Fallimento: una legge sulla strada giusta



Da: www.lavoce.info

06-10-2005
Fallimento: una legge sulla strada giusta

Stefano Micossi

Dopo un iter molto travagliato, la normativa sul fallimento esce
notevolmente trasformata dal cosiddetto decreto "competitività" di marzo
(convertito con la legge 80 del 14 maggio) e dai decreti legislativi di
prossima approvazione in attuazione della delega contenuta nella stessa
legge 80. Anche se molti aspetti restano da ritoccare e completare, le
modifiche introdotte costituiscono un indubbio progresso. 
Le principali innovazioni
In primo luogo, si ampliano gli spazi per gli accordi tra le parti nella
ricerca di soluzioni della crisi d’impresa senza (o prima della)
dichiarazione di fallimento, dando certezza giuridica alle operazioni
compiute in attuazione di accordi e piani concordatari. In secondo luogo, si
attribuiscono ai creditori, assistiti dal curatore, le decisioni sulla
gestione delle crisi; la funzione del giudice viene ricondotta a quella
propria di controllo della regolarità delle procedure e di soluzione delle
controversie, con esclusione di ogni compito di gestione. Le procedure
divengono più semplici e rapide, in particolare attraverso l’applicazione
del rito camerale alle controversie insorte nell’ambito delle diverse
procedure.
Tali modifiche rispondono, molto tardivamente, al mutamento dell’ambiente
economico; la maggioranza dei paesi sviluppati aveva imboccato strade
analoghe già da tempo. (1)
Va ricordato, al riguardo, che i meccanismi per la gestione delle crisi
d’impresa giocano un ruolo determinante tra gli incentivi all’assunzione del
rischio. Chi impegna il suo capitale, accetta il rischio di perderlo in
cambio dell’attesa di un guadagno più ampio; chi gli presta i soldi, in
qualche modo partecipa ai rischi dell’impresa. Il mercato assegna un prezzo
a questi rischi e li ripartisce tra le parti. Se l’investimento va male, e
non vi è dolo, non v’è ragione di punire ulteriormente chi già ha perso il
capitale investito. Serve invece una buona procedura per soddisfare al
meglio i creditori e risolvere le controversie. Dove le crisi d’impresa
hanno rapida e facile soluzione, è più conveniente investire. L’aumento
della turbolenza tecnologica e dell’incertezza nell’ambiente economico
accresce il bisogno di procedure semplici e veloci.
Inoltre, i valori delle imprese sono in parte sempre maggiore costituiti da
beni immateriali – marchi e know how sul prodotto, il mercato, la logistica,
l’organizzazione aziendale – che si disperdono rapidamente se l’impresa si
arresta. 
La legge sul fallimento del 1942 era concepita come una procedura di
soddisfazione dei creditori attraverso il sequestro e la vendita di capitali
fisici con valore stabile e oggettivamente accertabile. Quel mondo non
esiste più: l’unico modo per salvare, almeno in parte, le stesse pretese dei
creditori è di assicurare la continuità dell’impresa e dei suoi valori. A
tal fine, conviene incentivare l’emersione precoce della crisi attraverso
istituti, quali la temporanea protezione dai creditori, che consentono
all’imprenditore in difficoltà di guadagnare tempo e di preparare soluzioni
di ristrutturazione dell’attività concordate con i creditori.
L’evidenza empirica lascia pochi dubbi: il nostro attuale sistema,
apparentemente centrato sulla tutela assoluta dei creditori, è del tutto
inefficiente. Il tasso di recupero dei crediti iscritti ai fallimenti è
inferiore al 14 per cento, un altro 5 per cento è assorbito dalle spese
legali; il restante 80 per cento va disperso. La durata media delle
procedure è di oltre otto anni e continua ad aumentare.
Il confronto internazionale evidenzia anche che il problema non è
risolvibile con qualche snellimento procedurale. Occorre abbandonare la
logica liquidatoria e puntare su soluzioni che pongano al centro la
continuazione dell’attività dell’impresa, sotto il controllo dei creditori. 
La riforma è incompleta
Vari aspetti restano, però, da correggere e altre misure sono necessarie. 
Serviva una procedura efficace di gestione delle crisi d’impresa prima del
fallimento, ora abbiamo tre diverse possibilità – il piano di riordino, gli
accordi stragiudiziali e il concordato preventivo – con incerti confini e
vari effetti e modalità di accesso; mentre si è mantenuta una tutela
assoluta dei creditori privilegiati, che semplicemente non è compatibile con
la nuova impostazione. Accanto alle procedure di crisi pre-fallimentari, si
è modificato anche il concordato fallimentare, consentendo atti gestori
tipici di un’azienda che può ancora salvarsi: a causa del trattamento meno
favorevole qui riservato ai creditori privilegiati, vi è il rischio di
incentivare comportamenti opportunistici del debitore insolvente,
spingendolo verso la dichiarazione di fallimento. Sono rimaste molte
sanzioni sul fallito senza dolo. Né si sono modificate le norme penali e
