della prima, sono il
prodotto di poteri politici astratti, di grandi dimensioni anche spaziali,
sviluppatisi prima accanto e poi contro le strutture sociali tradizionali
concrete di piccole dimensioni, tramite un'amministrazione burocratiça del
diritto. Il diritto romano repubblicano, per esempio, non ancora fu questo.
Anche se comprendeva leggi,cioè decisioni del popolo riunito in assemblea
rivolte a tutti cittadini, non era un diritto legislativo. Era un insieme,
fuso in unità da responsa di giuristi non inquadrati in burocrazia,di mores
arcaici, di interpretazioni sacrali delle XII tavole, di programmi
giurisprudenziali fissati nell'editto pretorio. Onde si è parlato di
latente dualismo - ancor oggi percepibile attraverso le fonti pervenuteci
nella forma della codificazione giustinianea - tra ius civile , custodito e
sviluppato da esperti giuristi circondati di prestigio sociale, e lex
regolatrice di ciò che diremmo la dimensione pubblica della vita; un
dualismo non teorizzato dai romani e tuttavia vissuto come dato
caratterizzante la propria esperienza giuridica e politica. E anche quando
poi i giuristi furono chiamati a cooperare con la potestas imperiale,
divenendone funzionari, i più consapevoli di loro rappresentarono non
semplicemente il dominio del principe in forma legale (le constitutiones
imperiali) ma, nella continuità della tradizione, la legittimità del potere.
Che cosa sia stata l'esperienza giuridica dell'età di mezzo non si presta a
essere colto in una formula semplificatrice. Dal crollo dell'autorità
politica centrale, la società frammentata espresse il suo diritto dal quale
il particolarismo legato alle situazioni e alle tradizioni locali e i
privilegi di status potevano trarre vigore. Nello ius commune confluiva il
diritto canonico, con la sua inimitabile flessibilità adatto ad accogliere
nel suo seno questa realtà complessa, e il Corpus juris romano, riscoperto
sul finire dell'XI secolo e reso vitale nella nuova situazione a opera
delle scuole dei glossatori. Questa stilizzata rappresentazione non rende
giustizia dell'esistenza di altre e affatto pluralistiche dimensioni del
diritto: il diritto naturale cristiano che teorizzava il primato politico
della Chiesa, nel nome del quale l'Europa si accese dei roghi della Santa
Inquisizione; l'opera dei legisti che lavoravano sul diritto romano
imperiale, fautori della ragion di Stato. In ogni caso, l'incidenza della
legge, fosse essa ecclesiastica o civile, restava rara, marginale,
disorganica.
La situazione spirituale, che accompagnava quella politica, iniziò a
cambiare a tutto favore della legge tra il Cinque e il Seicento, quando
apparvero le prime teorie esclusivistiche del diritto, legate
all'assolutismo politico. Oggi siamo portati a dare peso decisivo, nella
formazione dello spirito giuridico dei tempo, alle dottrine dello stato
assoluto, prime fra tutte alla Repubblica di Jean Bodin e al Leviatano
diThomas Hobbes. Peril diritto, più importanti furono però le visioni
naturalistiche, come quelle tratte dalla matematica o dalla geometria. Esse
non esistono più, come tali, ma la loro influenza sulla formazione della
mentalità "scientifica" della nostra giurisprudenza è ancora oggi decisiva.
Ad esempio, secondo Gottfried W. Leibniz, il diritto dovrebbe consistere in
definizioni razionalmente stabilite, che si sviluppano le une dalle altre,
come nel ragionamento matematico, producendo proposizioni valide e vere in
se stesse come è l'obbiettiva legge dei numeri che stanno al di sopra di
tutti (Dio compreso) e valgono, in una sfera superiore, indipendentemente
dal fatto concreto che ci sia qualcuno che fa di conto e che ci sia
qualcosa da contare.
