il 15-16 giugno vota si per estendere i tuoi diritti



Domenica e lunedì si votano due referendum importantissimi. Riguardano i
diritti di tutti perché indicano una inversione di tendenza contro il
neoliberismo. Sui diritti delle persone, in primis dei lavoratori, non si
tratta. La dignità e la salute non sono merci di scambio e non devono
essere  regolate dal mercato, ma dalla politica come bene comune.

Per l'estensione dell'Art. 18 a tutti i lavoratori, perché il lavoro,
precario e non, non sia il luogo del sopruso
VOTA SI
al referendum sull'art. 18

Per il diritto alla salute, contro gli elettrodotti della morte
VOTA SI
al referendum sugli elettrodotti




Associazione Culturale Punto Rosso - Forum Mondiale delle Alternative



Di seguito trovate due contributi esplicativi




Mario Agostinelli



Si ai diritti!



E' singolare come il dibattito sul referendum per l'estensione del
reintegro da licenziamento ingiustificato anche al di sotto dei 15
dipendenti sia stato finora avvolto da una cortina fumogena che ha sviato
l'informazione sullo sfondo dei calcoli politici e delle responsabilità
individuali, offuscando l'oggetto della discussione, e diffondendo così la
sensazione che ci troviamo soltanto di fronte ad una sorta di incidente da
rimuovere.

Eppure, proveniamo da una straordinaria stagione europea - e non solo - in
cui milioni di persone nelle piazze, nelle assemblee, con scioperi e forum
partecipatissimi, hanno sollevato speranze di cambiamento riscoprendo la
persona, la cultura della pace ed i diritti sociali in contrasto con i
dogmi della globalizzazione liberista.  Tanto più nel nostro Paese, dove
una mobilitazione senza precedenti ha riproposto il lavoro al centro di una
idea rinnovata di cittadinanza solidale. Ma  l'offensiva durissima contro
le conquiste, la rappresentanza e la democrazia dei lavoratori non si è
arrestata e ad una azione vastissima, non solo del mondo del lavoro, ma
anche di settori che hanno travalicato i confini politici tradizionali, ha
fatto riscontro una convergenza tra associazioni padronali e governo
disposta ad infrangere lo stesso tessuto costituzionale e diretta contro
 due cardini quali l'articolo 11 della Carta e l'articolo 18 dello Statuto
dei Lavoratori.

Con questo retroterra, quanto più ci avviciniamo al 15 giugno tanto più
sarà difficile non andare al cuore dei contenuti e continuare solo a
recriminare sulla opportunità più o meno discutibile del referendum.

Muoviamoci subito, allora, con la stessa pacata determinazione di Epifani,
rivolta sia a dar valore alla partecipazione, mentre Berlusconi ci vorrebbe
solo spettatori passivi,  sia ad aprire una impegnativa stagione di riforme
e di estensione per via legislativa dei diritti dopo l'affermazione del si.

In effetti le questioni reali sono tutt'altro che risolte o risolvibili se
il referendum non ci fosse e rimanesse in piedi su due piani complementari
l'attacco del governo italiano e della destra europea di
Aznar-Berlusconi-Blair  contro il modello sociale a cui si ispira tutto il
giuslavorismo del vecchio continente.

Bisogna partire dal fatto che, in contrasto con lo slancio delle
manifestazioni di questi ultimi mesi e con l'ispirazione che stava dietro
le conquiste dello Statuto, la maggior parte dell'esperienza quotidiana nei
luoghi di lavoro - per giovani e ragazze in particolare - è tornata ad
essere lontana da una partecipazione dignitosa e creativa alla produzione
di valore sociale e che la precarietà che oggi contraddistingue la
prestazione lavorativa determina insicurezza ed un'esistenza difficile da
programmare.

La cittadinanza è in pratica scissa dal lavoro e l'estraneità e
l'alienazione rispetto a quest'ultimo sono esse stesse inafferrabili,
perché non si può emancipare o liberare qualcosa che oggi c'è e domani
chissà.

