Le riforme sbagliate (di Giovanni Sartori)



Le riforme sbagliate
di Giovanni Sartori
www.libertaegiustizia.it/archivio/arcoggi/feb2003oggi/o030205.htm

No al presidenzialismo, no al premierato. La lezione del politologo
all'esordio romano di Libertà e Giustizia
Le istituzioni sono la nostra casa politica, il luogo e il modo (a seconda
di come è fatta la casa) dove viene gestito il potere. Se le vogliamo
cambiare il sottinteso dovrebbe essere che la casa del potere funziona
male; ma i motivi per cambiarla possono essere diversi. In Italia, per
alcuni dobbiamo completare la transizione ad una Seconda Repubblica
compiutamente bipolare; per altri la dobbiamo cambiare semplicemente perché
abbiamo bisogno di un sistema politico efficiente. In ogni caso, questa
volta la pulsione riformistica è forte. Anche perché questa volta proviene
da Berlusconi, e quindi da una maggioranza che può imporre le riforme
istituzionali da sola.
Comincio dall'inquadrare l'argomento. I sistemi politici delle democrazie
liberali sono fondamentalmente di due tipi: o presidenziali o parlamentari.
I primi sono caratterizzati dall'elezione popolare del capo dello Stato, e
da una netta separazione dei poteri tra esecutivo e legislativo. Invece nei
sistemi parlamentari il popolo elegge soltanto una assemblea legislativa, e
il potere tra esecutivo e legislativo è diviso ma anche condiviso.
Il rischio del presidenzialismo è che il legislativo paralizzi l'esecutivo;
il rischio del sistema parlamentare è l'assemblearismo, e cioè il
malgoverno (sul governo) dell'assemblea. Questi due inconvenienti sono
stati fronteggiati da due rimedi: da un lato da un presidenzialismo
parlamentarizzato (il semi-presidenzialismo di tipo francese), e dall'altro
dal premierato di tipo inglese (del quale il cancellierato tedesco
costituisce una variante).
Dunque se cerchiamo buoni modelli per buone istituzioni è bene ispirarsi al
semi-presidenzialismo (se siamo di inclinazione "direttistica", fautori di
elezioni dirette), oppure al premierato-cancellierato (se ci piace restare
nell'ambito dei sistemi parlamentari). E' vero che di riforme istituzionali
in Italia si parla da parecchi decenni. Ma in passato il problema non era
inquadrato in questi termini. Oggi lo è, e tanto meglio così. Sennonché noi
dobbiamo sempre fare i conti con un genio italico cha sa sempre far meglio
di tutti gli altri; un genio al coperto nel quale sguazzano poi legioni di
furbastri specializzati in confusioni e brodaglie. Beninteso nulla vieta di
migliorare un modello; ma rispettandone la logica, rispettandone la
coerenza. I sistemi politici sono, appunto, sistemi: il che significa
insiemi le cui parti devono essere congruenti, devono davvero stare
insieme. Invece il "genio italico" predilige il bricolage, l'arlecchinismo
costituzionale, e approda così alla invenzione di bastardi senza capo né
coda, oppure con il capo al posto della coda.
Tornando agli originali, ai modelli come sono prima dell'intervento del
genio italico, è chiaro che sono tutti e due, o tutti e tre, modelli
accettabili. Ma accettabili in astratto. In concreto dobbiamo tenere conto
del "fattore B", del fattore Berlusconi. In passato Alberto Ronchey coniò,
nel 1979, la dizione "fattore K" per dire il fattore Komunismo. Il fattore
K spiegava l'anomalia italiana degli anni 50-90, e cioè l'anomalia del
sistema bloccato, senza alternanza, salvato al centro della diga Dc. Il
fattore K di Ronchey si dissolve con la caduta del muro di Berlino del
1989; ma noi siamo lestamente tornati ad essere anomali (e fuori regola)
perché lo abbiamo sostituito con il "fattore B". Come autorevolmente scrive
l'Economist del 1° febbraio, la democrazia "non è stata normale, in Italia,
da parecchio tempo, e ultimamente si sta attorcigliando in una ancora
maggiore anormalità". Come dicevo, il fattore B sconsiglia, oggi, il
semi-presidenzialismo. La formula francese è temperata da una sua possibile
e prevista alternanza interna tra un presidente forte che governa
disponendo di una sua maggioranza in parlamento, e un presidente debole, in
minoranza, bloccato dalla cosiddetta coabitazione. In Italia Berlusconi
dispone già, di fatto, di un potere smisurato, fuori misura, che non trova
analoghi né precedenti in nessuna democrazia. Il che significa che con lui
rischiamo un presidenzialismo davvero dispotico. In dottrina io ho sempre
sostenuto il semi-presidenzialismo (mai il presidenzialismo puro
all'americana). Ma al cospetto del fattore B non mi sento, oggi, di
raccomandare il modello della V Repubblica.