L'assolutismo monarchico del Seicento-Settecento si alimentò di queste e
altre consimili teorie esclusivistiche. Ma ancora al tempo della
rivoluzione del 1789, la lotta del sovrano per imporre il dominio della sua
legge in tutto il regno era lungi dall'essere conclusa. Il contrasto che
fino all'ultimo oppose il re ai Parlamenti era il residuo della vecchia e
tenace opposizione tra leggi nuove del re e le antiche strutture feudali
francesi. I Parlamenti di Antico Regime, organi politico-giudiziari, erano
una sorta di giustizia costituzionale di controllo sugli atti generali del
re in nome della tradizione. Per il loro tramite, la nobiltà di roba in
varie circostanze cercò di imporre una sorta di dispotismo nobiliare, volto
all'indietro, contro il dispotismo legale del re, volto al futuro. La loro
politica, spesso corrotta, di miope chiusura all'innovazione e di bigotta
difesa dei privilegi, fu oggetto di critica feroce da parte dei philosophes
(il Trat tato sulla tolleranza di Voltaire trae spunto dalla condanna
capitale del mercante ugonotto Jean Calas, pronunciata dal Parlamento di
Tolosa) e fu uno dei non ultimi motivi scatenanti degli avvenimenti del
1789. Trois sont les fléaux de la Provence: le Mistral, leParlement et la
Durance , diceva una filastrocca popolare a Aix-en-Provence.
La rivoluzione in Francia chiude il ciclo aperto con l'originaria sconfitta
di Antigone. II diritto è divenuto sola legge e la legge solo potere. Di
fronte a esso, ci sono solo sudditi.
Creonte, e con lui l'assolutismo nel diritto, hanno vinto la loro
battaglia. La rivoluzione ha effettivamente portato a compimento il
progetto monarchico che in due secoli non era riuscito a imporsi
completamente. E' quanto Mirabeau scriveva segretamente a Luigi XVI, un
anno dopo i primi fatti rivoluzionari, per incoraggiarlo a non porre
ostacoli: «Confrontate il nuovo stato di cose con l'antico regime; da
questo confronto nascono il conforto e la speranza. Una parte degli atti
dell'assemblea nazionale, ed è la parte maggiore,è palesemente favorevole a
un governo monarchico. Non vi sembra nulla essere senza Parlamenti, senza
corpi separati, senza ordini del clero, della nobiltà,dei privilegiati?
L'idea di formare una sola classe di cittadini sarebbe piaciuta a
Richelieu: questa superficie tutta uguale facilita l'esercizio del potere.
Parecchi periodi di governo assoluto non avrebbero fatto per l'autorità
regia quanto questo solo anno di rivoluzione. La storia prese una piega
diversa, a favore non del re ma del popolo. Ma, quanto alla legge,
l'intuizione di Mirabeau fu esatta: la rivoluzione non aveva rotto con
l'assolutismo regio, ma lo aveva portato a compimento.
Da allora, la legge è lo strumento per tutte le avventure del potere, quale
che esso sia, democratico o antidemocratico,liberale o totalitario. La
«forza di legge» è stata al servizio, di volta in volta, della ragione
rivoluzionaria dei giacobini; del compromesso moderato tra il monarca e la
borghesia liberale, contro il socialismo; dell'autoritarismo liberale della
fine dell'Ottocento; delle riforme democratiche dell'inizio del Novecento e
delle dittature di destra e di sinistra che ne sono seguite. La legge era
la legge, benefica o malefica, moderata o crudele che fosse e nessun
diverso diritto le si poteva contrapporre. Lo stato che operava secondo
leggi era, perciò solo, legale e legittimo.
Il fascismo e il nazismo si fregiarono perfino del titolo "scientifico" di
stati di diritto, e lo poterono fare perché la forza di legge, di per sé,
non distingue diritto da delitto. Avventurieri del potere e perfino
movimenti criminali, organizzati con tecniche efficaci per la conquista
spregiudicata del potere, hanno preteso legittimità per le loro azioni alla
stregua di leggi fatte da loro stessi per mezzo del controllo totale, da
essi acquisito, delle condizioni della produzione legislativa: consenso
sociale, opinione pubblica, fattori tecnici parlamentari e governativi. Con
la conseguenza che i poteri ch'essi venivano attribuendosi potevano certo
dirsi legittimi, nel senso di legali, essendo al contempo scientificamente
qualificabili come poteri autoproclamati e autoconferiti. Con il che si
giunse al colmo: la legalità divenuta modo d'essere di gangsters, secondo
la vibrante denuncia di Bertolt Brecht e perfino secondo l'ammissione di
uno che se ne intendeva per esperienza diretta, Carl Schmitt.