Un'area sempre più vasta, in particolare nel settore delle piccole aziende
e delle prestazioni a tempo, ha sempre più coscienza dei propri diritti, ma
non è in grado di darsi rappresentanza diretta per conquistarli. E'
costretta così a sperare in una attenzione "assistenziale" dall'esterno,
magari anche da parte di un sindacato a cui partecipa per simpatia, ma
senza potersi autocostituire e farne quindi  parte attiva con lotte e
scioperi, o utilizzando permessi o assemblee ad essa inapplicabili.

Questa vastissima porzione del lavoro ha avuto l'intelligenza di guardare
agli strumenti che negli anni del fordismo la classe lavoratrice aveva
conquistato: l'articolo 18, l'assemblea nei luoghi di lavoro, la delega
sindacale, i permessi retribuiti, il collocamento pubblico: tutti
codificati nello Statuto del 1970 e attinenti però ad un modello
organizzativo della produzione che si va riducendo e che li riguarda
direttamente in parte minima. Come conseguenza, mutua da quegli strumenti e
dalla centralità dell'articolo 18 l'idea forte e radicale di estenderli ed
adeguarli alla propria realtà e vede nel si al referendum una occasione per
aprire un percorso non dissimile da quello lungo e aspro che aveva portato
la democrazia oltre i cancelli delle fabbriche trent'anni fa.  A questa
esigenza, che ha preso vigore anche dalle iniziative forti di una intera
stagione, non si può rispondere guardando altrove proprio quando le forze
conservatrici, usando i numeri del maggioritario per svuotare ogni
dialettica sociale, varano i decreti che cancellano la contrattazione e il
controllo del mercato del lavoro in sfregio a milioni di lavoratori in
sciopero o inviano un contingente militare in Iraq a fianco degli
occupanti, a dispetto di migliaia di bandiere che rimangono appese ai
balconi.

Si ritiene d'altra parte realistica l'apertura di una stagione di riforme
per via legislativa destinate all'allargamento del potere del mondo del
lavoro senza contemporaneamente provare a dimostrare a questo Governo,
anche attraverso lo strumento democratico di una consultazione del corpo
elettorale, che la maggioranza del Paese considera questi i temi prioritari
rispetto ad una agenda politica caratterizzata invece dagli affari e dallo
scontro con la magistratura?

Bisogna capire poi che il movimento di Porto Alegre, di Genova e di Firenze
sente vicino il sindacato perché l'impotenza provata di fronte ad un
sistema di impresa che oggi nella sua dimensione globale sfugge ai vincoli
contrattuali cui precedentemente doveva sottostare nei luoghi tradizionali
della produzione, lo porta a puntare su diritti universali anche nei luoghi
di lavoro. Il movimento vive quindi come indispensabile il bisogno di
riunificare  il lavoro tutelato e quello senza leggi e contratti sulla base
di diritti che valgano per tutti. Un obiettivo che rimarrebbe però sulla
carta, se non si desse anche al lavoro cosiddetto informale la possibilità
di autoorganizzarsi e di darsi una sua rappresentanza, senza la quale
qualsiasi conquista non è né importabile né esigibile.

In fondo, Maroni nel "libro bianco" ed i giuslavoristi europei autori del
documento sul lavoro di Blair Aznar e Berlusconi hanno già imboccato una
strada alternativa all'estensione dell'articolo 18: cancellare  i diritti
in essere nel rapporto di lavoro, flessibilizzare al massimo e
destrutturare il mercato del lavoro con la sua privatizzazione ed il
sostegno di ammortizzatori in caso di licenziamento, così da trasformare il
diritto all'occupazione in una perenne attesa di una prestazione a comando.
Il passo necessario al corso di questa strategia sta nell'abolire - altro
che estendere! - il reintegro al licenziamento ingiustificato. L'ineffabile
ministro del welfare, che lo sa bene, al referendum infatti partecipa con
un no tondo.

In questo contesto le perplessità che hanno indotto alcuni ad indicare
l'astensione andrebbero riconsiderate. Infatti solo con la prevalenza del
"si" viene dischiusa la possibilità nei sessanta giorni successivi al 15
Giugno di un percorso legislativo in cui politica ed economia si pongano al
servizio dei diritti.