fiscali collegate, con l’effetto possibile di limitare l’utilità e la
praticabilità delle nuove procedure.
Sarebbe stato anche desiderabile eliminare la procedura di amministrazione
straordinaria, oggi concessa a discrezione del principe, innalzando al
contempo le soglie di applicazione delle procedure concorsuali, in modo da
riservarle alle sole imprese di dimensione significativa, per le quali abbia
significato impostare piani di ristrutturazione e vi sia un interesse
pubblico alla continuità dell’azienda.
Infine, i benefici di efficienza e tempestività dei procedimenti non
verranno, senza la creazione presso i tribunali di sezioni specializzate per
le materie economiche e commerciali.
Le resistenze del mondo del diritto
Colpisce la resistenza di larga parte del mondo del diritto a molti aspetti
centrali dell’intervento riformatore. Ciò sembra riflettere una cultura
giuridica ancora sospettosa del mercato e dell’autonomia privata.
Tre obiezioni, in particolare meritano risposta per l’autorevolezza di chi
le ha formulate. 
La prima: eliminando lo stigma sul fallito e la punizione penale di chi non
paga i debiti, si è detto, si è eliminato il rischio d’impresa, dunque
l’essenza stessa del capitalismo. Ma l’obiezione non sembra centrata: perché
il rischio tipico dei sistemi capitalistici è quello di perdere il capitale,
non quello della gogna per debiti, con la perdita della reputazione e del
diritto di operare come imprenditore. Il mercato può assegnare un prezzo al
primo rischio, è anche in grado di decidere, in seguito, se chi è fallito
meriti o no una seconda chance. Ma di fronte alla minaccia della gogna,
l’investitore tenderà ad astenersi, andando a cercare altrove le sue
opportunità.
La seconda obiezione investe l’istituto dell’esdebitazione, cioè
l’estinzione anche dei crediti rimasti insoddisfatti alla fine della
procedura. Si creerebbe in tal modo un incentivo perverso a rischiare più
del dovuto, a danno dei creditori espropriati. Il problema esiste e può
essere affrontato, ad esempio rendendo difficile l’accesso ripetuto delle
aziende o delle persone alla protezione dai creditori. Ma senza
esdebitazione alla fine della procedura, i creditori potrebbero continuare a
inseguire il debitore senza limiti di tempo e la stessa possibilità per
l’azienda di ripartire sarebbe compromessa. Il giurista può tendere qui a
sottovalutare la capacità del mercato di assegnare un prezzo ai diversi
istituti che ne regolano il funzionamento, modificando di conseguenza i
comportamenti: l’esdebitazione tenderà a generare minori affidamenti e tassi
di interesse più elevati, laddove maggiore è il rischio di perdere il
capitale.
Infine, la terza obiezione: si sarebbero troppo favorite le banche, presso
le quali si concentra la maggior pare dei crediti. Vi è il timore che i loro
interessi possano prevalere nella gestione delle procedure di crisi, a
discapito dei debitori minori. A me sembra, al contrario, che si dovrebbe
essere contenti di avere qualcuno con i muscoli finanziari e le competenze
per gestire le crisi e tentare di salvare il salvabile. Il creditore minore
che si sentisse danneggiato dalle decisioni del comitato dei creditori potrà
sempre sollevare la questione davanti al giudice. Se ciò apparisse
necessario, dopo le prime esperienze applicative, si potrebbero anche
prevedere speciali tutele per i creditori minori, inclusa la possibilità di
liquidazione precoce, come già avviene in altri ordinamenti. Si critica
anche, perché ritenuta troppo favorevole alle banche, la nuova disciplina
dell’azione revocatoria: ma solo rimovendo certe macroscopiche storture del
sistema precedente (2) si poteva rendere possibile alle banche di svolgere
il ruolo più attivo nella gestione delle crisi che le nuove procedure
consentono.
In conclusione, il nuovo sistema non è perfetto e richiede ulteriori
interventi. Tuttavia, abbiamo imboccato la strada giusta; ora si dovrebbe
anzitutto iniziare ad applicare la nuova disciplina, incluse le procedure
concorsuali già aperte, appena trascorsa la vacatio legis di sei mesi.
Inoltre, sarebbe opportuno istituire un sistema di monitoraggio
dell'efficienza delle procedure concorsuali, anche mentre sono in corso (ora
si raccolgono dati solo al momento della chiusura). La nuova legislatura
potrà dedicarsi a completare il disegno normativo.

(1) Si veda al riguardo il saggio di Massimo Belcredi, Le soluzioni
concordate alle crisi d’impresa: profili economici e finanziari, Relazione
presentata al convegno su "Crisi dell’impresa e riforma delle procedure
concorsuali", Courmayeur, 23-24 settembre 2005. 
(2) Ad esempio, una distorsione storica è quella dei pagamenti effettuati su
conto corrente, che alcuni giudici revocavano per somma aritmetica e
movimenti: un fido di 100, con disponibilità utilizzata, e poi ricostituita
dieci volte tramite rimesse dal debitore, dava così luogo ad azione
revocatoria nei confronti della banca per 1000