[TarantoOnLine] ILVA. "E' lecito dubitare che un produttore di acciaio possa essere veramente interessato a riproporre l’operazione non riuscita ad Arcelor Mittal"



Con la pubblicazione della sentenza del Tribunale di Milano del 29 febbraio scorso, è stata formalmente dichiarata l‘insolvenza di Acciaierie d’Italia S.p.A., la società affittuaria dei rami di azienda “ex Ilva” (tra cui anche gli stabilimenti di Taranto e Genova), partecipata al 38% dallo Stato italiano (tramite Invitalia S.p.A.) al 62% dal gruppo Arcelor Mittal. 

Acciaierie d’Italia, Il futuro incerto dello stabilimento di Genova e il destino delle aree



I debiti del gruppo AdI sono stimati complessivamente in circa 3 miliardi di euro (di cui circa 1 miliardo nei confronti dei fornitori di energia e dell’indotto) e, pertanto, analogamente a quanto accaduto per il gruppo Ilva, è ragionevole attendersi che la verifica dello stato passivo da parte dei giudici milanesi sarà estremamente lunga e complessa. L’accertamento dell’insolvenza in via giudiziale si è reso necessario a seguito dell’ammissione di Acciaierie d’Italia alla procedura di amministrazione straordinaria per il risanamento delle imprese di grandi dimensioni (la c.d. “Legge Marzano”, emanata nel 2004 per consentire la ristrutturazione del gruppo Parmalat) disposta, su richiesta di Invitalia, con decreto del Ministero delle Imprese e del Made in Italy del 20 febbraio scorso. 

Invitalia è stata legittimata a richiedere l’ammissione di AdI all’a.s. in forza di una modifica legislativa introdotta da un decreto-legge nel gennaio 2024 in cui il governo ha previsto che, nel caso di società non quotate che gestiscano almeno uno “stabilimento industriale di interesse strategico nazionale” (qual è considerato lo stabilimento di Taranto) e siano partecipate dallo Stato, i soci (direttamente o indirettamente) titolari almeno del 30% del capitale sono legittimati a chiedere l’ammissione della società a tale procedura in caso di inerzia dell’organo amministrativo. 

Nel caso di specie, il socio di maggioranza, Arcelor Mittal, era contrario all’ammissione della società all’a.s. che inevitabilmente avrebbe affidato la gestione della società ai commissari di nomina ministeriale. L’organo amministrativo di Acciaierie d’Italia, espressione di Arcelor Mittal, ha quindi provato invano ad opporsi all’ammissione della società all’a.s. chiedendo l’accesso a strumenti di risanamento diversi e meno invasivi, quali la composizione negoziata della crisi e la procedura di “concordato in bianco”. Il ricorso a tali strumenti, peraltro, è stato espressamente proibito dal decreto-legge di gennaio in cui il governo ha precisato che l’istanza di accesso all’amministrazione straordinaria avrebbe reso improcedibili eventuali domande di accesso ad altri strumenti di regolazione della crisi e alla composizione negoziata e, che ove, quest’ultima fosse pendente (come era nel caso di AdI), avrebbe dovuto essere archiviata. 

Aldilà delle complessità del quadro normativo, sorge spontaneo chiedersi come sia possibile che una società destinata ad acquistare gli stabilimenti “ex Ilva”, controllata da Arcelor Mittal (il più grande produttore al mondo di acciaio) possa essere dichiarata insolvente e, conseguentemente, che le sorti delle maggiori acciaierie italiane (ed europee) siano riaffidate, nel giro di pochi anni, nuovamente ad una procedura concorsuale. 

Giova ricordare che nel 2017 la gestione degli stabilimenti dell’Ilva fu aggiudicata dalla procedura di a.s. alla cordata Arcelor Mittal-Marcegaglia, che aveva prevalso sulla cordata Jindal-Arvedi-CDP. Gli accordi originari prevedevano sostanziali investimenti negli impianti (per ovviare alle note problematiche ambientali) e il pagamento di circa 1,8 miliardi per le aziende del gruppo Ilva a titolo in parte di canoni di affitto e in parte di prezzo degli impianti da versare al momento dell’acquisto (subordinato a diverse condizioni). 

Nel 2019, Arcelor Mittal (nel frattempo rimasto unico affittuario in quanto Marcegaglia fu costretta subito dopo l’aggiudicazione a sfilarsi per problematiche antitrust) recedeva dai contratti di affitto degli stabilimenti giustificando tale decisione con il fatto che il parlamento italiano non aveva rinnovato l’immunità penale necessaria, secondo Arcelor, per l’attuazione del piano ambientale durante la gestione degli stabilimenti. I commissari dell’Ilva contestavano la legittimità del recesso, si muoveva anche la procura di Milano ipotizzando varie ipotesi di reato e i fornitori dell’indotto che chiedevano sequestri nei confronti di Arcelor a garanzia del pagamento dei loro crediti da forniture. 