In questi giorni si legge che le conseguenze del referendum sarebbero
vessatorie per i datori di lavoro e che si renderebbe impossibile la
sopravvivenza di un intero settore dell'economia, con la conseguente
perdita di posti di lavoro. E' facile osservare che la norma attuale è
discriminatoria per i lavoratori e che di questo non se ne parla proprio.
Giancarlo Paletta, nel dichiarare l'astensione del PCI sullo Statuto, aveva
messo in guardia che con la soglia dei 15 dipendenti si sarebbe introdotta
una divisione da recuperare prima o dopo nel mondo del lavoro. Ecco quindi
l'opportunità perché la sfida di rendere esigibile il reintegro per giusta
causa anche sotto la soglia attuale venga modulata nel tempo con una serie
di misure che incidano sulla struttura produttiva e sull'organizzazione del
lavoro in modo tale che la competizione si trasferisca dai costi alla
qualità, alla cooperazione, all'immissione di tecnologia e conoscenza, al
credito agevolato per obiettivi: tutti temi decisivi ma mai affrontati
perchè nella quotidianità si lascia spazio ad un accanimento vero e proprio
sul fattore lavoro.

In questo modo l'Italia, anziché entrare nell'"economia della conoscenza",
obiettivo di un'Europa sociale, e produrre stabilità attraverso la
formazione e la valorizzazione del fattore umano, si fa sostenitrice di un
modello di precarizzazione, incrementando la propria presenza nelle
piccolissime imprese attraverso una attività produttiva di beni e servizi
condizionata da fattori di costo. Con il doppio effetto di portarci in una
zona bassa della competizione internazionale e di condizionare lo sviluppo
dei diritti.

Quando si pensa che tutte le azioni economiche e commerciali di successo
per le imprese minori (distretti, consorzi, trasferimento di tecnologia,
marchi di qualità) ne aumentano virtualmente la dimensione per dare
efficacia a rapporti economico-produttivi di tipo cooperativo, non si
capisce perché una azione per i diritti non debba situarsi in una medesima
prospettiva accompagnandosi a misure ad hoc di politica economica ed
industriale e debba invece sottostare alla peggiore competizione al ribasso.

Tra l'altro, pochi considerano la riduzione della platea degli aventi
diritto che si è già  verificata dall'approvazione dell'articolo 18 ad
oggi, riduzione che dal punto di vista politico, in particolare per la
sinistra, è un problema di non poco conto. A parte il pubblico impiego,
dove l'applicazione vale in qualsiasi unità del territorio nazionale, nel
settore privato l'effetto congiunto dell'aumento degli occupati nelle
piccole imprese, dell'esplosione del lavoro parasubordinato e
dell'estensione abnorme dei contratti atipici, ha comportato dal 1970 ad
oggi la sottrazione del 20% della forza lavoro occupata all'obbligo del
reintegro, con uno scompenso  più sfavorevole per le nuove generazioni.
Sono modifiche strutturali della produzione e dell'organizzazione del
lavoro ad avere provocato questo sconvolgimento, ma è del tutto
comprensibile che la rappresentanza del lavoro chieda ora di correggere
questa asimmetria, che va a totale vantaggio delle imprese.

Da ultimo occorre pensare anche alle prospettive sindacali di un successo
del si. Sul piano dei diritti si potrebbero considerare ad esempio le
comunicazioni anche in rete tra lavoratori dispersi nella catena
produttiva, le assemblee territoriali, i permessi retribuiti a rotazione,
l'accesso allo scambio di informazioni via Internet, locali e bacheche
autogestite in mense interaziendali. Metteremmo infatti alla prova anche
nell'area del lavoro più esposta le tutele del Titolo III dello Statuto,
oggi applicabili solo sopra i 15 dipendenti, che consentirebbero la nascita
di un sindacato "dei" e non "per" i lavoratori, come sta a cuore alla CGIL.

In fondo, con la discussione sul contenuto di  questo referendum stiamo
riscoprendo come la soglia dei 15 dipendenti appartenga ad un modello non
generalizzabile e sia anacronistica rispetto alle prospettive. C'è chi
punta ad abbatterla verso l'alto, ma per estendere a tutti il risarcimento
monetario e chi,  al contrario, ne vuole eliminare l'incongruenza cogliendo
la sfida attualissima del valore del lavoro e dell'irriducibilità della
persona. Questo alla fine è il senso della polarizzazione in atto.