Restano, allora, i premierati: sia il premierato inglese come il
cancellierato tedesco. In entrambi i casi otteniamo un rafforzamento del
potere esecutivo, e quindi una buona o comunque maggiore governabilità. Il
guaio è, qui, che il premierato inglese funziona come funziona perché nel
Regno Unito i partiti sono soltanto due ( il sistema è bipartitico) e il
governo è monopartitico (senza coalizioni). Noi, invece, di partiti ne
abbiamo dodici (uno più, uno meno), e cioè dieci di troppo. Cosa ne
facciamo? La domanda è pressoché sacrilega, disturba gli interessi
costituiti e troppe omertà, troppe connivenze. Pertanto la risposta dei
nostri esperti (si fa per dire) è che se uno diventa otto (caso della
sinistra), si fa una coalizione di otto; e se diventa quattro (caso della
destra), allora si fa una coalizione di quattro. E' la stessa cosa?
Assolutamente no: è una cosa diversissima.
Semmai, a questo effetto il modello che ci può aiutare è il cancellierato
tedesco, visto che questo modello contempla la possibilità di coalizioni di
governo. Mentre in Canada (modello inglese) si preferisce un governo di
minoranza a un governo di coalizione, in Germania i governi di coalizione a
due sono normali, e anche una coalizione a tre sarebbe concepibile. Ma,
attenzione, è così perché il sistema elettorale tedesco mantiene bassa la
frammentazione partitica, e perché la buona sorte ha prodotto un sistema
partitico del tipo 2 più 2, e cioè con due partiti maggiori (con il 30-40
per cento dei voti), più due partiti minori, i liberali e i verdi (con il
5-10 per cento dei voti). Dunque in Germania va da sé - grazie ad un
quadripartitismo diseguale - che il cancelliere sia espresso da uno dei due
partiti maggiori, e che si diano coalizioni senza troppi problemi perché
dominate o dai democristiani o dai socialdemocratici. E la espressione "va
da sé" sta per dire che qui si applicano le normali regole dei sistemi
parlamentari.
Da queste considerazioni si dovrebbe ricavare che a noi conviene far capo
al modello del cancellierato tedesco. Ma non è così. Il cancellierato non è
senza fautori, ma per ora la loro voce è minoritaria. L'ostacolo è qui il
sistema elettorale. La Germania adopera un sistema misto che però è
interamente proporzionale in esito, e cioè nella distribuzione dei seggi;
un proporzionalismo che è frenato, peraltro, da una soglia di sbarramento
del 5 per cento. E questo sbarramento non può essere aggirato (come accade
in Italia) da alleanze elettorali. Il che terrorizza i nostri partitini.
S'intende che la loro opposizione sarebbe superabile (sono, dopotutto,
partitini molti "ini"). Se non lo è, è perché da noi trionfa una vera e
propria fissazione maggioritaria che ci viene da lontano, da Pannella e da
Mariotto Segni. Una fissazione che si traduce nella tesi che sistema
elettorale maggioritario e bipolarismo stanno e cadono assieme. Più
esattamente, la tesi è che senza il primo viene meno il secondo. E' proprio
così? Secondo me no.