Per comporre la vertenza, il governo italiano (allora presieduto da Giuseppe Conte) raggiungeva nel 2020 un accordo che prevedeva che Arcelor continuasse a gestire gli stabilimenti “ex Ilva”, lo Stato entrasse nel capitale della holding di controllo di AdI e i due soci facessero fronte alle esigenze finanziarie capitalizzando la società. A partire da quel momento, AdI usciva dal perimetro di consolidamento del gruppo Arcelor Mittal e cessava di beneficiare del cash pooling del gruppo e delle forniture intragruppo agevolate di materie prime. In pratica, Arcelor Mittal compiva in quel momento un passo decisivo verso il disimpegno o, nella visione più ottimistica, rimaneva disposto ad investire a condizione che lo Stato facesse la sua parte. 

Complice prima il calo della domanda di acciaio durante la pandemia, poi la riduzione dei margini per l’incremento dei costi di produzione dovuti alla crisi energetica e, infine, alcune frizioni con il management italiano espressione di Arcelor, la partnership pubblico-privata non decollava. I due soci della holding contestavano i reciproci inadempimenti agli accordi del 2020. La produzione veniva ridotta sensibilmente (si passava dai 6 milioni di tonnellate preventivate a poco più di 3 milioni), AdI ricorreva sistematicamente alla cassa integrazione, la manutenzione degli impianti veniva ridotta al minimo, l’accesso al credito risultava estremamente difficoltoso per le incertezze sulla continuità del gruppo e, conseguentemente, si accumulavano debiti ingenti nei confronti dei fornitori (molti dei quali praticamente monocliente). 

Fino all’ultimo si è sperato che Invitalia e Arcelor trovassero un accordo (lo stesso Tribunale di Milano ha provato fino all’ultimo a mediare). Alla fine, tuttavia, apparentemente anche a causa dell’intransigenza dimostrata dal management italiano di Arcelor, il Governo ha deciso di tirare dritto e ottenere l’ammissione di AdI alla procedura di a.s. Diversi ministri si sono subito affannati per rassicurare tutte le parti coinvolte, incontrando rappresentanze sindacali, maestranze e fornitori, hanno promesso di finanziare in via d’urgenza AdI ed emanato provvedimenti ad hoc a favore dei dipendenti e dell’indotto estendendo la prededuzione per i crediti dei fornitori (che altrimenti sarebbero chirografari) e prevedendo la garanzia Sace per i finanziamenti delle PMI fornitrici dell’Ilva. 

Rispetto alla procedura di a.s. del gruppo Ilva, peraltro, la procedura di AdI presenta in linea di principio ancora più criticità. Il gruppo, infatti, non ha praticamente attivo per soddisfare i suoi creditori, è unicamente il gestore degli impianti di proprietà del gruppo Ilva in a.s. sulla base di un contratto di affitto prossimo alla scadenza. Pertanto, il soddisfacimento dei creditori dovrebbe venire dai flussi di cassa dell’attività di impresa, la cui prosecuzione, oltre al rinnovo dell’affitto, prevede anche ingenti investimenti per fare fronte agli adempimenti previsti dal punto di vista ambientale. La stessa intenzione del governo di erogare l’ennesimo “prestito ponte” di 320 milioni rischia, quindi, di essere del tutto insufficiente per assicurare la continuità del gruppo AdI. 

Si aggiunga che, aldilà dell’interesse sbandierato dal governo di un presunto interesse di diversi gruppi industriali per gli stabilimenti “ex Ilva”, è quantomeno lecito dubitare che un produttore di acciaio possa essere veramente interessato a riproporre l’operazione non riuscita ad Arcelor Mittal (basti pensare che il gruppo Arvedi, uno dei candidati più accreditati, fattura meno di 4 miliardi di euro mentre il gruppo Arcelor Mittal fattura poco meno di 80 miliardi di dollari). Allo stato, invero, appare più realistica una prosecuzione su scala ridotta dell’attività degli impianti di Taranto che avrà comunque delle ricadute notevoli a livello occupazionale (oggi i dipendenti diretti degli stabilimenti di Taranto sono ancora oltre 10.000). Estremamente problematica appare anche la situazione dell’indotto che difficilmente vedrà soddisfatti i propri crediti da parte dell’a.s. di AdI nonostante la prededuzione garantita ex lege (come era già avvenuto nel caso dell’a.s. dell’Ilva) e potrebbe non giovarsi della garanzia Sace in quanto difficilmente il sistema bancario affiderà in tempi brevi delle imprese che hanno AdI come principale (se non unico) cliente. Anche con riferimento a tali imprese (che ricordiamo danno lavoro a migliaia di dipendenti) è lecito quindi attendersi importanti ricadute a livello occupazionale e rischi di pregiudizio alla continuità aziendale. 

I problemi degli stabilimenti di Taranto finiscono inevitabilmente per ripercuotersi anche sullo stabilimento di Genova che, privo oramai da anni di aree a caldo, lavora unicamente i semilavorati provenienti da Taranto (i coils) producendo sostanzialmente latta. Trattasi di una produzione complementare e profittevole (ora ridotta al minimo) che avrebbe senso mantenere di fronte ad un piano di investimenti realistico e affidabile dell’intero gruppo. Diversamente, come più volte prospettato dalle autorità liguri, sarà inevitabile iniziare a ragionare in concreto su ipotesi di conversione delle aree dello stabilimento “ex Ilva” di Cornigliano che, per dimensioni e posizione, sono ragionevolmente appetibili per attività d’impresa diverse dalla produzione di acciaio.

Eugenio Bissocoli

Repubblica 12.3.2024