Si tratta di una dicotomia ancora presente nella prospettiva costituente
dell'Europa  e ancora non pienamente risolta nemmeno con la Carta dei
Diritti Fondamentali. Il Forum Sociale Europeo di Parigi, a Novembre,
assumerà il tema della dignità e del diritto universale del lavoro nella
piattaforma con cui andrà al confronto con le proposte della Convenzione,
che fin qui sembrano appannaggio di riservate decisioni di una ristretta
elite guidata da Giscard d'Estaing. Sarebbe imbarazzante trovarci ad un
appuntamento di movimento, magari di massa e condiviso come quello del 2002
a Firenze, per avanzare le stesse richieste che si sono eluse quando erano
in campo in un appuntamento democratico come quello del 15 Giugno.




Domande e risposte sul
Referendum contro la
Servitù coattiva degli elettrodotti
15 e 16 GIUGNO



Cosa è un elettrodotto?
E' una linea elettrica per il trasporto a distanza dell'alta tensione.

Votando sì al referendum che cosa si ottiene?
Viene abrogato un regio decreto del 1933 che stabilisce il diritto di
esproprio, senza alcuna autorizzazione, dei terreni per costruire
elettrodotti. Si tratta della cosiddetta "servitù di elettrodotto".

Cosa è la servitù di elettrodotto?
E' l'obbligo che ha ogni proprietario di permettere il passaggio delle
condutture elettriche attraverso i suoi terreni. E' una norma coattiva.

Cosa significa "norma coattiva"?
Una norma "coattiva" consente di imporre una scelta anche contro la volontà
di chi la subisce. In questo caso l'elettrodotto può essere imposto anche
contro la volontà del proprietario del terreno e contro la volontà e la
programmazione urbanistica degli enti locali.

Gli elettrodotti sono pericolosi?
Producono "elettrosmog" e quindi costituiscono un rischio per la salute.

Cosa è l'elettrosmog?
L'inquinamento elettromagnetico è un inquinamento invisibile e inodore,
prodotto dalla corrente elettrica (centrali elettriche, elettrodotti,
elettrodomestici) e dagli apparati radiotrasmittenti (ripetitori
radiotelevisivi, di telefonia mobile, cellulari, radioamatori, radar, ecc).
L'Organizzazione Mondiale della Sanità e lo Statuto della Comunità europea
invitano ad applicare il principio di precauzione, che afferma che "occorre
usare con prudenza e cautela tutte quelle tecnologie che non risultano
essere sicuramente innocue, superando il criterio corrente per il quale va
ammesso l'utilizzo di processi e prodotti finché non sia dimostrata la loro
nocività." Il problema nasce per i cosiddetti "effetti a lungo termine",
derivanti da esposizioni prolungate anche a dosi di centinaia di volte
inferiori a quelle stabilite per proteggersi dagli effetti immediati (per
esempio un'abitazione situata vicino ad un elettrodotto o un impianto di
radiotrasmissione).

Che effetti può avere l'elettrosmog sulla salute?
Può provocare un aumento dell'incidenza di alcune gravi patologie, tra la
quali la leucemia infantile. Inoltre può diminuire la resistenza delle
difese immunitarie. Gli effetti sulla salute possono essere rilevati solo
da indagini epidemiologiche sulle popolazioni esposte per anni.

Sono più pericolosi i telefonini o i tralicci dell'alta tensione?
Sembra che per le basse frequenze (gli elettrodotti) il rischio sia più
elevato rispetto alle alte frequenze dei cellulari e alle tecnologie
connesse (ripetitori, trasmettitori, ecc.).

Il referendum è in relazione con il "principio di precauzione"?
Sì. Con il referendum, si vuole affermare il principio di precauzione che
dice: occorre usare con prudenza e cautela tutte quelle tecnologie che non
risultano essere sicuramente innocue, superando il criterio corrente per il
quale va ammesso l'utilizzo di processi e prodotti finché non sia
dimostrata la loro nocività. I promotori del referendum affermano: "Non
vogliamo che, nel caso dell'elettrosmog, avvenga come con l'amianto: i
primi studi sulla sua nocività risalgono agli anni 30, mentre gli
interventi legislativi di tutela arrivarono dopo 40 anni e tantissime
vittime".