La controprova è che la Germania e la Spagna sono insieme paesi
proporzionalisti e bipolari. E così tutti i piccoli paesi Europei. Il
maggioritario "secco" serve in Inghilterra a mantenere un sistema a due
partiti. Ma se noi ci accontentiamo, come ci accontentiamo, di un sistema
bipolare nel quale ciascun polo aggrega partiti in quantità, allora è di
tutta evidenza - lo dimostra, appunto, l'evidenza - che il bipolarismo non
richiede un sistema elettorale maggioritario. Perché? Come si spiega? La
mia spiegazione è che una struttura competitiva binaria, o bipolare,
diventa fisiologica, diventa normale, man mano che la polarizzazione
ideologica si riduce (e quindi con qualsiasi sistema elettorale). Dunque,
che il bipolarismo non presupponga elezioni di tipo maggioritario è
comprovato dai fatti e anche spiegato, o comunque spiegabile, in teoria.
Eppure da questo orecchio nessuno ci sente. Come dicevo, il maggioritarismo
è, in Italia, una fissazione.
Una fissazione, aggiungo, i cui effetti nefasti, o comunque negativi, non
investono soltanto l'ingiustificato rifiuto del sistema elettorale tedesco
(che potrebbe andare benissimo, se mantenuto esattamente come è, anche per
noi) ma anche, e ancor più, la assurda difesa del pessimo sistema
elettorale che abbiamo, del cosiddetto Mattarellum. E questo è un punto che
merita una digressione.
Dico digressione perché il sistema elettorale è, da noi, materia di legge
ordinaria, non di legge costituzionale (anche se alcuni progetti di riforma
istituzionale ne contemplano la costituzionalizzazione).
Costituzionalizzazione o no, il punto è che in ogni caso qualsiasi sistema
di governo richiede, per funzionare, un buon sistema partitico che
presuppone a sua volta un buon sistema elettorale. Buono in che senso?
Buono che cosa vuol dire? Qui vuol dire che i partiti non dovrebbero essere
più di cinque-sei, e che il sistema elettorale ne deve ostacolare la
frammentazione. Invece noi di partiti ne abbiamo una dozzina; il che basta
a dimostrare che noi abbiamo un cattivo sistema elettorale. Che è
doppiamente cattivo. In primo luogo perché produce una frammentazione
eccessiva e disfunzionale del sistema partitico; e in secondo luogo perché
funziona sulla base di incentivi perversi.
La fissazione maggioritaria di cui dicevo prima ci induce a sostenere che
la colpa dei "troppi partiti" è della componente proporzionale (un quarto)
del Mattarellum, e quindi che tutto andrebbe a posto se eliminiamo il
"misto"e adottiamo un sistema interamente maggioritario a un turno. E'
tutto sbagliato, è vero il rovescio. La moltiplicazione dei nostri partiti
è dovuta al fatto che il sistema uninominale - il sistema nel quale in ogni
collegio il "vincitore piglia tutto", the winner takes all - attribuisce ai
partitini un formidabile potere di ricatto. Il partitino non può mai
vincere una gara uninominale; ma se si presenta può far perdere il seggio
al partito maggiore del suo schieramento. E così le elezioni diventano un
grande mercato delle vacche nel quale i partiti maggiori devono comprare le
"desistenze" dei partitini assegnando loro una serie di seggi concordati al
tavolino. Davvero un bel sistema degno di essere difeso (come avviene) ad
oltranza.
Riprendo il filo venendo ai progetti di riforma in campo. Il centro-destra
non ha ancora esibito un suo testo comune. Si sa che Berlusconi preferisce
il semi-presidenzialismo, ma risulta che sia disposto a negoziare. Fini
dice ora di preferire il premierato, mentre Casini, il grosso degli ex-Dc,
e anche il forzista Urbani puntano sul cancellierato. E si sa anche che il
centro-destra sta elaborando la sua proposta in una sua "Officina", cioè
nel suo gruppo di cervelli. Ma questo è tutto. La sinistra ha invece già
depositato al Senato due progetti. Il primo in ordine di tempo è il disegno
di legge del senatore Tonini (primo firmatario) e sei altri. E' però di
evidente derivazione dalemiana, nel senso che proviene dal suo pensatoio,
dalla sua Fondazione. Il secondo è il disegno di legge del senatore
Bassanini (primo firmatario), più ventotto altri, e sottoscritto in
particolare da tutti i componenti dell'Ulivo della Commissione affari
costituzionali (tra i quali Mancino, Salvi, Dentamaro, Villone, Manzella,
Passigli, Toia, Occhetto) e anche da Giuliano Amato.