Il deinòs insito nella legge si era manifestato a sufficienza. La memoria
di quelle brucianti esperienze ha reso le generazioni che sono seguite
diffidenti, perfino nei confronti della legge regolarmente votata in
Parlamento o deliberata direttamente dal popolo in referendum. Ma, per
porre limiti e organizzare cautele, ogni altro strumento diverso dalla
legge era andato perduto da un secolo e mezzo. Lo ius antico era stato
distrutto. La società era irrimediabilmente mutata. Essa non produceva
legittimità se non, per l'appunto, attraverso le procedure della
legislazione. L'unico strumento a disposizione per limitare il legislatore
era, ancora, soltanto una legge, ma dotata di una"forza" maggiore di quella
ordinaria, la forza di legge costituzionale. Alle Costituzioni ci si
affidò, scrivendovi cataloghi di diritti inviolabili e principi di
giustizia inderogabili e prevedendo in essa meccanismi e organi di
garanzia: procedure speciali per cambiarle, capi di Stato "garanti della
Costituzione", come è quello previsto dalla nostra Costituzione, e
Tribunali costituzionali, come è la Corte costituzionale.
Non c'era evidentemente altro da fare. Il positivismo giuridico, cioè la
riduzione dei diritto a sola legge positiva, precludeva ogni soluzione
diversa da quella di porre un'altra legge, la legge più alta. Ma sarebbe
stata davvero la soluzione? II seme del dubbio stava già in una piccola,
profetica frase detta da Joseph De Maistre, il critico dell' '89: «Come può
dirsi che la Costituzione vincola tutti, se qualcuno l'ha fatta?». Come può
impedirsi che quel qualcuno - individuo o popolo opportunamente evocato -
come ha posto la Costituzione, così la sospenda, la eluda, la violi o la
modifichi, al di fuori delle garanzie che la Costituzione stessa ha posto
per difendersi da tutto questo? E' una contraddizione, un'aporia, un
circolo vizioso che ricorda lo stallo in cui era caduto il barone di
Münchhausen. Come si può contare sul potere per difendersi dal potere? Le
Carte costituzionali sono sì una garanzia, ma non ultima, solo penultima.
Questo è il paradosso del costituzionalismo del nostro tempo. Le leggi, e
tra queste la Costituzione, possono molto ma non tutto. Esse formano come
una grandissima costruzione, ma non più solida di un castello di carte, in
quanto il loro fondamento sia posto solo in sé stesse: cioè, in ultima
analisi, nel potere. Antigone ci ammonisce ancora: senza ius , la lex
diventa debole e, al tempo stesso, tirannica. La scommessa del
costituzionalismo sta tutta qui: nella capacità della Costituzione, posta
come lex , di diventare ius ; fuori dalle formule, nella capacità di uscire
dall'area del potere e delle fredde parole di un testo scritto per farsi
attrarre nella sfera vitale delle convinzioni e delle idee care, senza le
quali non si può vivere e alle quali si aderisce con calore. Per usare
ancora le nostre categorie, la Costituzione, nel suo senso profondo, può
dirsi il tentativo di restaurare una legittimità nel diritto, accanto alla
sua legalità. Sarà pur vero, come è stato detto, che la legittimità
restaurata non è che un paradiso artificiale; ma il primo compito di chi
agisce per la Costituzione è per l'appunto di trascendere l'artificio per
trasformarlo in forza culturale, vivente nella natura della società; di
trasferire progressivamente la Costituzione dall'area della decisione
politica che divide, crea inimicizie
e conflitti a quella consensuale della cultura politica diffusa. Sotto
questo aspetto, noi, come giuristi e particolarmente come
costituzionalisti, dobbiamo, per la parte che ci compete, umilmente
riconoscere la nostra colpa, per non avere adempiuto fino in fondo il
nostro dovere. Sia pure mossi dalle migliori intenzioni - farla vivere
nella meccanica dell'ordinamento giuridico - l'abbiamo isolata nel mondo
del puro diritto positivo trascurando il compito, altrettanto, se non più
essenziale, di farla valere come forza costitutiva di un idem sentire
politico, diffuso in tutti gli strati sociali. Così, alla fine, abbiamo
trascurato proprio la difesa più importante e l'abbiamo esposta inerme ai
rischi che possano provenire da una volontà politica, quale che essa mai
sia, che volesse procedere contro di essa in forma di legge.