Perché esiste la norma di imposizione coattiva dell'elettrodotto?
Perché nel secolo scorso occorreva elettrificare l'Italia. Gli articoli di
legge che si vogliono abrogare sono nati quando la gestione dell'energia
elettrica era di competenza statale e bisognava portare l'elettricità a
tutti, permettendo il passaggio di un elettrodotto attraverso le proprietà
pubbliche e private, indipendentemente dalla volontà dei proprietari o
degli amministratori: quando sono state emanate, s'ignoravano i gravi
effetti sulla salute e sugli equilibri naturali dei territori attraversati.
Oggi  dopo una fase di massiccia elettrificazione - i nuovi elettrodotti
devono rispettare la salute e la volontà dei cittadini.

Perché i promotori del referendum ritengono oggi dannosa la "servitù di
elettrodotto"?
Perché la vecchia norma oggi appare uno strumento che favorisce i giochi
della deregolamentazione  e della privatizzazione del settore energetico.
Essa garantisce cioè gli allacci alle centinaia di centrali private che,
attraverso la liberalizzazione, possono essere imposte contro la volontà
delle comunità locali e  consentire la devastazione del territorio della
cosiddetta "alta velocità" ferroviaria (la TAV).

Che rapporto c'è fra il referendum e la privatizzazione dell'energia?
Secondo Roberto Musacchio (PRC) oggi la normativa di cui si propone
l'abrogazione serve di fatto a "garantire gli allacci alle centinaia di
centrali private (oltre 600 richieste!) che con la liberalizzazione
vogliono essere imposte al nostro territorio da parte di multinazionali
grandi e piccole".

Qual è la posizione dei DS su questo referendum?
Sul sito Internet dei DS si legge: "Il quesito referendario propone
l'abrogazione della servitù coattiva di elettrodotto stabilita dall'art.
119 del testo unico sulle acque e gli impianti elettrici (regio decreto del
1933). Questa norma prevede che "ogni proprietario è tenuto a dar passaggio
per i suoi fondi alle condutture elettriche aeree e sotterranee che esegua
che ne abbia ottenuto permanentemente o temporaneamente l'autorizzazione
dall'autorità competente". La vittoria del SI abrogherebbe anche l'art.
1056 del codice civile, che ha un analogo contenuto. La Corte
Costituzionale, nel dichiarare ammissibile la richiesta di referendum, ha
precisato che il quesito riguarda soltanto la servitù coattiva e non si
estende alla procedura espropriativa per pubblica utilità dei fondi
interessati dal passaggio delle condutture elettriche. In altre parole, la
vittoria del SI non impedirebbe la costruzione di nuovi elettrodotti, ma si
limiterebbe a rendere obbligatorio il ricorso alle procedure di esproprio,
con un indennizzo più elevato per i proprietari dei terreni. Tecnicamente è
dunque improprio definire questo referendum come un "referendum
sull'elettrosmog". Il quesito, come abbiamo visto, riguarda solo alcune
procedure relative alla costruzione di nuovi elettrodotti. Non riguarda né
gli elettrodotti esistenti (anzi, uno degli effetti indesiderati potrebbe
essere quello di rendere più onerosi e quindi più difficili gli interventi
di risanamento) né tutte le altre categorie di impianti che generano campi
elettromagnetici, quali ad esempio le antenne per la telefonia mobile ed i
ripetitori radiotelevisivi. Il referendum non incide sulla legislazione
vigente in materia di inquinamento elettromagnetico, né per quanto riguarda
la tutela dell'ambiente nè per quanto concerne la tutela della salute. La
vittoria del SI non modificherebbe dunque neanche i provvedimenti del
governo Berlusconi, che hanno portato ad una negativa e preoccupante
inversione di rotta nella legislazione italiana. Resterebbero infatti in
vigore i decreti con i quali il governo ha recentemente stabilito limiti
talmente blandi, per quanto riguarda i campi magnetici generati dagli
elettrodotti, da vanificare quel principio di precauzione che era base
della legge quadro approvata nel 2001 dal centrosinistra: i valori di
attenzione fissati dal centrodestra sono infatti 20 volte più alti di
quelli previsti dal governo dell'Ulivo e segnalati dagli studi
epidemiologici come valori di cautela. Così come resterebbe purtroppo in
vigore anche il decreto Gasparri in materia di autorizzazioni per gli
impianti di telefonia mobile (…) Per queste ragioni  ritenendo fuorviante,
parziale e sostanzialmente inefficace il quesito referendario  non abbiamo
aderito al comitato promotore del referendum (al quale non hanno aderito
neanche le principali associazioni ambientaliste, né CONACEM, il più
rappresentativo tra i coordinamenti dei comitati contro l'elettrosmog) (…)
La vittoria del SI, come abbiamo visto, non risolve i problemi
dell'inquinamento elettromagnetico: questo va detto, con sincerità ed
onestà".