I due progetti vertono entrambi sulla formula del premierato. Ma divergono
recisamente in quasi tutto, e soprattutto su due punti cruciali: l'elezione
diretta del capo del governo e, secondo, l'attribuzione al premier della
facoltà di sciogliere la Camera dei Deputati. Sul primo punto il testo
Tonini dice così: "l'elettore dispone di un unico voto su un'unica scheda
per l'elezione del candidato nel collegio uninominale … e, a destra,
l'eventuale nome del candidato alla carica di Primo ministro a cui il
candidato del collegio può essere collegato". E', questo, l'equivalente di
una elezione diretta? A mio parere si. Tantovero che il primo ministro così
designato non chiede la fiducia del parlamento: il capo della Stato è
obbligato a nominarlo e basta (nuovo testo dell'articolo 92 della
Costituzione). Qui la difficoltà dei dalemiani è che questo non è il
premierato all'inglese (visto che in Inghilterra il nome del Primo ministro
in pectore non è scritto su nessuna scheda di voto), ma invece
l'equivalente dello screditato e già ripudiato premierato israeliano.
I dalemiani sostengono che non è così, che ci sono differenze. Si, ma in
peggio. In Israele il voto per il premier veniva dato su una scheda a
parte: il che dà libertà di scelta. A noi viene invece proposta una scelta
senza libertà di scelta. Chi è di sinistra dovrà votare il candidato il cui
nome è già stampato sulla scheda; e l'elettore di destra al quale magari
piace Casini, oppure Fini, dovrà per forza votare Berlusconi.
I dalemiani si difendono anche sulla base di un'altra differenza, questa:
che il loro premier, se sfiduciato dal parlamento, "presenta al presidente
della Repubblica le dimissioni ovvero la richiesta di elezioni anticipate"
(nuovo testo dell'art. 49 della Costituzione). Ma questo disposto è, ad un
tempo, ipocrita e incongruente. Se un premier ha in tasca il potere di
sciogliere il parlamento, perché mai si dovrebbe dimettere? Nel 1994,
Berlusconi non si sarebbe certo dimesso; e nemmeno lo avrebbe fatto, quando
cadde, Prodi. Tanto più che il testo Tonini dispone che il primo ministro
che "si sia dimesso non può assumere alcun incarico di governo per la
legislatura … immediatamente successiva". E' come intimare: devi sempre
sciogliere, perché se ti dimetti sei davvero un fesso.
Notavo anche che il nuovo articolo 94 è, sarebbe, incongruente. Se il
premier è prodotto da una elezione diretta, come si fa ad avere un secondo
premier che non lo è? Qui vale, per estensione, il principio che il
delegato non può delegare. Un Berlusconi che si dimette non può passare la
sua elezione diretta a un altro. Un altro - si ricordi - che non è stato
eletto alla carica, ma che fruirebbe del privilegio di non dover chiedere
la fiducia al parlamento. Proprio non ci siamo: il gruppo è debole in
diritto. E il mio sospetto è che il pensatoio dalemiano vorrebbe il
premierato israeliano ma che, non potendo riproporre un esperimento fallito
e un modello senza casi (Israele era un caso unico), cerchi di rivenderlo
agli italiani travestito all'inglese.
L'altro punto è, ricordo, il potere di sciogliere il parlamento. Sul punto
la proposta di Tonini dice così: "Se richiesto dal primo ministro il
presidente della Repubblica, sentito il presidente della Camera … indice
elezioni per la Camera dei Deputati, anche anticipate" (nuovo testo
dell'articolo 88 della Costituzione). Per fortuna al premier non viene
consentito di indire elezioni posticipate (che so, di rinviarle di cinque
anni); ma a parte questo divieto, il potere in questione è senza dubbio un
potere discrezionale. "Sentire" il presidente della Camera è un sentire da
nulla, tanto più che il progetto Tonini prevede, con un tortuosissimo
meccanismo elettorale, che il premier "unto dal popolo" fruisca in ogni
caso di una maggioranza del 55 per cento. E dunque, qui, si configura senza
ombra di dubbio un trasferimento di potere dal capo dello Stato al capo del
governo. Al che si può e si deve obiettare che così si crea un grave
squilibrio: il secondo acquista troppo potere, al primo ne resta troppo
poco.