Qual è la posizione di Beppe Grillo su questo referendum?
Ha detto: "Abrogare questa legge è doveroso, perché se l'azienda è una spa
e non una società pubblica e giusto che debba patteggiarsi i luoghi dove
far passare i cavi elettrici. Ma quello che è importante è capire come
dovrà essere intesa l'energia. L'energia è la nostra politica sanitaria,
industriale. E' la politica vera. Energia e informazione sono i due "cavi"
che chi li detiene ha le briglie per condurre l'umanità. Come vedi le più
grandi società di energia sono i più grandi network di comunicazione.
L'Enel va per la sua strada perché ha un uomo che punta sul futuro, questo
Scaroni. Credo che alcuni anni fa abbia patteggiato un anno e 4 mesi per
appalti finti. Adesso è amministratore delegato dell'Enel. Un uomo di
larghe vedute, che punta sul futuro: infatti con i soldi degli azionisti ha
comprato una miniera di carbone in Bulgaria. Lui il futuro lo vede nel
carbone perché è più democratico, inquina meno... Ho già iscritto mio
figlio a un corso di spazzacamino, poi ho ripreso in mano il piccone. Non
si sa mai, magari si apre la possibilità di qualche posto di lavoro in
miniera. Se le persone addette al nostro futuro sono queste…" (da
un'intervista rilasciata a Liberazione nel mese di maggio 2003).

Qual è in conclusione lo scopo del referendum?
I VAS (Verdi Ambiente e Società) affermano: "Oggi le società private che
producono e trasportano l'energia, utilizzano questa normativa per
prevaricare i diritti dei cittadini e scavalcare le Amministrazioni
comunali, progettando centrali ed elettrodotti che privilegiano gli
interessi delle aziende, tenendo conto solo dei costi per la loro
realizzazione e dei progetti di sviluppo delle società elettriche, a
discapito della salute dei residenti, del rispetto del territorio e delle
economie preesistenti". I VAS così sintetizzano lo scopo del Referendum:
"Dire sì a questo Referendum vuol dire:
SANCIRE il diritto dei cittadini di dire no al passaggio di un elettrodotto
che potrebbe danneggiare la loro salute e l'ambiente in cui vivono,
restituendo il territorio ai cittadini e agli Enti locali che lo
amministrano
FERMARE un modello di sviluppo che, grazie alla bassa incidenza del costo
d'utilizzo del terreno, è basato su pochi e potenti centri di produzione
dell'energia, che viene trasportata e distribuita attraverso una rete
d'elettrodotti sovradimensionata rispetto alle effettive esigenze del Paese
FAVORIRE l'innovazione e lo sviluppo delle tecnologie legate alle fonti
rinnovabili, con un riequilibrio del mercato".

Dove si possono trovare informazioni su questo referendum?
Le informazioni sono disponibili su questi siti (da cui sono state tratte
molte delle informazioni qui riportate):
http://www.elettroreferendum.it
http://www.rifondazione.it/vol/2003html/030227elettrodotti.html
http://www.rifondazione.it/castelli/documenti_fed/altro_referendum.htm
http://www.vasonline.it/news/2003/05_elettrosmog_ref.htm
http://www.lacaverna.it/documentazione/articoli/referendum/articolo6.htm 







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