A questa prima obiezione se ne possono aggiungere altre. La seconda
obiezione è che, in linea di principio, il troppo votare è nocivo alla
democrazia. Sotto elezioni i governi entrano in febbre elettorale, rinviano
tutte le decisioni impopolari (anche se necessarie e urgenti), e si danno
alla spesa facile. Insomma, il momento felice del "buon governo" è il
momento nel quale le elezioni sono lontane. A questa considerazione si
oppone che quel che serve è la minaccia di scioglimento, non lo
scioglimento. Vero. Ma poi succede che quando lo scioglimento è reso facile
e non viene deciso da un "potere neutro", finisce che diventa frequente o
comunque finisce per essere un deterrente abusato. Un governo inguaiato che
non sa più che pesci prendere, cerca un diversivo nel rivotare. Il che sta
forse già per succedere.
La terza obiezione, la più importante, è che l'accoppiata di elezione
diretta e di deterrenza elettorale (nel senso appena precisato) ferisce al
cuore il meccanismo che costituisce la ragion d'essere e il pregio dei
sistemi parlamentari. Il loro pregio è di essere sistemi flessibili che si
autoriparano, che rimediano da sé ai loro incidenti di percorso. Invece, il
progetto Tonini prefigura un sistema rigido che non si autoripara: o va
avanti così come è nato, oppure si spacca e ricomincia da zero. Già, si
ricomincia da zero senza tener presente che il più delle volte il rivotare
non cambia nulla perché quasi tutti rivotano allo stesso modo.
Infine, devo ricordare un ultimo difetto (tale per me, si intende) del
disegno di legge Tonini, questo: che costituzionalizza il sistema
elettorale e, peggio ancora, un pessimo sistema elettorale. Il pensatoio
dalemiano costruisce il suo edificio dando per scontato, e così anche
eternizzando, il sistema uninominale a un turno, il maggioritario secco,
che prima criticavo spiegando che è un sistema elettorale fondato sul
ricatto che disastra il nostro sistema partitico frammentandolo oltre ogni
ragionevole misura. Non so se il pensatoio dalemiano sappia di queste
critiche, o se sappia che esistono sistemi elettorali semplici e bene
collaudati che potrebbero facilmente curare le succitate degenerazioni del
maggioritarismo. Fatto sta che il progetto Tonini esibisce una
sovrastruttura di marchingegni che mi fanno pensare a un sistema elettorale
disegnato da Gaudì, il celebre architetto della notissima chiesa di
Barcellona. Di sistemi elettorali mi occupo da parecchi decenni. Ma non mi
sono mai imbattuto in un pateracchio di tanta turgida bellezza.
Passo all'altro progetto, al disegno di legge Bassanini et al. Come già
dicevo, è un progetto pressoché contrario a quello di Tonini. Infatti
rifiuta l'elezione diretta, l'attribuzione al premier del potere di
sciogliere il parlamento, e anche la costituzionalizzazione del sistema
elettorale. Beninteso, anche il progetto Bassanini punta sul rafforzamento
dell'esecutivo, iscrivendosi così nell'ambito del premierato. Ma il testo
Bassanini non viola i principi del sistema parlamentare ed è caratterizzato
da una serie di proposte specifiche sulle quali esiste già da tempo un
largo consenso.
Pertanto non avrei dubbi su quale sia il progetto da preferire. Senonché
nel dire così - preferire - mi trovo inaspettatamente spiazzato da Giuliano
Amato. Il nostro "dottor sottile" è tra i firmatari del disegno di legge
Bassanini. Ma l'altro giorno ha dichiarato di appoggiare anche il disegno
di legge Tonini. Possibile? Se non si trattasse di Amato, che è persona che
profondamente rispetto, griderei al doppio gioco, direi che non si può
sottoscrivere una cosa e il suo contrario. Amato ha spiegato che
sottoscrive entrambi i progetti perché "dobbiamo tutti contribuire alla
unità dell'Ulivo". Ma continuo a non capire. La sintesi tra il diavolo e
l'acqua santa non esiste. E se dobbiamo tutti contribuire alla unità
dell'Ulivo, allora questa unità non può e non deve consistere nella
invenzione di un ennesimo pastrocchio. D'Alema e Amato hanno invece il
diritto-dovere di chiedere a Tonini di ritirare il suo progetto - che è un
pessimo progetto sostenuto da una piccola minoranza - e di sottoscrivere
anche lui, Tonini, il progetto Bassanini, che è un buon progetto sostenuto
da una larga e rappresentativa maggioranza di tutto l'Ulivo.
La sinistra è piena di personaggi che predicano l'unità ma che poi, dopo
aver predicato bene, razzolano male. Se l'Ulivo combatterà la battaglia
delle riforme istituzionali diviso, e cioè con due progetti alternativi che
non sono né conciliabili né da conciliare (Amato mi consenta di insistere:
tra i progetti Tonini e Bassanini non c'è nulla da "connubiare"), allora è
sicuro che la perderà. Altrimenti non è detto. Non è detto perché sulle
riforme è il centro-destra che si trova in grande difficoltà nel trovare
una piattaforma comune.
Qualcuno di voi si chiederà, immagino, perché quasi tutto il mio tempo sia
stato investito nell'analisi delle proposte della sinistra, e non anche
della destra. E' semplicemente perché le proposte del Polo vanno ancora in
ordine sparso. Sono, in sequenza di presentazione, i disegni di legge
Eufemi (UDC) che sposa il cancellierato; Malan (FI) che sposa l'elezione
diretta del premier e altre bellurie del progetto Tonini; e Nania (AN) che
si attesta sulla posizione di bandiera del suo partito, che è il
semi-presidenzialismo. Come si vede, qui si copre tutto l'arco delle
possibilità. Se l'Officina della destra si proverà a rifonderle assieme,
temo che ne uscirà un bel mostro.
Certo è che le avvisaglie non sono incoraggianti. Venerdì scorso 30 gennaio
a Todi, il presidente della Camera Casini si è dichiarato in favore di uno
scioglimento delle Camere deciso dal premier "in concorso con il presidente
della Repubblica", e questo per rendere impossibili i "ribaltoni";
ribaltoni che Casini considera "il cancro della democrazia". Ma, in primo
luogo, cosa vuol dire (in diritto) "concorso"? In Francia il presidente
della Repubblica "può, sentito il primo ministro e i presidenti delle
assemblee, sciogliere l'Assemblea nazionale". Quel "sentire" è vincolante o
no? No, perché la costituzione francese precisa che l'atto di scioglimento
non richiede la controfirma del primo ministro (articolo 19). E in Italia?.
Il nostro capo dello Stato si può rifiutare di firmare?
In secondo luogo, proprio non mi risulta che i ribaltoni siano il cancro
della democrazia. Sulla democrazia io ho letto - per dovere di ufficio, di
probità professionale - centinaia di libri. Ebbene, nella letteratura
internazionale che fa testo non mi sono mai, proprio mai, imbattuto nella
fattispecie del "ribaltone", e tantomeno, quindi, nella teoria che i
cambiamenti parlamentari della maggioranza di governo minaccino in alcun
modo la democrazia. Dal che è giocoforza ricavare che i ribaltoni sono una
ennesima invenzione-fissazione italica. Il punto è questo: che la nozione
di ribaltone non si può applicare (la contraddizione non lo consente) ai
sistemi parlamentari governati dal principio che "il parlamento è sovrano"
(dopotutto vengono detti parlamentari per questo). Si applica invece alla
elezione diretta del premier; e dunque a un sistema che in Israele non c'è
più, e che in Italia non c'è ancora (se mai ci sarà). Pertanto se i
ribaltoni non ci piacciono (non piacciono, in verità, nemmeno a me) un
parlamento è libero, liberissimo, di non farli accadere. Il cancro della
democrazia italiana è un altro: è che ci siamo regalati un capo del governo
in grado di "imbottire i cervelli" - bourrer les crânes , in dizione
originale - e così di preconfezionare le opinioni e le elezioni. Scusate se
è poco.
Stavo dicendo che gli auspici di "buona riforma" che ci vengono da destra
non sono incoraggianti. Se poi il presidente della Camera - che è bravo e
giustamente stimato - sbaglia cancro, allora resto ammutolito. E difatti
qui chiudo, qui mi metto zitto. Ho finito.